La delinquenza

di Silla Lissia

Dalla Presentazione di Guido Rombi

Il decimo capitolo, LA DELINQUENZA, si pone in stretta relazione col capitolo III, del quale pertanto può essere considerato come la continuazione.

Fatta la premessa che la Gallura era, come diceva Niceforo, la regione «moralmente più sana della Sardegna», Lissia dimostra con un’ampia e dettagliata analisi dei reati compiuti tra il 1883 e il 1901, come la delinquenza nella regione, anche per numero di omicidi, si mantenesse pur sempre troppo elevata in rapporto alle altre regioni italiane.

Del reato di omicidio nel territorio, commesso quasi sempre per vendetta, Lissia studia le cause (l’isolamento delle popolazioni nelle campagne che ne rafforzava il carattere individualista e asociale; la mancanza di fiducia nella magistratura, corrotta e al soldo dei nobili e dei ricchi), e il suo andamento in connessione con le condizioni economiche e col livello d’istruzione della popolazione.

  Nello studiare lo stato demografico della popolazione presente di Gallura ho avuto occasione di mettere in rilievo un lato della moralità del popolo gallurese: qui completerò la figura morale della regione studiandone la delinquenza.

La Gallura rappresenta la regione moralmente più sana della Sardegna. La scarsità dei furti e la mancanza di grassazioni, scrive il Niceforo, depongono per la normalità della fisionomia criminale di questo territorio[1].

Tuttavia la Gallura ha ancora una media di delinquenza così elevata che non si può dire veramente che essa sia una regione normale.

Ecco ridotti a centomila abitanti i reati avvenuti in questi ultimi diciannove anni:

ANNI Contro P. A Contro fede pubbl. Contro la tranquillità pubblica Contro la famiglia Contro la persona Omicidi Contro la proprietà Furti Rapine Altri delitti Contravv
1883 93 46 130 34 189 58 517 348 0 72 27
1884 115 81 102 10 133 34 419 266 0 78 6
1885 121 84 135 16 138 50 540 331 0 91 16
1886 137 107 63 50 157 63 404 264 3 80 56
1887 62 33 72 16 211 39 596 397 3 82 0
1888 85 32 72 16 157 19 426 265 3 157 39
1889 94 45 77 9 266 55 678 438 0 133 16
1890 125 67 138 32 292 41 658 462 19 70 282
1891 82 108 126 15 245 60 817 490 19 12 203
1892 31 94 28 12 308 28 513 324 3 12 132
1893 205 37 165 28 243 31 636 393 6 15 171
1894 179 86 154 15 228 30 623 454 9 30 290
1895 159 64 180 27 260 24 657 480 6 42 58
1896 72 24 27 24 287 48 668 551 24 526 136
1897 17 28 20 26 188 20 608 476 12 518 74
1898 80 106 24 14 403 47 784 507 38 471 65
1899 61 117 23 32 232 17 702 558 5 731 111
1900 75 58 29 26 282 20 969 849 8 733 125
1901 3 7 4 30 78 4 807 695 2 573 138

Da questo quadro si rileva che alcune categorie di reati vanno sensibilmente diminuendo, mentre alcune altre sono in continuo aumento. Diminuiscono i reati contro le pubbliche amministrazioni, contro la pubblica tranquillità e gli omicidi, aumentano invece i reati contro la proprietà. I reati contro la fede pubblica e contro la famiglia subiscono un lieve aumento, ed in generale aumentano tutti gli altri reati.

Ma il fatto più importante e più caratteristico della dinamica della delinquenza gallurese è la diminuzione confortevole degli omicidi e l’aumento incessante e vertiginoso dei furti.

Gli omicidi danno una media di 45,4 nel periodo 1883-89, di 35,6 nel periodo 1890-95 e di 26 in quello 1896-901. Questa diminuzione ha un significato sociale molto importante, in quanto è indice dell’iniziato miglioramento psicologico del popolo gallurese. L’omicidio è stato sempre in Gallura il reato più caratteristico e più frequente, per cui la sua attenuazione progressiva non può non significare la trasformazione morale che va maturandosi nella popolazione gallurese. E se anche l’aumento dei reati di frode e contro il buon costume possono significare un allentamento della moralità nei rapporti individuali e famigliari, la diminuzione degli omicidi attesta un miglioramento reale e non contingente della moralità. I reati contro il buon costume e di frode sono reati contingenti che dipendono da rapporti sociali mutevoli, mentre il reato contro la vita umana è espressione di malvagità e di ferinità e dipende da reale inferiorità morale, da mancata evoluzione sociale. Quelli appartengono alla cosiddetta delinquenza civile, questo invece alla delinquenza barbara: quelli sono compatibili con una civiltà evoluta ed anzi sono fino ad un certo punto espressione della stessa civiltà, questo è invece incompatibile con la civiltà.

Ma la media degli omicidi è ancora troppo elevata perché possiamo restar tranquilli, e perciò non sarà inutile indagare il perché in Gallura si uccide ancora con tanta frequenza.

L’uccisione di un uomo in Gallura è quasi sempre la conseguenza di una vendetta, raramente l’esplosione di un animo irato. Uccide pensatamente per vendicare la morte di un fratello Bastiano Tansu, uccide pensatamente un Quaglione per vendicarsi di un rifiuto d’amore ed uccide pensatamente una Demuro per vendicare l’onore di ragazza tradita. E sono occasione alla vendetta di sangue cagioni talvolta gravi, ma talvolta anche frivole. L’abbandono ingiustificato della ragazza, cui è stata data parola di matrimonio, l’adulterio, il furto, la rimozione di un mollone, il pascolo abusivo sono cagioni di omicidio.

A spiegare la sopravvivenza di un sentimento di vendetta così violento, è necessario che ci rifacciamo alle condizioni nelle quali vivevano i galluresi al principio del secolo passato. Perché se è vero che il gallurese è vendicativo per indole, è vero altresì che è l’ambiente che condiziona lo sviluppo o meno di certi sentimenti primitivi, e che se nell’ambiente mancano le condizioni favorevoli, certe tendenze ereditarie od etniche non si manifestano. Di fronte alle offese di qualunque genere l’uomo ha vari mezzi di difendersi; ma la scelta fra questi mezzi diversi non è libera, è imposta dalle condizioni sociali nelle quali l’uomo vive. E come l’uomo primitivo, che non ha ancora idea di una giustizia sociale impersonale e non ha tribunali speciali per regolare i rapporti fra gli individui, ricorre alla vendetta personale a riparazione delle offese, così l’uomo civile d’oggi la sua tutela affida ai tribunali sociali. Ma l’evoluzione del sentimento di giustizia non procede ugualmente presso tutti i popoli e dipende dal modo di vita di ciascuno di essi. Presso il popolo gallurese questa evoluzione si è fermata ad un certo grado di inferiorità, perché sono mancate le condizioni determinanti di progresso.

E se con le leggi della biologia e della psicologia possiamo spiegarci l’arresto o la deviazione di sviluppo od il ritorno atavico del sentimento di giustizia nell’individuo, le medesime non ci soccorrono più quando si tratta di tutta una popolazione. Allora bisogna cercare nelle condizioni generali dell’ambiente sociale le ragioni, per cui un popolo è rimasto in uno stato di inferiorità morale.

Fino a quasi tutta la prima metà del secolo passato la Gallura era governata col sistema feudale: era feudale la morale informata alla violenza ed alla prepotenza e feudale era la giustizia alla mercé dei signori. Il barone od il signore viveva da piccolo tirannello nei suoi feudi ed era legge il suo capriccio; ed i nobili, rotti a tutte le nequizie che loro concedeva il regime feudale, al posto dell’equità mettevano la loro brutalità, spadroneggiando nei villaggi e dando esempi di crudeltà e di violenza. Vivevano circondati da un manipolo di sicari, dei quali si servivano per intimorire ed uccidere e con la loro persona coprivano i delitti dei loro dipendenti.

Tutta la regione era coperta di foltissimi impenetrabili boschi e priva di strade di comunicazione, in modo che non solo era isolata dal resto della Sardegna, ma era isolata, diremo così, da sé stessa. Nell’inverno e nella stagione piovosa ogni comunicazione era impedita tra paese e paese e tra regione e regione a causa della mancanza di ponti che servissero a passare i numerosi torrenti gonfiati. Mancava un servizio postale tra la capitale ed i piccoli centri, e tra villaggi e villaggi; ed il poco commercio si praticava a dorso di cavallo tra sentieri e dirupi, in cui la vita era sempre minacciata. Ogni paese viveva a sé e metà della popolazione sparsa nelle campagne, lontana da ogni consorzio umano.

L’ignoranza era profonda ed universale, specialmente nelle campagne, ove, all’infuori del prete, non era alcuno che sapesse leggere e scrivere. L’autorità morale e civilizzatrice del governo era sentita solo quando qualche giudice economico andava ad amministrare la giustizia sommariamente con le forche e con la tortura in occasione di torbidi provocati dall’insipienza degli stessi governanti.

In queste condizioni di isolamento e di buio intellettuale l’anima del gallurese rimaneva priva di quegli stimoli e di quei fattori che ne determinano il progresso. Anzi, limitata rimanendo la vita spirituale e sociale, l’anima sua si concentrava tutta negli affetti e nei sentimenti egoistici della famiglia. Il pastore, isolato fra cielo e terra in cospetto sempre dello spettacolo selvaggio delle montagne e dei boschi, sentiva vieppiù fortificarsi questi sentimenti. Egli non conosceva altri affetti che per la sua famiglia, per la sua terra e per il suo gregge, e di queste cose era un fiero e geloso custode. Il suo onore, l’onore della sua famiglia, egli prediligeva e guai a colui che osava in qualche modo offenderlo: la vendetta di sangue lavava l’offesa. La donna, in questo culto dell’onore famigliare, rappresentava la parte più importante come moglie, come figlia e come sorella, L’adulterio quindi, la mancata parola di matrimonio, la seduzione, erano offese che impegnavano l’onore del marito, del padre e del fratello e che richiedevano una punizione esemplare: la vendetta di sangue.

E la famiglia, di fronte alle esigenze dell’onore, non era circoscritta ai discendenti immediati di una sola coppia, ma comprendeva tutto il parentado, il quale era tenuto alla tutela dell’onore suo. L’offesa quindi ad un membro della famiglia importava l’obbligo della vendetta in tutti i suoi parenti in ordine di prossimità. Pietro Vasa è fidanzato di Mariangela Mamia. Pietro ha divergenza con Antonio Mamia, padre di Mariangela. Pietro abbandona Mariangela. L’abbandono della fidanzata, per motivi estranei ai due innamorati, è un’offesa grave portata all’onore della famiglia dei Mamia, ed i membri di essa e di tutto il parentado dei Mamia sono tenuti a riscattarsi dell’offesa ricevuta su uno di loro. Ma Antonio Mamia è ormai vecchio e non può esporsi ai pericoli della campagna; Michelino, suo figlio e fratello di Mariangela, è troppo piccolo; dunque le ragioni della vendetta spettano al cugino di lei. E questi un bel giorno si appiatta dietro una macchia e Pietro Vasa cade ferito malamente da una fucilata. Ora l’onore dei Vasa è impegnato, uno dei loro è stato ferito e deve essere vendicato. Pietro per la gravità della ferita non può proseguire direttamente la vendetta, ed un suo cugino succede nell’impegno d’onore. Uno dei Mamia è ferito dal cugino di Pietro Vasa. La partita dovrebbe essere pareggiata e tutto finir là. Ma il concetto dell’onore presso questa gente di campagna era tale che fin che un morto od un ferito della famiglia rimaneva invendicato, l’onore non era salvo. E così, per questo pernicioso modo di intendere onore, le inimicizie non avevano mai fine e le vittime chiamavano altre vittime e l’uccisione l’uccisione.

Michele Tansu, il feritore ultimo dei Mamia, è ucciso dal padre del ferito e Sebastiano Tansu, una belva in sembianze umane, fratello del Michele, uccide Michelino Mamia, fratello quattordicenne di Mariangela. Nella morale barbara dei galluresi era però ritenuta opera vile e spregevole esercitare la vendetta dell’onore su un bambino o su una donna; per cui l’uccisione di Michelino Mamia portò al parossismo l’odio della famiglia ed il disprezzo verso i Vasa che si erano avviliti uccidendo un bambino. E dopo poco tempo i Mamia pareggiarono la partita uccidendo la vecchia madre di Pietro Vasa, e cadendo anch’essi in quella viltà che rimproveravano ai nemici. E così di vendetta in vendetta l’inimicizia si prolungò parecchi anni, facendo ascendere a oltre settanta il numero delle vittime, finché una pace solenne, giurata in cospetto delle autorità, non pose una tregua agli odi. E come in questa inimicizia era accaduto in quella dei Secchi e degli Spano, dei Quaglione e dei Pittorra, degli Alvisa e dei Fideli etc. L’antico legame spirituale e sociale della gente non si era spento nella famiglia gallurese, per cui ogni membro di essa era tenuto alla difesa ed alla vendetta dell’onore famigliare offeso in persona di uno qualunque della famiglia. Né la giustizia feudale poteva porre un argine allo spirito di vendetta, che anzi lo incoraggiava con gli esempi e con l’impunità concessa ai maggiori delinquenti altolocati. L’amministrazione giudiziaria era corrotta e venale, ed i giudici erano docile strumento di vendetta e di oppressione in mano dei potenti e dei prepotenti. In modo che era facile ai nobili ed ai signori di sbizzarrirsi nelle più feroci vendette e di sottrarsi poi alla giustizia punitiva. L’impunità dei grandi serviva di esempio e di stimolo ai malvagi e di sgomento ai buoni, i quali erano trascinati loro malgrado a riporre la loro difesa nella propria azione personale.

Tutto poi poteva ottenersi per mezzo dei favoriti di corte, ed era opinione generale che con l’oro si potesse mercare l’impunità di qualunque reato. Ed anche quando i giudici locali riuscivano qualche volta a fare il loro dovere, le alte influenze potevano mettere le cose in silenzio.

I giudici locali erano in mano della nobiltà, le alte protezioni facevano tacere il controllo superiore della Reale Udienza, cosicché il corso della giustizia era assolutamente impedito. Ed il nobile signore poteva far uccidere dai suoi sicari decine di persone in una volta impunemente, salvo più tardi ad innalzare qualche chiesa sul luogo del delitto ad espiazione dei suoi peccati!

Il meccanismo stesso dell’amministrazione giudiziaria era un grande ostacolo all’ottenimento della giustizia. «Uno dei difetti grandi di questa amministrazione era, scrive il Martini ab antiquo la mancanza di autorità intermedie tra i due magistrati di Cagliari e di Sassari ed i giudici inferiori, creati dal barone o dal re. Invero, sia perché i due magistrati, posti nell’estremità dell’isola, non potevano esercitare bene la loro azione sopra giusdicenti lontani, resi ancor più distanti dalla mancanza di strade regolari, sia per la mole immensa degli affari governativi che a loro vietava un’assidua vigilanza sopra l’amministrazione interna della giustizia, sia che questa vigilanza era inceppata dal potere baronale, ne conseguiva che i giudici ordinari, abbandonati quasi a loro stessi, regolassero le cose a loro talento. Né il rimedio dell’appello o del ricorso era idoneo a riparare errori e difetti. I giudici che istruivano gli atti criminali potevano adulterare e sopprimere le prove dei reati a pro dei ribaldi ed a danno degli innocenti: intimidendoli e vessandoli potevano poi ritrarre i popolani dalle querele contro le loro male opere. Oltre ciò erano altrettante ragioni la povertà dei popolani e le grandi spese necessarie per sostenere le proprie ragioni in città, ed altrettanti quei giudici ignoranti fomiti d’impunità per l’ordinario, corrotti e d’animo abbietto e vile. E poiché in loro si concentrava ogni sorta di potere ed in specie sopraintendevano ai Comuni ed alla ripartizione dei tributi, bastava che essi si stringessero ai magnati perché a questi fosse lecito di signoreggiare e manomettere le popolazioni»[2].

La conseguenza era che la giustizia non aveva forza contro i grandi, che potevano a loro voglia commettere arbitri e prepotenze, e che i popolani non ricorrevano ai tribunali per paura di non ottener giustizia o peggio. Per cui l’unica giustizia possibile in queste condizioni era quella che ognuno poteva fare colle proprie mani. E queste condizioni duravano da secoli!

Ora è giusto sentire che cosa dice un giudice della Reale Udienza, il Lomellini, mandato nel 1802 ad amministrar giustizia nella Gallura, agitata da torbidi violenti, sulla ragione della delinquenza gallurese: «Essendo stato specialmente incaricato da Vostra Altezza di usare ogni mezzo per ridurre all’ordine ed all’obbedienza quello sconvolto dipartimento (Gallura) mi feci un dovere particolare, per adempiere a questa onorevole ma scabrosa incombenza, di esaminare le cause che servono di stimolo e dalle quali derivano tali disordini. Prescindendo dall’indole dei galluresi, la quale non è di facile cambiamento, due riconobbi essere le cause primarie: la nessuna amministrazione della giustizia tanto nel civile quanto nel criminale e la conseguente totale inosservanza delle leggi; e la manifesta prepotenza della prima classe di questi abitanti e l’ingiustizia vergognosa nei riparti dei carichi, avendo li signori per sgravarsi onerati li poveri in guisa tale che non poterono ulteriormente sopportare il peso».

Che potevano altro fare in queste condizioni i galluresi, se non dar sfogo al loro istinto prepotente di giustizia e con la vendetta di sangue tenere a bada superiori ed uguali?

Ma caratteristico è anche un dialogo avvenuto tra il principe Carlo Alberto ed alcuni condannati mentre egli nel 1829 visitava le carceri di Tempio. Interrogati alcuni detenuti sulla causa che li aveva portati in quel luogo risposero: ci hanno ammazzato il padre, ci hanno ucciso il fratello, ci hanno assassinato anche il figlio e noi abbiamo ucciso qualcuno di coloro che ci avevano fatto tanto male. Ma avendo osservato il principe perché non avessero fatto ricorso alla giustizia, risposero che di giustizia in Gallura non ne esisteva.

La mancata evoluzione del sentimento di giustizia nella psiche del popolo gallurese è dunque da attribuirsi alle condizioni dell’ambiente feudale, nel quale da secoli ha vissuto. In ambiente cosiffatto non era possibile che l’anima gallurese potesse arrivare a miti sentimenti di benevolenza e potesse emanciparsi dal sentimento di vendetta, che era l’unica arma di difesa di cui potesse disporre il popolano di Gallura contro le prepotenze impuni dell’alto e del basso.

Né il sentimento di vendetta è un sentimento così ignobile come si crede: esso esprime il bisogno naturale di tutela e di difesa della personalità umana ed è la prima manifestazione del bisogno di giustizia nei rapporti tra individui. Specialmente nei primi esordi della vita associata questo sentimento costituisce la sentinella della vita e della integrità individuale. La vendetta non è infatti un semplice e solo atto di rappresaglia, ma è anche un atto di protezione e di prevenzione.

Chi si vendica ubbidisce a due motivi e persegue due scopi: l’uno più o meno immediato è quello della ritorsione dell’offesa; l’altro futuro è quello di impedire che l’offesa si ripeta a danno suo e dei suoi. E l’evoluzione del sentimento di giustizia non cancella questo bisogno naturale bio-psichico dell’individuo, ma ne attenua e ne trasporta i mezzi di esecuzione dall’individuo alla società per ovviare a tutti gli eccessi dei temperamenti individuali. Quindi dipende dal modo in cui funziona l’organismo amministrativo della giustizia se la giustizia personale rimane immodificata e se la vendetta primitiva permane come mezzo ordinario di giustizia presso di un popolo. E se il gallurese è rimasto ancora alla primitiva vendetta si deve non solo all’insufficienza ma anche agli abusi della giustizia feudale.

Erano queste le condizioni sociali e morali, nelle quali si è formata la generazione che ci precede di qualche età. La famiglia era l’unica scuola, nella quale il gallurese era educato, e nella quale non poteva imparare se non ad odiare ed uccidere in un orgasmo continuo della propria personalità. Troppe cause di odio e di vendetta aveva accumulate il tempo con il succedersi delle generazioni ed erano troppo forti gli eccitamenti a delinquere nella solitudine della campagna e nell’assenza della società civile.

Caduto il feudalismo ed istituita un’amministrazione giudiziaria migliore e meno corrotta e più alla portata di tutti, diffusasi alquanto la istruzione, aperta qualche strada che facilitasse il commercio spirituale e sociale tra paese e paese e tra campagna e paese, molte cause di rancori e di vendetta sono venute meno, gli animi si sono fatti alquanto più buoni e la vita umana è stata più rispettata. Ma non tanto che il sangue umano non venga di quando in quando a bagnare le zolle di Gallura. Né è a meravigliarsi.

Parecchie cause rimangono ancora, come l’isolamento della gente di campagna e l’ignoranza (perché chi uccide oggi è quasi sempre il pastore) a mantenere immutato lo spirito gallurese; e la generazione vecchia è ormai impotente a cambiarsi. Nuove idealità e nuovi sentimenti già pervadono la mente ed il cuore dei giovani, ma non possono ancora guidare ed inspirare la condotta morale del popolo gallurese. L’eredità prevale ancora sull’educazione nuova; ed è troppo breve il tempo che questa esercita la sua benefica azione riformatrice. Scomparse le vecchie generazioni e meglio educate le nuove quello spirito violento di vendetta si attenuerà e sparirà, e con esso spariranno gli omicidi.

Finora ci siamo trattenuti a studiare le ragioni storico-sociali che hanno mantenuto quasi immodificato lo spirito di vendetta nel popolo gallurese: ora ci incombe il dovere di un’altra ricerca. Dobbiamo cioè vedere in quale connessione sta la delinquenza gallurese con la istruzione e con le condizioni economiche della popolazione.

Nel capitolo relativo abbiamo già visto quale sia lo stato attuale e quale fosse lo stato antico della istruzione in Gallura ed abbiamo visto anche quali ne siano le cagioni. Qui mi limiterò a raffrontare i dati dell’analfabetismo, come risultano dalle leve, con gli omicidi, e limito questo raffronto perché l’istruzione esercita la sua maggiore ed indubitata azione sui reati più gravi di sangue. É inutile ricordare qui ciò che pensa la maggioranza dei sociologi e dei criminologi intorno ai rapporti tra istruzione e delinquenza.

È opinione comune che la diffusione dell’istruzione porti ad una diminuzione della delinquenza, opinione che si riassume nel noto aforisma: per ogni scuola che si apre, si chiude un carcere. Vi è di certo della esagerazione in quest’affermazione: ma è indubitato che una maggiore istruzione porta ad una minore delinquenza, almeno per una certa categoria di reati. Se tante volte non vi è corrispondenza tra il grado di diffusione dell’istruzione e la delinquenza, bisogna trovarne la ragione nel fatto che istruzione non vuol sempre dire educazione, e che la scuola, così come è oggi, non può dare quegli effetti che la società presume: e che soprattutto non vi è omogeneità tra educazione di scuola ed educazione di famiglia. Tre anni di istruzione obbligatoria sono troppo insufficienti di fronte ai dieci o quindici che i ragazzi passano nell’ambiente di famiglia lungi dalla azione della scuola, perché si possa presumere un grande risultato dalla istruzione obbligatoria, tanto più quando l’educazione di famiglia contrasti con quella della scuola. Per cui apertura di nuove scuole non significa sempre diffusione di educazione. Non è da meravigliare quindi se nonostante il crescere del numero delle scuole non diminuisce parallelamente la delinquenza.

In Sardegna stessa ne abbiamo un dimostrativo esempio; il nuorese, che è la regione che dà il maggior contingente di reati, non è l’ultima per numero di scuola e di frequenza.

 

Distretti di Tribunale

Numero di scuole

1897

Numero alunni per 1000 abitanti Numero alunni per ogni scuola   Reati denunciati Omicidi 1896-1898 Furti
Sassari 254 55 754 4167 19 987
Nuoro 104 67 633 5073 63 1590
Tempio 55 54 610 3891 26 649
Cagliari 304 45 906 5958 21 1037
Lanusei 116 62 592 3435 17 884
Oristano 197 57 666 4292 12 1298

 Ma vediamo ciò che succede in Gallura.

Fino a pochi anni fa le campagne erano assolutamente prive di scuola e l’ignoranza era generale. Nel 1857 l’analfabetismo è del 90 e la delinquenza è grandissima negli omicidi; nel 1901 l’analfabetismo scende al 56, e gli omicidi diminuiscono moltissimo.

Nell’ultimo periodo di anni 1883-1900 possiamo fare questo confronto fra il grado di analfabetismo, come risulta dalle leve, ed il numero degli omicidi. Nello spazio di tempo 1883-87 ad una media di 63 analfabeti per ogni cento visitati corrisponde una media di 48 omicidi, in quello 1888-93 ad una media di analfabeti di 58 corrisponde una media di omicidi di 39, e in quello 1894-900 ad una media di analfabeti di 56 corrisponde una media di 26 omicidi.

Da questi confronti non appare a prima vista tutta l’influenza esercitata dall’istruzione sul numero degli omicidi: tuttavia se si ricorda che le campagne sono quasi escluse dal beneficio di essa si capisce facilmente tutta la benefica azione esercitata dalla diffusione dell’istruzione.

Come le condizioni economiche sono quasi indifferenti sugli omicidi, tanto che mentre quelle si fanno sempre peggiori questi decrescono rilevantemente, così l’istruzione non ha influenza manifesta sull’andamento dei reati contro la proprietà, i quali sono però in intima dipendenza dello stato economico.

Prendendo in osservazione gli stessi periodi di tempo più sopra studiati per gli omicidi, si vede che i furti e le rapine crescono in proporzione della miseria generale. Nel capitolo relativo abbiamo già visto come l’alimentazione sia andata peggiorando e ne abbiamo anche notato le cagioni.

Il periodo 1880-87 tuttavia rappresenta per la Gallura un periodo di relativo benessere. Il commercio del bestiame, dei sugheri e dei vini dà alla popolazione un certo grado di agiatezza: il lavoro non manca, la mercede è piuttosto elevata ed il capitale circola sufficientemente. Sta bene il pastore che può vendere a prezzi buoni il suo bestiame, sta bene il proprietario che smaltisce facilmente ed a prezzi rimunerativi le sue derrate e stanno bene i lavoratori che possono locare la loro mano d’opera a prezzi buoni, oscillanti dalle 2-3 lire la giornata per i contadini e dalle 3-5 per gli artigiani. Ed in questo periodo i furti sono relativamente pochi; 321 per ogni 100000 abitanti e le rapine sono sconosciute; siamo cioè al disotto della media del regno.

Nel 1887 accade, ad opera di Francesco Crispi, la denuncia dei trattati di commercio con la Francia e ne segue quella guerra di tariffe che chiude i mercati francesi al commercio del bestiame e dei vini sardi. E la Gallura, che naturalmente faceva un discreto commercio di bestiame, va incontro alla prima crisi. In questo turno di tempo avviene il fallimento del Credito Agricolo Sardo, ingoiando i pochi risparmi del circondario e buttando il paese in balia ed alla mercé degli usurai; tanto più che l’altro istituto di credito, la Banca Agricola Sarda chiude gli sportelli ed entra in liquidazione. Dimodoché mancato il vantaggio dei mercati francesi non bene sostituiti dai mercati italiani, mancato lo scarso capitale circolante delle banche e mancato il denaro dei pochi correntisti, il paese entrò in uno stadio di miseria e di incertezza. Il lavoro si fa più scarso e le mercedi cominciano a ribassare. Ed i furti nel periodo successivo 1888-93 salgono a 395 e le rapine ad 8.

E quasi non bastasse, nel 1890 si aggiunge la fillossera che in pochi anni distrugge tutti i vigneti che costituivano l’ultimo riparo alle decadute condizioni economiche. Si faceva ancora qualche po’di vino, si coltivavano ancora le vigne, e tirava innanzi il piccolo proprietario, e tirava innanzi il medio proprietario ed il lavoratore trovava ancora facile lavoro e viveva. Ma distrutte le vigne, venne meno quella risorsa che teneva su migliaia di famiglie, venne meno il lavoro, comparve la disoccupazione e la miseria stese un velo di tristezza e di tristizia su tutto il paese. Manca il lavoro, le mercedi ribassano ed i prezzi dei viveri rialzano: la lotta per la vita si fa sempre più dura e si chiede al delitto, ciò che non si può ottenere onestamente: il modo di sfamarsi. I furti salgono precipitosamente alla sconfortante cifra di 553 e le rapine a 14! Vale a dire che la gente, sotto il pungolo della fame, ruba semplicemente fin che può, e quando trova resistenza, non ha paura di ricorrere anche alla violenza. E ciò che è più caratteristico a dimostrare la intima dipendenza della delinquenza dalle condizioni economiche, compare una nuova forma di furto, il furto delle barbatelle e delle viti americane innestate. Un’altra prova non meno eloquente di questa connessione la troviamo mettendo a raffronto il numero degli scartati alle leve, ciò che è indice della miseria fisiologica, con il numero delle rapine e dei furti:

Periodo di osservazione Numero degli scartati Furti Rapine
1883-1887 50 321 1
1883-1888 51 395 8
1894-1900 63 553 14

 E naturalmente crescono anche quei reati d’indole civile che dipendono in buona parte dallo stato economico della popolazione, come i reati contro la fede pubblica, i quali sono di 61 nel primo periodo, salgono a 76 nel secondo e giungono ad 80 nel terzo.

Considerando ora nel suo insieme la dinamica della delinquenza gallurese, questo osserviamo che va sempre più attenuandosi il fattore antropologico, mentre prevale sempre più il fattore economico.

Diminuiscono gli omicidi e crescono in proporzione allarmante i furti e le rapine. Per cui dobbiamo notare un grande miglioramento nella vita gallurese ed affermare che la Gallura lentamente ma sicuramente si avvia alla sua risurrezione morale. E se una sana educazione saprà utilizzare quel grande sentimento sociale, che accanto a quello della vendetta costituisce lo sfondo psicologico del popolo gallurese, questo raggiungerà presto quel livello, cui da tempo sono arrivati i popoli settentrionali. Voglio dire quel sentimento di benevolenza e di pace, per cui i nostri pastori ricorrono alla composizione amichevole delle loro controversie mercé un tribunale di probi uomini. E se questo sentimento sarà coltivato ed ingrandito, esso riuscirà a dominare quello della vendetta e ad ispirare la condotta morale.

Tutto questo naturalmente non può ottenersi se non con la diffusione dell’istruzione, con l’avvicinamento degli uomini, mediante l’accentramento della popolazione sparsa nelle frazioni, che già si avviano a diventare villaggi, e coll’allacciare queste ai principali centri tramite comode e numerose strade. Allora quelle rozze e fiere anime si ingentilirebbero, si farebbero più umane e più civili al contatto sempre rinnovato e presente degli uomini e col sussidio dell’istruzione e coi vantaggi che arreca alla vita spirituale la città.

Una prova luminosa l’abbiamo in Santa Teresa. Questo piccolo paese sorse nel 1808 in riva al mare al posto dell’antico Longone, raccogliendo molti pastori della regione e molti banditi, ai quali veniva concessa la grazia a patto di abitare il paese. Dopo la costituzione del paese, la vita cambiò immediatamente per quei pastori e per quei banditi che lo formarono. Lo stesso Magnon, l’ordinatore del paese, poteva riferire al re Vittorio Emanuele che erano cessati quegli omicidi che quasi giornalmente accadevano in quelle spiagge e che non si sentiva più parlare di furti né d’abigeati. È vero purtroppo che lo stesso Magnon doveva esperimentare a sue spese che non si cambia di botto lo stato d’animo degli individui; ma S. Teresa costituisce anche oggi il paese più onesto e più tranquillo della Gallura e quello che con maggior attenzione cura l’istruzione e quello che dà il minore contingente d’analfabetismo.

Alcuni sociologi paventano la vita della città e la incolpano della degenerazione fisica e morale degli individui. Nel caso nostro possiamo constatare il contrario: il cittadino è più sano, più onesto e più morale del pastore. Perché, come ho già accennato, è l’isolamento, nel quale vive il nostro pastore, la causa precipua per cui la sua psiche è dominata dal sentimento di vendetta e di odiosità.

I nostri piccolissimi centri cittadini del resto non possono far temere le conseguenze fisiche e morali delle grandi città, come Parigi, Londra, Berlino etc. dove l’affollamento è causa di morte e di delitti: anzi essi hanno i vantaggi di togliere gli uomini all’isolamento senza affollarli nei tuguri, negli ospedali, nelle carceri e nei postriboli. Sarebbe allora più facile far arrivare a tanta popolazione il beneficio dell’istruzione ed all’ozio ed all’inerzia, cattiva consigliera, sostituire l’attività produttrice e moralizzatrice.

Non ho esitato un momento a dichiarare che la Gallura si avviava alla sua risurrezione morale nonostante il grande e crescente numero dei furti e delle rapine, perché questi reati, come evidentemente abbiamo visto, sono tanto intimamente legati alle condizioni economiche della popolazione che, migliorate queste, essi tenderanno a rientrare entro quella cifra che si può e si deve ritenere normale in rapporto al sistema sociale di vita di ciascun periodo storico.

Eravamo al disotto della media del regno pei furti nel periodo che decorre dal 1880 al 1887 e non conoscevano le grassazioni, e nulla toglie che, rialzate le condizioni generali col ricostituirsi delle vigne, col progredire delle industrie e dei commerci, noi scendiamo anche al disotto di quella media.

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[1] Attilio Niceforo, La delinquenza in Sardegna cit.

[2] Pietro Martini, Storia della Sardegna dal 1799-1816, Cagliari, Timon, 1852.

 

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