Vitto dei pastori

di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi

Prima del 1790, quando dopo Ognissanti i pastori ritornavano ai loro casali non altro di più portavano per la provvista che un carico di farina.

Carni. Il cibo della famiglia pastorale prima che si avesse il latte erano le sole carni.

Della bestia uccisa si mangiava nel primo giorno il viscerame (lu milzatu), come dicono la milza, la carne-dolce e altri pezzi d’interiora dell’intestino più grosso; il corpo veniva diviso in grandi pezzi e questi venivano bolliti e posti in grandi sugheri per essere mangiati nei giorni seguenti.

I caprari uccidevano i caproni, di rado le capre (a meno che non fossero vecchie o indocili da sviare le altre e non tornare alla mandria); i pecorai uccidevano i montoni o le pecore vecchie; similmente gli altri pastori facevano con quei capi che non erano utili.

Nella stagione dei porci questi erano la parte principale del vitto.

Si conservavano grandi quantità di lardo per mangiarlo sia crudo sia arrostito e per condire le fave nei giorni di festa. Se si avevano fave fresche le bollivano intere nei bacilli e usavano mescolare l’acqua con latte e condirla coi salsiccioni. È questa la vantata oglia, che si usa anche oggi e si mangia con piacere nelle feste campestri.

Non si pensi però che i branchi fossero molto impoveriti di capi per il nutrimento dei pastori; essi infatti andavano frequentemente a caccia, ed ottenevano ora un cervo, ora un muflone e più frequentemente un cinghiale, mentre altri trovavano nei fiumi e nel mare un’altra parte del vitto.

Il pane e il coco. Il vitto dei pastori migliorò da quando hanno cominciato a lavorare i loro terreni e ottenuto frumento a sufficienza per poter mangiare spesso del pane. Alcuni lo fanno fermentare e lo cuociono bene al forno, altri usano ancora l’azzimo e fanno i cochi.

Il Coco. Dalla farina non differenziata, come si trae dalla macina, si fa l’impasto e si forma la cosiddetta focaccia.

Nel cuocerla la pastorella spazza una parte del focolare, la mette su quel suolo caldo, la ricopre di cenere mescolata di piccole braci e la rigira alcune volte: quindi la toglie, la pulisce, la lava con un po’ d’acqua per render lucida la sua pellicola, la copre con un panno e la lascia raffreddare.

Un siffatto pane è poco apprezzato da persone abituate al fermentato; però è sano. La sunnotata quantità di frumento bastava per tutto il tempo della dimora, giacché il coco si cuoceva solo se c’erano ospiti o nei giorni festivi.

Latte, latticini, formaggi. Sono pochi i formaggi semplici formati dal latte di una sola specie. Chi ha capre e pecore mescola i due latti, e chi ha vacche anche questo.

Le forme che si fanno anche quando abbonda il latte non sono grandi.

Si fanno delle pere (li buttoni) riempiendo di latte una vescica che poi tolgono quando esso sia ben rassodato sopra il fumo (affumicato).

I caccioli (li caxiuòli) sono piccoli lavori di latte di figura diversa; li tuaddòli strisce un po’ larghe che si piegano come i tovaglioli; e poi varie mostruose forme che raffigurano cervi, caprioli, cavalli, uccelli, opera delle pastorelle. Quelli che ritornano in paese a farvi lu capidannu ne portano in gran quantità per regalarne ai fanciulli del vicinato, i quali si affollano a salutarli e non vanno via prima di aver avuto qualcuno di quei giochini.

Casu furriatu. Una pezza fresca di 24 ore tagliata a fette, composta in un vaso di rame con fior di latte sopra il fuoco, spesso cosparsa di farina e anche di miele e rimescolata finché si addensa bene, ecco il celebrato casu furriatu, del quale molti usano ungere i maccheroni.

La brociata è ciò che comunemente si chiama ricotta. Quella che si fa nelle cussorge della Maddalena è pregiatissima e pareggiata alla romana. Ciò che avanza al vitto giornaliero si sala e dissecca al fumo e si conserva per quando manca il latte. È questo che i pastori dicono lu brociu.

L’ogiu-casu, o manteca. Si fa comunemente dal fior di latte: ma il più stimato è quello che rimane dalla mazza-frissa.

Lu butirru. Più di quello che si fa dal fior di latte è apprezzato l’altro che si ottiene dalla ricotta fresca ben agitata, poi disciolta nell’acqua e bene sbattuta per farla montare («venir su in ispuma»).

Lu migiuratu. Fu ed è ancora questo la parte principale del nutrimento dei pastori.

A farlo ci vuole il fermento, una porzioncina che si conserva da un giorno all’altro, e la prima volta si deve mettere molta attenzione per averlo buono. Si prende un pane, lo si taglia a fette, lo si immerge nel latte cotto intiepidito e lo si lascia finché questo inacidisca. Allora si cola e si mescola ad altro latte cotto. Da questo miscuglio si ottiene il fermento (la matriga) del migiuratu. Se non è venuto bene, conviene ricominciare l’operazione. In mancanza del pane si può usare il grano.

Quando si ha un buon fermento, per fare il migiuratu si fa bollire il latte gettando nel pentolone quindici o venti ciottoli arroventati e lavati insieme in acqua pura. Per intiepidirlo in modo da potervi infilare dentro il dito si versa nella mestella e vi si infonde la matriga. Ci vuole attenzione a non sbagliare la temperatura, perché se il fermento si mescola al latte troppo caldo il migiuratu ha dell’agro, in caso contrario del dolcigno.

La quantità di fermento si deve proporzionare alla quantità che si condisce: per sette pinte (litri) volgari basta il settimo d’un litro; una dose maggiore darebbe al migiuratu l’acido del fermento. Quindi vi si versa il latte e si rimescola ben bene. Se il tempo è caldo, o la mestella è stata ben coperta, dopo un’ora il migiuratu è fatto, e si può usare appena raffreddato. Nella stagione calda, non è più buono dopo le 24 ore; in quella fredda dura anche oltre cinque giorni.

Mazza-frissa. Si chiama così una delle pietanze che le pastorelle sono solite offrire agli ospiti e fanno con la semola fritta nel fior del latte. Il cibo è sostanzioso, però assai pesante a certi stomachi.

La giuncata. Si fa del latte cotto e non salato e lo si mette fra i giunchi o su altre foglie.

Il quaglio che usano per farlo rapprendere si ottiene uccidendo un agnello o capretto da latte appena dopo aver succhiato, al quale si toglie il primo ventricolo pieno di solo latte che si strizza e si appende al fumo. Dura per due anni e quando serve fare la giuncata se ne toglie un pezzettino, lo si scioglie in una chicchera con poco latte, e se ne versano alcune gocce secondo la quantità che si desidera, badando a non eccedere nella dose, perché la giuncata non sappia di quaglio

Vìcara e colostru. Appena si sgrava la capra, pecora o vacca, si mette il suo primo latte in un’ampia foglia di cipolla marina, che dicono Vicara, sopra le ceneri calde perché si rappigli.

Se si usa un altro contenitore il quagliato si dice colostru. Solo due volte, cioè dentro dodici ore dal parto, si può fare questa operazione.

Altro. Non mancano quasi mai i favi.

Sono pochi che non si riforniscano di vino, acquavite e altri generi, e vi sono quelli cui piace anche il caffè. Uomini e donne bevono assai volentieri.

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