Usi e consuetudini

di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi

Obblighi dei pastori coi padroni (pupiddi). Non tutti i pastori sono proprietari del bestiame che pascolano, ma molti lo ricevono in consegna a certi patti.

La consegna si suole fare nel giorno di san Giovanni, e si devono presentare almeno dieci vacche da mungere. I capi nuovi frutto del capitale ottenuto saranno spartiti, e anche il formaggio andrà diviso in parti eguali.

Il pastore può prendere dalla parte comune una pinta (un secchione) di latte per il vitto della sua famiglia, e in compenso deve dare ogni anno al proprietario per ogni segno di vacche due dozzine di buttoni, in peso di 60 libbre, ed altrettanto per le capre. Il formaggio deve essere fatto dopo san Giovanni, e se non ha provveduto compenserà in altro modo il padrone. Perché però in quel tempo suol mancare il latte si lavora prima.

Alle feste natalizie e nel carnevale il pastore offre al principale un castrato o un maiale di un anno o un mezzo corpo vaccino con le cervella, il cuoio e la lingua: a metà quaresima deve dare sei formette di formaggio fresco (pischeddi): a pasqua o due capre e un capretto o due montoni e un agnello o un agnello di un anno, secondo la specie che si ha, dandosi di tutte se si abbiano tutte.

Verso la metà di maggio il padrone accompagnato dal pastore va nella cussorgia per la marchiatura portando per il mangiare pane, vino e verdure. Della bestia, detta di focu (fuoco), che si ammazza in quel giorno, egli riceve in dono la metà con la pelle; inoltre prende una pezza di formaggio fresco e fa lavorare a suo piacimento tutto il latte di quel giorno.

Il pecoraio quando porta al padrone la lana deve pure offrirgli un capo. L’incremento del bestiame si lascia sempre a fondo a tutela del proprietario. Quando si fa la vendita il prezzo viene diviso.

Il 24 giugno si fa festa negli stazzi e quanti vi partecipano mangiano il latte preparato a casu-furriatu. La metà tocca però al padrone.

La ponitura. Tra i pastori galluresi, se qualcuno di essi è povero e voglia procurarsi un capitale con le varie specie di bestiame, o se qualche disgraziato voglia rifarsi dei danni patiti, non deve far altro che presentarsi agli altri pastori, e dopo aver visitati gli stazzi della propria e di altre cussorge si troverà possessore di un buon numero di bestiame.

Non è molto che un pastore di ritorno alla sua capanna dopo 13 giorni di assenza condusse circa 160 capretti che gli erano stati donati, dalla vendita dei quali si comprava capre e pecore.

Lu Capidannu. Sino agli ultimi anni del secolo XVIII i pastori, quando era finita l’opera della raccolta e lavorazione del latte («lattificio), raccomandati i branchi ai servi o ai figli, ritornavano nel proprio paese a passarvi il settembre e l’ottobre, la qual cosa essi dicevano “fare lu capidannu” (fare il capo d’anno o il settembre). Ora tale consuetudine è osservata da pochi, poiché quasi tutti restano nei loro stazzi.

I ragionatori. In quei deserti, nascendo non di rado delle liti, o dolendosi qualcuno di aver ricevuto una ingiuria, si chiamavano gli uomini probi della cussorgia perché facessero “giustizia” [«ragione»], i quali indicavano il luogo del congresso e segnavano il giorno del giudizio.

Le due parti contrapposte convenivano con le persone che erano necessarie a fare da testi e con le parentele: si proponeva, si rispondeva, si esaminavano bene le cose, e si metteva fine alla discussione con una pronta sentenza. Alle decisioni di questi saggi ci si poteva appellare con un nuovo giudizio composto da un maggior numero di uomini probi.

Quello che si decretava da questi doveva assolutamente essere accettato. Qualcuno che ben conosceva la legge e le pratiche forensi intervenuto casualmente in siffatte curie silvestri ebbe a lodare nei giudicanti la sagacità della mente e la giustezza del ragionamento, in forte contrasto con i cavilli del foro e con gli inetti ragionamenti che oscurano le cose chiare e imbrogliano tutto.

Dirò in breve di una causa trattata alla presenza di un attento spettatore. La contesa riguardava una certa azione un po’ ardita di un giovane pastore verso una fanciulla. Poiché la sentenza emessa gli sembrava troppo dura, i vegliardi risentiti della sua alterezza si levarono da sotto il frondoso ulivastro, dissero ai presenti che erano rimasti molto turbati: “Noi abbiam detto e fatto la giustizia”, quindi salutavano per tornarsene alle loro case.

Quando ecco uno dei suoi parenti più prossimi che stava appoggiato al vecchio tronco d’un leccio col mento barbuto poggiato sul dorso delle mani e sulla bocca del fucile, sollevare il capo e ravvivandosi nello sguardo, stendere la destra ai ragionatori: “fermate, amici, la cosa deve finirsi in questo momento”; quindi voltatosi verso il nipote con volto e accenti risoluti e portando la destra sul fucile sbottava con queste parole: “Su, senza indugio, o ubbidisci al parere de’ ragionanti, o…” Egli, dopo una intimazione così terribile non esitò più e andò dalla parte offesa a chiedere perdono. Allora lo zio, contento, si fece avanti e domandò per lui la fanciulla, si fece il fidanzamento, e felicemente sistemata la faccenda, entrambe le parti prepararono il pranzo comune.

Con la mediazione di questi buoni vecchi spesso si sono composte in un giorno tali liti, a risolvere le quali per via giuridica si sarebbe spesa la metà del patrimonio e sarebbero occorsi alcuni anni, e quel che più conta si sono spente feroci inimicizie e guerre sanguinose con paci stabili. Grande è la generosità di questi ragionatori che vanno per mesi da una all’altra regione per comporre le differenze e placare gli animi sdegnosi. La loro ricompensa è tutta nella riverenza di cui sono onorati dopo che abbiano con soddisfazione comune deciso qualche lite, od operata qualche riconciliazione. Sono appellati saggi, e veramente molti di essi sono degni di tal nome.

Le paci. Dopo gli accordi fatti o da probi uomini o da qualche ecclesiastico rispettabile, composte le differenze e pattuiti gli interessi, si concerta sul luogo e l’ora della riconciliazione. Spesso questa solennità la si usa fare in aperta campagna presso qualche cappella, poiché alcuni tra gli intervenuti diffidano della giustizia.

Dunque nel giorno stabilito le due parti si muovono con tutta intera la parentela e gli amici, e tutti armati come se dovessero combattere. Giunti presso il luogo indicato si fermano ad una certa distanza gli uni dagli altri, osservandosi con molta cautela come a fidarsi poco, silenziosi e foschi come se siano lontani da ogni pensiero di pace.

Gli arbitri o pacieri compaiono in mezzo, quindi si avvicinano alle parti per vedere non sia nata alcuna novità, o si vacilli nelle prese deliberazioni, e laddove sia sopravvenuta qualche difficoltà si studia sollecitamente ad appianarla, in modo che pace possa essere fatta.

Ecco il sacerdote. Al vedere nelle sue mani il crocifisso abbassano e depongono le armi, si tolgono il cappello da testa e si muovono e avvicinano (la parte dell’offeso alla destra, quella dell’offensore a sinistra). Il prete sale sopra un sasso e ragiona sulla carità fraterna, sul precetto del perdono, propone l’esempio di Cristo che prega per i suoi carnefici, dimostra la necessità di riparare il male fatto, e parla su altri argomenti relativi, terminando con una affettuosissima esortazione. Dopo la quale discende, e ripresa la croce chiama gli offensori…

Grande spettacolo delle passioni quando le due fazioni da una e dall’altra parte si avvicinano al sacerdote. Gli occhi scintillano, si scolorano le facce, suonano fremiti d’ira, strida di dolore, da uomini, da donne, da fanciulli, da vecchi, che si trovano davanti gli uccisori dei figli, dei padri, degli sposi.

Le parole evangeliche suscitano nelle anime i migliori sentimenti, e appare la lotta dei diversi affetti. Le fronti si rilassano, le minacciose sopracciglia si abbassano, lo sguardo si abbassa, prorompono i sospiri, grondano le lacrime; e la scena di ferocia e di orrore cambia in una scena di pietà e tenerezza. La commozione sale al massimo quando gli offensori dopo aver baciato il Cristo si presentano agli offesi a chiedere il perdono, a passo lento e quasi vergognosi di se stessi. Si vede l’offeso impegnato al massimo a dominare la passione e a non vacillare dal proposito, mentre gli si avvicina il rivale asperso del sangue d’una persona carissima, quindi si sente un cupo gemito…

L’ira scompare, apre le braccia, accoglie nel seno il suo nemico, e pronunciando “Dio ti perdoni” dà il bacio della pace. E glielo danno successivamente gli altri del partito, e lui e i suoi ringraziano con tenere parole.

Le femmine che finora avevano temuto per i loro cari, ai nuovi sentimenti piangono consolate e rendono grazia a Dio: ma quelle che hanno il cuore ferito, se pure si astengono dalle vecchie imprecazioni urlano però inconsolabili invocando i loro cari che stanno sotterra. La felicità comune non lampeggia un istante su quelle fronti, e le povere anime involte nella oscurità del dolore continuano a gemere.

Compiuti questi doveri partecipano tutti ad un abbondantissimo banchetto. Come del tutto scomparsa la memoria delle cose passate, trattano gli uni gli altri con quello stesso amore e con quella confidenza che si ammira in una famiglia dove regni un amore sincero. Gli affetti sopiti dalla sopravvenuta inimicizia si ridestano, i ragazzi rivedono con gioia le ragazze che avevano prescelto, rinnovano parole di amore, richiamano le promesse, ripetono i giuramenti. A suggellare ancor più fortemente la pace i capi delle due parti propongono matrimoni: alcune giovani ricevono la fede da taluni che cominciano allora ad amare, altre danno la mano a quelli da cui furono già amate: talvolta i padri si impegnano per i loro piccoli figli, e molti danno e ricevono parole di comparesimo.

A questo punto si spara in aria, si balla, si canta, tutti pervasi da una grande gioia: se non che in disparte, qua e là fra le macchie o all’ombra degli alberi, restano solitarie e sospirano alcune donne sconsolate. Quindi scambiati i doni si separano con le più belle espressioni di amicizia rivolgendosi chi al paese e chi alle capanne. Paci cosiffatte sogliono essere perpetue.

A queste si deve aggiungere comunemente la danza, che dicono di sangue, per cui la persona più potente e autorevole degli offensori si obbliga con giuramento di impedire o punire le ingiurie, che qualcuno della sua parte tentasse o facesse. Se egli mancasse, concede che gli offesi si vendichino sopra lui.

Sponsali e nozze. Quando si fa la solenne domanda di una pastorella, nella Gallura si pratica quello stesso costume che abbiamo descritto nell’articolo di Castelsardo, e che in altri tempi è stato comunissimo in altri dipartimenti. La capretta, la puledra, la vitella ricercata e domandata, alla fine si scopre essere la vaga fanciulla della capanna, e poco dopo, abbandonata l’allegria, i parenti – appurato d’avere il suo consenso – la promettono. Come un sacramento, il pastorello pone in dito all’amata il man-e-fidi (mano e fede) o arregoldu (ricordo), semplice cerchietto d’argento con la forma d’un cuoricino, nel quale è incastrata o una gemma rossa, o un granello di corallo.

Dopo la benedizione si corre “la rocca”. Nelle due parentele quelli che abbiano i migliori cavalli prendono parte alla corsa presso la chiesa: il vincitore ottiene di portare la rocca, che per questa solennità viene accuratamente lavorata, tinta di vari colori e ornata con molti nastri.

Per il pranzo si ammazzano vacche, capre e pecore, in numero proporzionato alle persone invitate. Un caprone è destinato agli sposi. I parenti e gli amici portano alla festa vari doni, tra i quali non mancano mai quelli della caccia.

Terminato il pranzo si svolge la gara al bersaglio che viene posto sul tronco di qualche leccio o di un olivastro. I tanti colpi a segno accrescono la reputazione di quei giovani sparatori. Intanto altri godono della danza, e i cantori alternano le loro strofe in onore dei giovani sposi. Gli invitati nel congedarsi ricevono rispettivamente due grandi pietanze di lesso perché le portino a quei della propria famiglia, che non poterono assistere al banchetto.

Funerali. Presso i pastori non si usa il compianto. I vicini concorrono a trasportare il cadavere su un feretro composto di rami e frasche, e lo seppelliscono in qualche chiesetta. Ritornati questi dal pietoso ufficio, si fa grande uccisione di capre e vacche per un solenne convito offerto a quanti concorsero a dare consolazione ai dolenti, come dono alle famiglie dei concorrenti ed elemosina ai poveri. Una volta che i pietosi amici e parenti se ne sono partiti con la loro porzione di carne, i più vicini al defunto caricano i loro cavalli delle parti destinate ai poveri e vanno per la cussorgia e fuori per ritrovarli. Questa carità merita al morto molte benedizioni e lacrime.

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