Agricoltura e contadini

di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi

In grande arretratezza solo cinquantanni fa, è a poco a poco andata sviluppandosi ed ora si trova in una condizione per cui, se ancora è ben lontana dalla perfezione, non è più nelle vecchie misere condizioni in cui l’aveva tenuta la predominante pastorizia. Il che apparirà chiaro da quanto ora si dirà.

La semina è tuttora poco considerevole. La quantità ordinaria seminata anche dai principali agricoltori non sorpassa gli starelli cagliaritani 31/2 (li setti cuppi) di grano, e gli starelli 2 d’orzo.

E ciò non dipende dal fatto che i terreni siano sterili. Vero è infatti che la fruttificazione è di solito abbondante in una misura che in altre regioni ben soddisferebbe gli agricoltori, perché i solchi rendono ordinariamente il 12 per uno, e quindi se la seminagione fosse fatta in un terreno incolto adattato per la prima volta a coltura la semente sarebbe moltiplicata al 30.

L’orzo produce di solito il 20 e dà grani di buona qualità. Se la semenza del frumento fosse stata di quella varietà molle e bianca che dicono grano corso, allora si sarebbe potuto averne anche il 50. Ma di questo tipo se ne semina poco, perché il pane di questa farina piace fresco, mentre lo si trova già immangiabile dopo il secondo giorno; quindi si preferisce per la panificazione il pane sardo, che resta compatto e conserva il gusto anche dopo sette giorni. Il grano gallurese è di ottima qualità.

La vera ragione per cui la cultura dei cereali è ancora tanto ristretta è dovuta al fatto che costa molta fatica svellere dal suolo le larghissime radici del lentisco, del mirto e di altri arbusti; col rischio poi di perdere tutto, se buoi, pecore, capre e altri animali entrassero nei campi seminati.

Il prodotto della semina del grano, che si fa nelle terre vicine a Tempio e nelle altre vidazzoni della Gallura, non basta ai consumi.

Sarebbe stato utile indicare l’ammontare del consumo del raccolto, se la metà o un terzo e quanta la parte d’importazione. Ma mancano i dati.

Quello che manca alla provvista dell’anno lo si compra dagli anglonesi, dagli aggesi e dai bortigiadesi. Questi due popoli, avendo molti campi nelle pianure fertilissime del Coghinas, vicino alle sponde del Termo, raccolgono assai più che sia necessario ai propri bisogni. Anche Terranova suol dare la sua parte.

Il prezzo ordinario a Tempio dello starello cagliaritano è di circa 6 lire, inoltre il trasporto si deve fare sul dorso dei giumenti.

Gli altri articoli della semina sono i seguenti:

Le fave, delle quali si semina pochissima quantità. È comune una varietà di baccelli piccoli e dolci, i quali bolliti nel brodo e latte o fiore, conditi con lardo, salsiccia o prosciutto, si mangiano interi.

I piselli, anche essi coltivati poco, perché aggrediti da un insetto che vi si genera, mentre non piacciono secchi. Ce ne sono di tre varietà, una delle quali si mangia col guscio o baccello. Maturano in ottobre e si vendono a 5 centesimi la libbra.

I ceci, dei quali la cultura è un po’ più estesa, perché piacciono anche secchi. Gran parte di quello che si consuma è venduto dai bortigiadesi.

Le lenticchie e le veccie, le cui specie sono usate più delle precedenti.

I fagioli. di molte varietà, che occupano complessivamente una grande area. La varietà più pregiata è la rossa, perché di più facile cottura e più leggeri. Ordinariamente i semi sono moltiplicati al 50. Si vendono nel paese [in Gallura?] freschi a 5 centesimi la libbra, secchi nelle altre parti dell’isola a 15.

Le patate. Oramai questa coltivazione è bene estesa. La produzione è abbondante e la raccolta in giugno e settembre dà bulbi grossi e gustosi. Alcuni pesano più d’una libbra. Questi si vendono a 2 lire lo starello cagliaritano e si trasportano a Sassari ed in altre province.

Un prato seminato produce per quattro anni e dà otto raccolte: dopo si rinnova la coltivazione.

Il consumo che se ne fa nel paese è molto alto: ma finora non vengono consumate in alternativa al pane: si mangiano anzi col pane.

Pochissimi mescolano la farina delle patate nella misura di 1/3 alla farina del frumento, né lo fanno per risparmio.

La meliga è poco curata, sebbene produca abbastanza. Una delle ragioni di questa negligenza è forse nella difficoltà di difendere il frutto dai corvi che vi scendono a cibarsene in grandissimi stormi.

Dalla meliga non si fa la farina; molti amano mangiarne i grani arrostiti al forno o nella cenere calda.

Orti. Gli orti annuali, che producono in tutto l’anno, occupano una vasta area: non sono meno di venti e non distano più di mezzo miglio dalla città.

Quindi ci sono gli orti delle vigne, nei quali si coltiva qualche genere nella primavera o in estate per necessità della famiglia.

La concimazione si pratica dai galluresi solo negli orti. Negli orti annuali si hanno alcune vasche, nelle quali si raccoglie l’acqua delle fonti per versarla sulle aiuole. L’innaffiamento si fa di mattina e di sera nelle stagioni calde.

Le specie coltivate negli orti sono cavoli di tutte le varietà sarde, sèllari od appi [sedani], che vengono grossi più del braccio e sono candidi e gustosi, indivie sarde ed esotiche, cipolle, porri, rave, ravanelli, lattughe e coppette, spinaci, cetrioli, cocomeri, popponi [meloni].

I popponi [meloni] piacciono poco, i cetrioli invece crescono grossi e sono d’acqua così buona che ne mangiano anche gli ammalati, i cocomeri (sa sindria) ingrossano fino a pesare 40 libbre, ed hanno essi pure un’acqua deliziosa.

Le zucche si distinguono in diverse specie. Le più squisite sono una varietà grande quanto le mele e si cucinano fritte. Le più grosse sono quelle dette di Spagna, che pesano anche un quintale, ma sono poco stimate. I poveri le mangiano nel brodo mescolate ai fagioli gialli o alle paste. Si comprano nell’orto per pochi soldi.

I cardi si coltivano in filari sulle pareti dei cortili, germogli sono graditi da pochi. Si fa invece gran raccolta di carciofi, e piacciono di più quelli spinosi.

Le fragole native danno frutti gradevoli al gusto, ma non sono coltivate, come pure lo sono le specie esotiche.

La robbia prospera naturalmente, e principalmente nelle siepi: eppure nessuno ha mai pensato a coltivarla, come si sarebbe potuto fare con qualche profitto.

Negli orti si semina un po’ di lino e cresce bene.

Ancor più rigogliosa era la vegetazione della canapa nei diversi esperimenti che si fecero, ma non si andò avanti. Perciò essi devono comprare il lino e la canapa da altri paesi.

Vigne. Abbiamo già indicato il loro numero e quanto siano numerosi i ceppi, ora diremo della coltura.

Le viti sono disposte in lunghi filari e i ceppi distano uno dall’altro un metro circa. Ciascun ceppo resta sotto due pali trasversali che reggono il ramo oppure i due rami che il potatore lasciò con quattro o cinque gemme per la produzione.

A metà luglio si spampina perché i sughi nutritivi dei frutti non si disperdano in una inutile vegetazione, a fine agosto si recidono i tralci all’altezza dei pali per fare in modo che il sole irraggi i grappoli.

È copiosa la produzione dei grappoli e qualche vite ne ha più di 15 e così grossi che spesso gli acini gonfiandosi si schiacciano uno contro l’altro.

Moltissime sono le specie di uve, quante sono quelle coltivate in altre parti, compresa la barriadorja, che qui pure è supposta essere la vite dello champagne. Si crede sia un’uva particolare e non coltivata in altre parti dell’isola l’uva detta niedda (nera), d’acino ovale e di polpa color granata, di cui si fa grande uso sia per mangiarla, sia per mosto e vino.

Le due suddette specie, quindi il moscatello e la niedda manna, sono le più facili a maturare. Quest’ultima ha grappoli così voluminosi che alcuni pesano più di sette libbre. Le altre specie non maturano bene.

Vendemmia. Quando viene l’ora di tagliare i grappoli i padroni delle vigne chiamano a vendemmiare le ragazze, e cercano quelle che per la loro bellezza abbiano molti spasimanti, cosicché questi vogliono venire a vederle e si associano ad esse nel lavoro. È però vero che non poche volte il lavoro viene da questi ritardato e fatto negligentemente, mescolando nei contenitori di sughero [sic, “novezo”] anche i grappoli corrotti e le foglie.

Le uve sono gettate in una vasca costruita sopra la roccia e intonacata di smalto. Lì si pigiano e poi si lasciano per otto giorni, dopodiché la fermentazione si ritiene già compiuta, sebbene sia ancora imperfetta.

Il mosto si trasporta dalle vigne alle cantine dei singoli in barili assettati sul basto dei giumenti, così come si fa a Sassari.

Mentre il mosto si versa nelle botti vi si mescola in certa quantità il vino cotto, o la sapa. In passato si metteva il cotto per 1/3, ora per 1/6, e sono pochissimi che finora abbiano smesso quest’uso, sebbene i vini fatti senza questa mescolanza siano riusciti molto migliori dei vini cotti, più leggeri allo stomaco. Chi sa quanti anni ancora passeranno prima che i tempiesi perdano il gusto al loro vino pesante e manipolino il mosto come fanno i campidanesi. Ci sarebbe anche un altro tornaconto, perché risparmierebbero i due terzi del mosto, che ora perdono nella consumazione del medesimo per trasformarlo in sapa.

La sapa serve per fare il pane che dicono di sapa, e per condire i legumi e il sangue di maiale, montone, agnello.

I vini comuni sono bianchi e neri, ma la quantità più grande sono bianchi. Tra questi il più pregiato è il moscatello.

Alcuni proprietari fanno un po’ di vini gentili per uso particolare della famiglia.

Dei prezzi si è già parlato altrove.

Distillazione. Di questa grande abbondanza di mosto destinato alla consumazione del paese e a quello che si vende in diversi luoghi, sopravanza una quantità notevole che si travasa negli alambicchi, che saranno a Tempio non meno di 18.

L’acquavite in parte si vende nella città, in parte nelle cussorge, in parte nelle contrade vicine.

Alberi da frutta. La gran parte si coltiva nelle vigne, pochi negli orti.

Sono di moltissime specie e varietà, alcune forse nuove nell’isola. Dirne anche approssimativamente il quantitativo è impossibile, ma è certo che eccedono forse le 40 mila.

I più comuni sono, castagni, noci, sorbi, cotogni, pini, fichi, peri, meli, peschi.

I più rari, nespoli, gelsi, ciliegi, nocciuoli.

I meli sono di circa 20 varietà, tra quelli che si coltivano in Sassari, ed alcuni esotici.

Le mele migliori sono le cosiddette: sonajola, baccaliana, latina, chitru, rosa-romana, dama, e le appie, appioline, e appioni. Le appie ingrossano tanto, che molte pesano singolarmente più di una libbra.

Le pere di estate e di autunno sono di molte varietà, quelle d’inverno rare e trascurate.

I nespoli sono poco pregiati, i ciliegi di poche varietà. Ci sono quelli selvatici che fanno boscaglia.

Il gelso nostrano si sviluppa in grand’albero. Il gelso delle Filippine fu introdotto da Paolo Altea e vi prospera come nel luogo d’origine. Forse si è incominciata la coltivazione dei bachi.

I mandorli, che non si credevano vitali nel clima di Tempio, pare che attecchiscano dietro gli esperimenti del suddetto Altea.

Gli albicocchi fioriscono, ma abortiscono, forse a causa del clima.

I pini danno pigne ottime e potrebbero con profitto occupare più terreno.

I meli granati sono pochi e di frutto agro-dolce.

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