Carnevale

di Francesco De Rosa

Il carnevale in Gallura s’aspetta con desiderio vivissimo, con ansia indicibile, perché per quanto dura, tutti indistintamente – meno che non ne siano impediti da cordoglio o da gran malore – uomini e donne, piccoli e grandi, ricchi e poveri, cercano darsi bel tempo e godere d’una vita spensierata e sibarita[1], che rasenta di molto la felicità. Tutto quanto v’è di male nella vita umana: afflizioni, tasse, debiti – tutto allora si dimentica, né si pensa che in quaresima si piange sovente quello che si gode in carnevale.

Non v’è sera, eccetto che nel venerdì, giorno dedicato alla Passione e Morte del Redentore, in cui non si vedano torme di maschere, accompagnate da qualche sonatore d’armonica, le quali il sabato e la domenica sommano a parecchie centinaia. Esse hanno libero accesso ovunque; purché la famiglia, in cui vuolsi accedere, non sia in cordoglio: perciò, prima d’entrarvi, bussano alla porta per chiedere permesso. Entrati, vi si trattengono alquanto, attaccando conversazione con quelli di casa, contraffacendo la voce per non essere riconosciuti, dicendo scempiaggini, motti pungenti e acerbe satire all’indirizzo di qualcuno dei presenti; oppure standosene impalati o seduti, senza profferir parola, volendo serbar l’incognito: giacché in questo caso sotto la maschera, nascondesi un marito o una moglie gelosa, o qualche persona in cordoglio, la quale ha voluto far uno strappo alle avite costumanze.

Per lo più ballano per qualche quarto d’ora, poi escono per andare ad altra casa a far lo stesso.

Anche i pastori si mascherano e vanno di cussorgia in cussorgia, di stazzo in stazzo, vestiti per lo più stranamente, con pelli di lepre o di volpe, o con cenci foggiati a maschera sul viso. In ogni stazzo si presentano comicamente e comicamente vi sono ricevuti, e, dopo un bernesco dialogo coi padroni dello stazzo, chiedono e largamente ottengono il carnevale.

Fra le maschere quelle che più riescono gradite sono i così detti buffoni (mascari brutti), che indossano abiti sbrindellati, spesso sucidi o pelli di capra o di montone, o cuoi di bue o di vacca, con corde a tracolla o alla cintura, con sonagli e buccole che squillano continuamente. Tali maschere, con le lepidezze, con le mimiche svariate, con le buffonate e con le curiose scene che rappresentano, fanno sganasciar dalle risa gli astanti; cosicché vengono seguiti da lungo codazzo di fanciulli.

Questi buffoni mascherati, oltre al diritto di lanciar liberamente motti pungenti e parole sconce all’indirizzo dei presenti o degli assenti, possono costringere anche i più restii, servendosi all’uopo della forza fisica, a ballare con loro, possono multare chi meglio credono, facendo pagare qualche moneta, o un litro di vino od altro.

Ogni domenica dopo pranzo si fa la corsa delle maschere sui barberi, e spesso i cavalieri portano sulle groppe di essi le loro dame, riccamente vestite, con le quali fanno il giro per il paese, scagliando alle finestre e ai poggioli confetti e fiori, attaccando battaglia con le amiche e coi conoscenti, che vi rispondono con una fitta grandinata di fiori o di confetti.

Nelle ultime due domeniche, verso le tredici, esce in giro il così detto coro delle maschere, composto di quattro persone, delle quali una (la bóci) canta e le altre tre (il tenore, il contralto e il soprano) accompagnano il canto, che risulta una specie di nenia lenta e monotona, più adatta per un accompagnamento funebre che per un corteo di maschere, col quale si segna il cadenzato passo delle medesime.

Ogni uomo mascherato, che s’unisce al coro, paga venticinque centesimi, i quali vanno a beneficio dei componenti il medesimo. Quando il numero delle maschere raccolte sorpassa la cinquantina, vengono condotte, precedute dal coro, nelle principali piazze, dove ballano, a suon di canto e attorno al detto coro, le tradizionali danze, prendendovi parte anche gli individui non mascherati. Verso le cinque il coro rifà il giro passando per le vie del paese, al fin di restituire le maschere alle costoro famiglie.

A nessun uomo è permesso toccare una donna mascherata, meno che non voglia gustar lo scudiscio che tiene nelle mani, o il pesante pugno o il nodoso bastone del suo cavaliere: le quali cose, non essendo da prendere per confetti, fanno in modo che ognuno tiene le mani a posto.

Durante il carnevale le fanciulle, le vedovelle e le maritate vengono affidate per condurle mascherate di giorno e di notte, ai parenti, amici e conoscenti; con la certezza che nessun d’essi s’attenterà di far cosa che riesca a disdoro della famiglia, che ad essi le affidò, e che saprà difenderle se qualcuno osasse in qualche modo offenderle o molestarle.

Né i poeti perdono inutilmente il tempo: tutte le notti, meno quella del venerdì, si radunano in qualche bettola, preceduti o accompagnati o seguiti da così tanta gente che la sala talvolta non basta a contenerla, e là disputano, improvvisando fino a tarda notte e spesso fino all’aurora del giorno seguente, nei diversi metri e accordi usati dai poeti estemporanei sardi, dall’ottava per finire al cinquantacinque o leonorodia, come allo Spano nella sua Ortografia sarda piacque chiamarla[2].

A Terranova, in passato, per il carnevale, si formavano le così dette Cucine o Società del Buon Umore, composte ciascuna di venti o più persone, le quali versavano una somma di cinque lire per gozzovigliare negli ultimi tre giorni di carnevale.

Venuta la domenica di carnevale, le società andavano attorno per il paese con alla testa il coro, cantando l’andira andira e recandosi in tutte le case dove non ci fossero persone malvage, alla cui porta cominciavano a cantare elogiando i membri della famiglia ed augurando loro un felice carnevale ed una lunga e prospera vita. Ottenuto il permesso entravano in casa e ricevuto il dono, come ricompensa del canto, ringraziavano, uscivano e s’avviavano ad altra casa.

L’andira, o a l’andira andira veniva cantato pure negli altri paesi di Gallura.

Parte dei soci fin dal mattino si portava presso le vicine cussorge, uno per ognuna di queste, a chiedere, come qui si dice, il carnevale.

I pastori li accoglievano benevolmente e regalavano loro qualche agnello o capretto o gallina o pollastro o lardo e salsiccia o qualche forma di cacio ed altri latticini, e tutti tornavano al paese col cavallo stanco sotto il pesante carico dei regali raccolti. Oltre a ciò i soci entravano nelle case, specialmente in quelle in cui non vi erano padroni, a rubarvi di soppiatto salami, prosciutti, salsicce, lardo, pane, vino e quant’altro trovavano che servisse a saziare e innaffiare lo stomaco, e tutto ciò senza che il povero padrone potesse neppure lamentarsi; perché, come dice il proverbio francese il faut faire bon visage à mauvaise fortune [bisogna fare buon viso a cattiva sorte], se non voleva patirne oltre il danno le beffe, poiché tutti avrebbero imputato l’accaduto alla sua imprevidenza, ché non seppe nascondere e togliere alla vista altrui le cose sparite in un’occasione in cui, per antica tradizione, era lecito far man bassa delle altrui dispense alimentari.

I cuochi traevano poi in arresto, usando la forza se non si arrendevano volontariamente, quelli che incontravano per strada e che sapevano essere in grado di poter pagare una multa per il loro riscatto, che variava dai venticinque centesimi alle cinque lire. Chi si rifiutava di pagare, veniva legato con una corda alla cintura e sospeso in alto col mezzo d’una carrucola attaccata ad una trave della casa e lasciato in questa posizione finché non si decideva a pagare. Tale supplizio veniva anche inflitto a quei cuochi che non facevano ritorno alle ore stabilite per mangiare o che mancassero all’appello o contravvenissero a qualche articolo del loro regolamento sociale: punizione da cui si potevano sottrarre pagando una multa di cinquanta centesimi.

Con la retta sociale e con quanto avevano raccolto cantando all’andira andira, andando in giro per gli stazzi e rubando nelle case, gozzovigliavano largamente gli ultimi tre giorni di carnevale, regalando ciò che avanzava alla padrona della casa che metteva a disposizione la cucina e che faceva da cuoca dei soci.

Ora queste cucine non sono più in uso, come pure quello di girar per gli stazzi, di rubare nelle case e di multar le persone, e a esse si sono sostituite le sale da ballo col contributo di coloro che, per tener aperte queste durante il carnevale, si uniscono in società: nelle quali sale si ballano non più le tradizionali danze ma i così detti balli civili.

L’ultimo giorno, il martedì di carnevale, verso l’una di sera s’usava e si usa tuttora a Calangianus ed a Luras di tingere o macchiare con lucido di scarpe o grassa fuliggine, raccolta dalle pentole o casseruole e talvolta di rosso e giallo, con terra di tal colore, il viso delle persone che s’incontravano per strada, e si gettava farina o crusca a profusione sulle stesse, cosicché le vie ne venivano coperte. Ai forestieri si toccava il solo viso con un dito intinto di lucido. Nessuno doveva prendersela a male. Chi rifiutava di assoggettarvisi e mostrava di volersi opporre con la forza, chiunque egli fosse, veniva agguantato, ridotto all’impotenza e coperto di nero.

A Terranova in tal giorno le ragazze s’appostano negli sbocchi delle vie e nei crocicchi, dove danno l’assalto agli uomini, rubando loro il cappello o la berretta, che non viene loro restituita se prima non pagano qualche moneta o non offrono dolci o fichi secchi a titolo di riscatto.

A Bortigiadas sono gli uomini che la sera s’appostano alla porta della parrocchia per colpire con un fazzoletto le braccia o le spalle di quegli altri uomini che n’escono, i quali in tal modo vengono dichiarati in arresto, da cui si riscattano pagando. La somma raccolta viene consegnata al parroco per dire un numero di messe, proporzionato alla somma sborsata, alle Anime del Purgatorio.

Ad Aggius, un tempo, la sera dello stesso giorno s’usava, e forse lo si usa ancora, issare una maschera su di un poggiolo che dà a una delle piazze principali del villaggio, e al cospetto di tutti passare in rassegna quanto di bene o di male, di lodevole o di biasimevole, era accaduto dallo scorso carnevale fino a quel giorno: nascite lecite o illecite, matrimoni celebrati o andati a monte, morti naturali o per violenza umana, amoreggiamenti, litigi, attriti, pettegolezzi, ecc.; il tutto esposto con un linguaggio figurato, pieno di spiritosaggini, di motti pungenti, di sanguinose satire in tono serio-faceto, accompagnato da gesti e da pose mimiche che esprimono assai più di quello che si possa dire con le parole. Per quanto si facciano nomi, nessuno s’offende o fa mostra di non offendersi, per non incorrere nel proverbio: Caaddu tuccatu la sédda li pizzichiggja.

Ovunque nei paesi di Gallura, negli ultimi tre giorni di carnevale, gli uomini sono soliti travestirsi: quelli che abitualmente portano il cappello mettono in testa la berretta e viceversa. Agli abiti in uso molti sostituiscono quelli che indossavano i loro padri.

A Terranova, verso le tre di sera del martedì, le “società del Buon umore” solevano portare in processione per le vie del paese il buon Giorgio (come da essi viene chiamato il carnevale), rappresentato da un busto tolto dalla polena[3] d’un bastimento messo sopra una grossa botte piena di vino posta sopra un carro a buoi, attorno al quale busto stavano altre quattro damigiane che rappresentavano altrettanti ceri, e dietro il carro i soci con una bottiglia di vino in mano, ordinati in due fila, procedendo lentamente e cantando spiritosi inni, circondati da una folla di persone fra cui tutti i fanciulli del paese. Giunti alla porta d’una bettola il carro veniva fermato e con esso quanti l’accompagnavano, e qui fra i canti, le grida di gioia e gli schiamazzi, si beveva ripetutamente.

Quindi dopo aver riempito i recipienti vuoti, veniva portata avanti la processione fino a che ogni bettola avesse ricevuto l’onore della visita dall’allegro corteo: il quale si ritirava verso il tramonto, quando tutti erano ebbri o avvinazzati.

Ora invece del corteo i soci delle sale da ballo vanno per il paese a far la serenata alle fanciulle che le frequentano, entrano nelle loro case e mangiano dolciumi, frittelle, salumi e bevono vino e liquori serviti dai genitori delle ragazze. Si formano anche dei cori che vanno a cantare l’andira andira nelle case, dalle quali sono certi non torneranno indietro a stomaco vuoto, né con la lingua riarsa dalla sete.

L’ultima sera, nella quale ben pochi sono quelli che non si vestono a maschera, il divertimento è generale.

A mezzanotte il tocco a mortorio della campana dà segno che il carnevale è finito e che incomincia la quaresima, tempo di penitenza e di raccoglimento.

Al triste suono smettono i balli – o meglio smettevano poiché oggi quel suono non produce nei cuori dei popoli civili alcun ravvedimento –, tacevano le voci allegre, ci si smascherava e si assumeva un contegno serio, quale si conviene a un tempo di penitenza.

Intanto nelle sale si vede entrare una bara con dentro un fantoccio rappresentante il morto carnevale, portata da quattro individui con lungo codazzo di gente schiamazzante che grida: “Carrasciali è mòltu! Carrasciali è mòltu! Mòltu è carrasciali, ohi! ohi! ohi!; oppure: Gjogliu méu! Gjogliu méu, lu mé fiddolu bonu ch’eri tu, ohi! ohi! ohi!

Deposta la bara in terra i doloranti le si mettono intorno cantando uno scherzoso lamento funebre e facendo frequenti ululati che vengono ripetuti dagli astanti. Il fantoccio viene poi portato in giro per il paese emettendo ad intervalli i soliti gridi, finché condotto in una piazza non lo si vede ridotto in cenere dopo avergli dato fuoco: cosa questa che è un ricordo della cremazione in uso ai tempi o prima del tempo della romana dominazione nell’isola.

Dopo l’Avemmaria, a Tempio e a Terranova si usa ora portare in processione la bara su cui giace il morto Carnevale fino al luogo dove si deve compiere la cremazione, preceduta dalla banda che suona la marcia funebre e seguita da lungo codazzo di frati e di confratelli (ovviamente d’individui così camuffati), portanti ciascuno una fiaccola accesa e ripetendo a brevi intervalli le grida che si sono sopra riportate.

Fatto un giro nel paese vanno in Piazza Gallura a Tempio e in Piazza Umberto I a Terranova, dove si depone in terra la bara e si pronunciano dei discorsi funebri adatti alla circostanza, quindi appiccato fuoco al fantoccio si rialza la bara e la si porta di nuovo in giro, continuando il cammino fino a che non si vede il fantoccio ridotto interamente in cenere. Allora alla marcia funebre succedono balli e inni patriottici, agli ululati seguono grida di gioia e il canto d’allegre canzoni, durando ciò fino alle otto e talvolta più tardi ancora.

Le così dette maschere brutte richiamano alla memoria l’uso nel medio evo di vestirsi a carnevale con maschere che rappresentavano la morte, perché così s’aveva il privilegio di costringere a ballare quelli che incontravano. Il travestirsi con pelli d’animali selvatici o d’animali domestici è un tardo ricordo di una delle primitive fogge di vestire dei popoli galluresi.

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[1] Sibarita: persona che ama circondarsi di piaceri (con allusione alla nota ricchezza e mollezza di costumi degli antichi abitanti di Sibari).

[2] Cfr. Duilio Caocci – Marco Lutzu, Il contrasto poetico. Musica, poesia, estetica, Nota / Valter Colle, Udine, 2020, p. 164.

Il Canonico Spano, nella sua Ortografia sarda – fondamentale anche per preziose informazioni sul canto sardo – introduce Eleonora a proposito del modellu chiamato chimbantachimbe (55 versi)25, una complicatissima struttura strofica, simile al «trinta sex, o vittoria» (trintasese, 36 versi) con cui i cantori ottenevano la «vittoria» sui loro avversari nelle gare poetiche26.

Come esempio di chimbantachimbe, lo studioso accampa infatti un lambiccato componimento sulla Giudicessa con incipit Est Deus chi at creadu e postu in via, opera dello stesso Spano, che così aggiunge alle sue copiose doti storico-scientifiche anche un poco noto ingegno di brillante versificatore (ad onta di qualche stico con profusione di sinalefi, come Qu’in vida hat postu, et creadu hat solu Deu).

[3] Figura scultoria ornamentale posta all’estremità prodiera dello scafo di velieri e navi da diporto che, nella grande epoca della vela, raggiunse forme spettacolari, anche con rappresentazioni mitiche o allusive al nome della nave.

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