Monte Cuccaro, il monte dei banditi di Gallura del XVIII Secolo

di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi

Nell’agosto 1720 la Gallura con tutta la Sardegna passava sotto il dominio dei duchi di Savoia.

Nel 1734 la Gallura e il Logudoro erano pieni di bande di fuoriusciti. Tra i capi di questi malviventi vi erano alcuni benestanti e cavalieri, il Corda, il Marcello, il Fais.

Il Governo cominciò ad operare con energia per reprimerli ed essi, non credendosi più sicuri nelle foreste del Sassu dove potevano essere un giorno o l’altro facilmente assaliti, chiesero ai fratelli Addis in Gallura – capi delle potenti famiglie Tortu e Suelzu, padroni di Monte Cuccaro e di quelle zone deserte – ospitalità nella loro cussorgia; quindi, accolta favorevolmente la domanda, vi si trasferirono in duecento e si alloggiarono sul Cuccaro con le loro donne e i bambini.

Venuto in Sardegna come nuovo Viceré, il marchese di Rivarolo si dedicò col massimo impegno a reprimere i cuccaresi: inviò contro loro truppe scelte e molti furono presi ed esemplarmente giustiziati: fu tanto il terrore sparso che gli altri si rifugiarono in fretta in Corsica. Così tutta la provincia settentrionale fu sgombrata dai malviventi.

Nel 1737 il Viceré visitò la Gallura e fu felice di vedere i popoli contenti per la ristabilita tranquillità.

Nel 1745 molti dei fuoriusciti in Corsica tornarono e si radunarono di nuovo nel Cuccaro insieme ai nuovi banditi sorti dopo il governo del Rivarolo: le scorrerie si rinnovarono, e così frequenti che molti sospettarono ci fossero appoggi stranieri contro il possesso dell’isola da parte dei Savoia. Il Governo tentò in principio di spargere fra i capi delle bande semi di diffidenza e di discordia: si fecero proposte ad uno dei capi (Leonardo Marceddu), ma invano. Allora si deliberò di usare le armi, ma i banditi come lo seppero subito fortificarono le loro posizioni costruendo nella parte più ripida del monte, che dava accesso alla sommità, alcune mura con feritoie per i fucili.

Contro di loro marciò il colonnello Sumaker con compagnie scelte del suo reggimento svizzero e una di miliziani: si accampò presso San Michele a mezzo miglio dai nemici, e da lì mosse all’assalto conquistando subito con abilità una postazione avversaria. Non ne ebbe però gran vantaggio per l’ostinata resistenza dei banditi i quali, benché in numero inferiore, pieni di coraggio e favoriti dal luogo, non vollero più cedere un palmo di terreno, vergognosi anzi di aver fatto alcuni passi indietro nel primo momento, quando il nemico aveva caricato con tutto il suo vigore.

Sumaker, visti uccisi 75 dei suoi e con un gran numero di feriti, fece suonare la ritirata, che degenerò in una precipitosa fuga quando i banditi, desiderosi di cancellare l’onta della piccola perdita subita all’inizio, li inseguirono alle spalle.

La disfatta delle truppe reali rafforzò l’animo dei ribelli e il Cuccaro si affollò di nuove genti. La rapina era il solo mezzo per dotare questo popolo raccogliticcio delle cose necessarie e principalmente era il Logudoro obbligato a tutte le spese.

Nel 1746 i capi principali delle bande alleate più famose per il coraggio e i delitti erano – dopo Leonardo Marceddu di Pozzomaggiore – il terribile Giovanni Fais di Chiaramonti, Don Antonio Delitala e i fratelli Don Francesco e Don Pietro Delitala Pintus di Nulvi, Don Girolamo Delitala nativo della medesima e domiciliato in Ploaghe, Don Francesco Delitala di questo stesso paese, e Pietro Amatore Mula di Orosei. Gli Addis caduti in disgrazia del Governo per aver dato rifugio e aiuto a queste bande strinsero alleanza coi sopra nominati personaggi e in più portarono con loro settanta uomini.

Fu ordinata per sgominarli una nuova spedizione guidata dal comandante dei dragoni conte Craveri e dal baronetto Bosquetti.

Persuasi di aver attirato dalla loro parte uno degli Addis, credettero di averla vinta: Craveri assalì il monte da due parti e si impadronì di alcuni ripari, il Busquetti andò invece all’altra salita e respinse i pochi difensori sino alla sommità del monte.

Fu in quel momento che l’Addis Tortu diede il segnale ai banditi che si erano tenuti nascosti per dare coraggio agli assalitori di salire. Essi uscirono improvvisamente, corsero sulle tre parti assalite e caricarono gli assalitori furiosamente. Le truppe, colte da grande spavento, si abbandonarono ad una fuga disperata lasciando bagagli, cavalli e ogni altra cosa.

Inoltre contro le truppe reali accorreva una folta truppa di aggesi fautori degli Addis. Solo che, quando i cuccaresi – giunti alle spalle dei fuggitivi a San Pietro di Rudas – videro gli aggesi, si fermarono, credendoli contingenti in aiuto dei soldati; e così fecero gli aggesi vedendo arrestarsi i cuccaresi: essendo troppo inferiori di numero, non era d’altronde conveniente attaccarli.

I cuccaresi raccolsero allora le spoglie nemiche, si vestirono per scherzo con le cappe rosse dei dragoni e si divertirono a terrorizzare quelli che erano rimasti sul monte, uomini, donne e fanciulli; i quali vedendo tornare vittoriosi i soldati avevano pensato che fosse cambiata la sorte. Dopo però decisero, con una deliberazione comune, di restituire tutte le robe dei soldati.

Nel 1748 anche il Viceré Valguarnera rivolse la sua attenzione contro i cuccaresi. Avendo però osservato come le spedizioni guidate da capi stranieri erano finite male pensò di affidare ai locali l’impresa, e scelse come suoi commissari due uomini di molto valore e provata fede, Don Giovanni Valentino di Tempio e Girolamo Dettori di Pattada, assegnando loro un sufficiente numero di soldati.

Nel 1749 Valentino – pratico dei luoghi e assistito da molti paesani di valore – si mise con tutto l’impegno a cercare quei malviventi: ne sorprese un gran numero lontani dal Cuccaro, li mise in fuga e impedì che potessero rifugiarsi di nuovo sul monte. I fuggitivi, pieni di diffidenza e di paura, avrebbero voluto evadere e ritirarsi in Corsica, invece – impediti da tre galeotte che il Viceré per consiglio di Valentino aveva mandate a controllare quelle coste – si trovarono in grandissimo pericolo.

La guerra che Valentino fece contro quei facinorosi fu così tenace che duecento di essi o caddero morti negli scontri, o arrestati e subito impiccati agli alberi.

Molti furono visti penzolare lungo il cammino che dicono della Scaffa: del restante numero soli 63 poterono salvarsi ritirandosi in Corsica, gli altri furono costretti a condurre una vita durissima sui monti perché Valentino era sempre vigile contro di loro.

Spesso usava l’astuzia. Una volta si finse gravemente ammalato e quando fu creduto o moribondo o morto i malfidati banditi se lo videro piombare addosso. Un’altra volta mentre si trovava nel dipartimento di Orani, che con la Gallura era governato da lui, fece spargere la voce della sua morte. Ci si credette, i banditi si tranquillizzarono e uscirono dai nascondigli, si radunarono, ed ecco, mentre festeggiavano, la voce del Valentino che li stordisce e le sue armi che infrangono la resistenza.

Il Sovrano non mancò di premiare le sue benemerenze e il 14 aprile 1750 gli concesse di succedere a Don Carlo Manca come governatore del Goceano. Valentino amministrava bene il territorio e questa capacità era da attribuirsi ai suoi talenti. Era ben servito dai suoi, e sebbene li conducesse nei maggiori pericoli nessuno si scoraggiava, sempre persuasi del felice esito; e questa persuasione nasceva dal vederlo sempre – prima di fare qualsiasi passo – andare a consultare una monaca sua parente che era generalmente tenuta in conto di persona santa e spesso compiaciuta di comunicazioni celesti.

Non mancavano però gli avversari di Valentino, e così una lettera calunniosa scritta da molti “gentiluomini” lo rese sospetto al governo. Si spedì da Tempio ad Orani contro di lui con delle truppe Don Antonio Fois, e Valentino sarebbe stato arrestato se un prete, presso il quale aveva pernottato il Fois, non lo avesse avvisato del pericolo. Valentino restò attonito dinanzi a un così grande ed improvviso cambiamento della sorte e tanto fu il suo dolore che morì entro le 24 ore. La calunnia in seguito fu scoperta e a Don Giovanni restituito l’onore.

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