Le case

di Francesco De Rosa

Le case di Gallura (parlo di quelle di trenta anni fa) non presentavano alcuna cosa indispensabile alle comodità della vita o che fosse tale da attirare lo sguardo dei passanti. Non atrio, non vestibolo, non cesso, non cisterna, non vaschetta per farvi il bagno o lavarvi le stoviglie o la biancheria, non sale da ricevimento, non studiolo, non spogliatoio, niente di quelle parti che servano ad adornare e rendere più comoda e sana una casa.

Le case delle persone agiate, ad uno o due piani, erano senza intonaco all’esterno, senza ordine né simmetria nelle divisioni murali, nelle porte o nelle finestre; con ballatoi e poggioli di ginepro, spesso cadenti e minaccianti la vita dei transitanti nella sottoposta via, col piano terreno adibito ad uso di magazzino, di cantina, di scuderia e di rimessa.

Le case della povera gente, composte per lo più d’un vano, erano affondate sotto il livello della via dai 50 ai 150 centimetri, come erano i fondi di capanne dei Liguri ed Iberi, e, quelle dei pastori, consistenti in misere capanne fatte a muro barbaro (moriccia), coperte da giunchi, da tifa[1] e da piote [piante palustri e zolle erbose].

Tanto le case povere, come le capanne dei pastori, servivano allo stesso tempo da camera, da stanza, da tinello, da cucina, e per fino da stalla, convivendo spesso le persone e gli animali domestici, (cani, gatti, cavalli, asini, maiali e pollame).

Il fuoco vi si accendeva nel focolare, che era un rettangolo fatto con pietre e con mattoni, pavimentato con argilla; dove, oltre a scaldarsi e cucinar le vivande, si cuoceva il pane succenericcio[2] (focaccia).

Tanto alle case dei poveri che a quelle dei ricchi non si dava il bianco che una volta all’anno, o di lustro in lustro, e molte volte non si dava mai: per cui le pareti erano nere e coperte d’untume per la grassa fuliggine che vi depositava il fumo, il quale non aveva per lo più altra uscita, oltre quella delle porte e delle finestre, che in una fessura o largo foro praticato nel tetto.

Nelle case agiate certo non facevano difetto né i mobili, né la biancheria, né il vasellame, né la posateria; anzi vi si vedevano ovunque a profusione i broccati, i damaschi e le seterie orientali d’altissimo prezzo, vasellami e posate di rame, d’ottone, di pacfond [metallo simile all’argento] e d’argento.

Ma in quelle della povera gente, il mobilio si riduceva ad un letto (d’ordinario senza materasso, col pagliericcio imbottito di trucioli o di paglia d’orzo, la cui lettiera consisteva in due cavalletti a due piedi, ciascuno terminanti in un largo zoccolo, od in quattro pali fitti nel terreno, cui venivano collegate quattro lunghe pertiche ad uso traversa, sovrapponendo su queste o su quelli, degli assi per reggere il misero pagliericcio), due casse, una rozza e molto primitiva cassapanca per sedervisi o sdraiarvisi sopra, una tavola per mangiare ed una per panizzare, alcune seggiole, per lo più di ferula, come le usavano gli Albanesi, una madia[3] [credenza], due stacci, alcune corbule e panierini ed un crivello; la biancheria ad alcune paia di lenzuola, mezza dozzina di tovaglie e di tovaglioli, un paio di asciugamani, tre o quattro camicie per individuo e qualche paio di mutande per gli uomini; il vasellame e gli arredi di cucina consistevano in un catino (tinella), in qualche casseruola, padella e paiolo, un paio di pentole e di tegami, fra cui quello che serviva di forno per cuocere il pane, un treppiede, una paletta, due schiumarole, due ramaioli, due spiedi, una graticola, una grattugia e vari coperchi, una dozzina fra piatti e tondini, alcune scodelle, un vassoio, una saliera, un boccale, alcune bottiglie, la pepiera, l’indispensabile caffettiera, una dozzina di cucchiai, un’altra di forchette, qualche paio di coltelli e varie chicchere, tazze e bicchieri.

Spesso, nello stesso letto, giacevano i genitori ed i figli alla rinfusa, e se i genitori avevano letto a parte, nell’altro coricavano fratelli e sorelle fino al sedicesimo anno almeno dei primi ed al quattordicesimo delle seconde: Dio sa, con quanto scandalo al buon costume ed alla decenza, soprattutto in estate, quando non era possibile, con tante persone nello stesso giaciglio, tenere ferme le coperte.

Peraltro alla decenza si guardava poco: poiché fino alla età predetta, figli e figlie si spogliavano e vestivano gli uni alla presenza delle altre, ed anche i maggiori d’età non si vergognavano di mostrare, se non in tutto in parte, la loro nudità.

Nonostante la poca avvedutezza e la deplorevole noncuranza dei genitori in Gallura intorno alla pudicizia e decenza dei figli, e sebbene in Terranova siano precoci e prepotenti gli stimoli sensuali e l’istinto di procreazione a causa del clima caldo e della vita oziosa ed effeminata degli abitanti, non si è mai lamentato alcun caso, non solo d’incesto ma d’oltraggio al pudore fra fratelli e sorelle, cugini e cugine, zii e nipoti, giacenti spesso nello stesso letto; quantunque nelle case povere vivano per lo più in comunanza varie famiglie.

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[1] Nome comune delle piante palustri della famiglia tifacee

[2] Succenericcio = Che è cotto sotto la cenere.

[3] Credenza con funzione di piano di lavoro e mobile contenitore.

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