Feste campestri

di Francesco De Rosa

Sul luogo ove sorgevano le ville medioevali di Gallura e sopra i suoi bei colli vennero edificate dalla pietà dei giudici o da persone facoltose – per sciogliere un voto o per guadagnarsi l’intercessione o la protezione della Vergine o di qualche santo –, le chiese che tuttora si vedono disseminate nelle spopolate plaghe galluresi a non molta distanza dai villaggi esistenti dove, dai discendenti dei fondatori, o dai gremi d’operai, o dalle soprastantie come volgarmente si dicono, si celebra annualmente la festa del patrono della chiesa oppure di quei santi a cui furono al tempo o successivamente dedicate.

I soprastanti vengono distinti in maggiori o minori a seconda dell’entità della somma sborsata in denari o in bestiame: vale a dire sono soprastanti minori se offrono una somma minore di L. 2.50, e soprastanti maggiori se versano una somma maggiore. La soprastantia nomina un consiglio direttivo composto del capo soprastante, dell’operaio e da due o più consiglieri. In alcune il capo è a vita, in altre viene, come il resto del consiglio, nominato annualmente a turno.

Qualche settimana prima, o almeno la domenica precedente la celebrazione della festa, questa viene annunziata nella parrocchia della città o villaggio da cui dipende.

Alcuni giorni prima, i soprastanti massai, abitanti del vicino paese, fanno preparare dalle loro donne il pane necessario alla felice ricorrenza, a cui uniscono abbondante vino in barilotti, zucche e fiaschi, mentre i soprastanti pastori che vivono negli stazzi delle dipendenti cussorge (gli antichi pagus), uccidono un capo ovino per ciascuna famiglia al fine di fornire la carne sufficiente. Talvolta vi provvedono uccidendo una o più vacche, contribuendo alla spesa ciascuna famiglia in base ai capi ovini da preparare. Oltre alla carne i soprastanti pastori forniscono alla mensa formaggio fresco, favi di miele, ossigala (miciuratu) ed altri latticini.

La sera prima del vespro gli alfieri o portabandiera («bandirai») designati dai soprastanti maggiori – montando superbi cavalli, riccamente bardati, con la criniera acconciata a treccia e la coda annodata a più riprese, intrecciate l’una e l’altra di nastri di seta a svariati colori e portanti al collo collari ricamati, carichi di squillette e di bubboli –, portano ripetutamente le bandiere attorno al paese, tenendole ferme nella destra mano e col calcio di esse appoggiato al piede destro, ogni tanto sparando in aria in segno d’allegria. Infine vanno a deporre il sacro vessillo alla finestra del capo soprastante, o di quella casa da cui si renda maggiormente visibile alla maggioranza dei popolani, dopo aver fatto un doppio giro intorno ad essa.

L’indomani verso le otto del mattino, i portabandiera, tolte dalle finestre le bandiere, le portano, come la sera precedente, volteggiando attorno al paese; quindi si recano a una piazza convenuta, dove arrivano pure il sacerdote e tutti coloro che desiderano accompagnare, per sentimento religioso o per mera curiosità, le bandiere.

Una volta pronti per la partenza uno dei soprastanti maggiori dà da bere un bicchierino d’anice o d’acquavite o di vino bianco ai componenti il sacro corteo. Fanno compagnia il suono ininterrotto delle campane e lo sparo reiterato dei fucili. Il tepore dell’aria primaverile, l’azzurro dei cieli, il profumo dei fiori, in particolare le rose vermiglie che accarezzano il viso delle fanciulle galluresi, l’ardente sguardo dei loro occhi affascinanti, fanno eco al suono dei delle campane e alle salve dei partenti e rendono solenne e indimenticabile quell’ora.

All’arrivo vengono ricevuti da coloro che, per vincere l’attesa, gli si erano recati di buon mattino incontro con una salva interminabile di fucileria. Frattanto i bandierai, arrivati alla porta dell’umile chiesetta, senza smontare da cavallo né pronunziar parola s’inchinano davanti al santo che si vede nel bel mezzo o a uno dei lati dell’umile chiesetta, sopra un tavolino coperto da una stoffa di seta o sopra un soglio alla meglio improvvisato e sotto un candido baldacchino ornato di foglie e frange d’oro.

Quindi spronato il cavallo e rispondendo alle salve dei festaioli, scaricando ripetutamente i loro fucili, caracollano attorno alla chiesa per tre consecutive volte, finché tornati per la terza volta alla porta, smontano dai cavalli, cui consegnano per custodirli ai parenti, o a coloro che volonterosi vi si prestano, ed entrati nella chiesa, presentano genuflessi, al santo le sacre insegne e, recitata una breve preghiera, s’alzano e si appressano all’altare per farne consegna al sacerdote che le benedice, le riceve e le appoggia a uno o ad ambi i lati del presbitero.

Già fin dal mattino vi si erano recati i soliti rivenditori ambulanti di vino, liquori, confetti, chicche e frutti secchi; specialmente i Pattadesi coi loro torroni, i Milesi coi loro agrumi, i fruttaioli, gli erbivendoli, i cantimbanchi e simile genia.

Più tardi arrivano carri stracarichi di persone che, per non impazientirsi lungo il cammino a causa della lentezza dei buoi, che a mala pena possono tirarsi dietro il pesante veicolo, cantano al suono dell’armonica amorose canzoni, bagnandosi ogni tanto la gola con acquavite o “generoso” vino; cavalli che ad ogni incontro di carro s’arrestano per dar modo ai festaioli di scambiarsi complimenti e invitarsi a vicenda, brindando e bevendo in onore del dio che presiede alle feste campestri; seguono in ultimo, a piedi, a torme e a drappelli, uomini e donne, giovani e zitelle, fanciulle e bambine, i quali non hanno potuto procurarsi un cavallo o hanno voluto sciogliere in tal modo un voto.

Frequenti sono i voti per recarsi alle chiese campestri, fatti per lo più non per ottenere la guarigione da una vera o immaginaria malattia, non per allontanare un reale o inverosimile pericolo, non per impetrare una grazia di cui spesso non si sente bisogno, non per ringraziare il santo dei favori ottenuti dal cielo grazie alla sua intercessione; ma per avere un pretesto qualunque di recarsi alla festa: attratti da quella forte inclinazione dei Galluresi di far sfoggio della loro valentia nelle corse o nel tiro al bersaglio, di lasciarsi trascinare («sbrigliarsi») nel turbine allegro dei balli nazionali, di godere un’ampia e sfrenata libertà, abboccandosi fra innamorati, dando la caccia ai merli e alle civette e “cogliendovi talora l’acerbo frutto d’un amore prematuro”: all’insegna di una morale “larga” ma accetta alla maggioranza degli accorsi. Questo e non altro è l’incentivo che spinge la maggior parte dei Galluresi e principalmente i pastori ad accorrervi in folla: pertanto s’ingannerebbe chi – vedendo i voti appesi alle pareti o giacenti sull’altare e gl’innumerevoli ceri accesi attorno al santo –, credesse che il solo fervore religioso spingesse i votanti a spendere la moneta necessaria a comprarli: questa spesso non rappresenta che quell’altra che si gettava nel tempio di Venere Militta, o che si paga all’ingresso d’un teatro di burattini.

Man mano che arrivano i festaioli entrano in chiesa, si prostrano davanti al simulacro e recitano una breve preghiera. Alzati, escono e vanno in cerca d’un comodo sito per piantarvi una tenda, quando non hanno la fortuna d’imbattersi in un albero che, con la sua fronzuta chioma, voglia prestarsi a proteggerli dai cocenti raggi del sole il giorno e dall’umido la notte. Piantata la tenda e trasportatevi dentro le necessarie masserizie, sistemati i cavalli o i buoi, i giovani e le giovani, siano scapoli o coniugati, si portano alla sagra della chiesa, dove al suono dello scacciapensieri, d’un’armonica o d’un altro strumento da corda o da fiato e in difetto del canto d’una persona accompagnata d’altre tre, di cui una fa da baritono, un’altra da tenore e l’ultima da soprano, danno principio ai balli sardi («nazionali»), i quali un tempo erano preferiti a quelli d’oltre mare o civili, perché generalmente ritenuti più convenienti alla modestia e al decoro delle fanciulle, mentre gli altri erano ritenuti osceni o quanto meno poco confacenti alle nostre avite costumanze. Oggi i balli civili hanno preso il sopravvento su quelli sardi, i quali fra non molti anni sono destinati a sparire interamente.

Negl’intervalli i ballerini conducono le loro dame dai liquoristi, facendole servire liquori o altro che preferiscono.

Ai bravi tiratori piace poi recarsi a qualche distanza dalla chiesa per tirare al bersaglio.

Il suono del vespro interrompe in parte le danze: i devoti si recano in massa in chiesa lasciando che gli altri, più amanti del corpo che dell’anima, continuino a danzare o a divertirsi.

Finito il vespro, i primi riprendono le danze, fin quando la voce d’uno dei soprastanti operai non annunzia che la cena sta per essere servita.

Terminato di cenare i festaioli ritornano alla sagra. La maggior parte di essi intrecciano animate danze attorno ai soliti suonatori; un’altra parte s’appressa invece ai banchi dei rivenditori, dei torronai o dei fruttivendoli: chi per innaffiare o rimpinzar con leccornie lo stomaco e chi per conquistare («rendersi propizie ai loro salaci desideri») le comari e le pastorelle, invitandole a bere, regalando loro cartocci di confetti o panetti di torrone; un’altra s’addossa al tavolo dei cantimbanchi per tentare la fortuna, la quale non va più in là del guadagno d’un coltello, d’un portaritratti o di simili gingilli; e un’altra parte ancora circonda i poeti estemporanei, i quali, come i giullari o trovadori del medio evo, non mancano dove vi è allegra e importante cerimonia: desiderosi come sono di far pompa della loro bravura e di raccogliere nuovi allori, che spesso con troppa liberalità gli spettatori intrecciano attorno alle loro fronti.

A tarda notte incomincia la caccia alle pastorelle (almeno così si usava nei tempi passati). I giovani le circondano, se le fanno comari di fazzoletto, e complimentatele, le invitano al torrone, ai confetti, al rosolio, di cui esse sono tanto ghiotte, recandosi – per mangiare e bere assieme e per togliersi alla vista dei curiosi e degli importuni – dietro qualche folto macchione o sotto l’ombrello d’un fronzuto albero o dentro qualche grotta, dove, dopo aver mangiato e bevuto abbondantemente si congiungono carnalmente[1].

Pare incredibile che i pastori, così scrupolosi in questioni d’onore, concedano nelle feste alle loro figlie una libertà che meglio si adatterebbe ai costumi inglesi e dell’America del Nord.

Ciò richiama al pensiero il costume di molti popoli orientali, specialmente dei Greci, degli Egizi, dei Caldei e dei Cananei, per quanto ci riportano Omero (Iliade, XXIV, v. 30; Odissea, IV, v. 261), Strabone (VI, p. 418; XI, p. 805; XII, p. 837; XVI, p. 108); Pausania (IX, cap. 16, p. 242), Apollodoro (I, p. 7), Marziale (II, epigramma 84), Giustino (XVIII, cap. 5), Partenio (Schol. Om. ad Iliade, V, v. 412), Igino (Fabulae, 58), Erodoto (I, n. 32), Ovidio (Metamorfosi, II, p. 238), Plutarco (II, p. 146 D; p. 310 F), Valerio Massimo (VIII, cap. 15, § 12), sant’Agostino (De Civitate Dei, IV, cap. 10), di presentarsi almeno una volta in vita al tempio di Venere per prostituirsi, a fin di tener lontana l’influenza della maligna dea e serbarsi caste nel restante della vita.

A notte inoltrata la maggior parte dei festaioli si ritira negli stazzi vicini, dove molti continuano a ballare per il resto della notte, altri dormono per terra su stuoie di giunchi o su lanosi giacigli: spesso alla rinfusa uomini e donne.

Dove non vi sono stazzi, le donne si ritirano a dormire in chiesa sotto la protezione del sacerdote e del sacrista che, accanto ad esse, dormono sdraiati ai piedi dell’altare. Nessun uomo può varcare la sacra soglia: pur non di meno qualche geloso marito o qualche ardente innamorato riesce talora ad eludere la vigilanza del prete, spesso con la connivenza del sacrista che, per qualche monetina, mostra di non vedere e sentire nulla.

All’alba, col ridestarsi della natura al soave canto degli uccelli canori, si alzano tutti, e dopo aver rifocillato lo stomaco con carni arrostite, vino, caffè o liquori, ritornano più freschi che mai ai giochi, alle danze e agli esercizi di tiro al bersaglio.

Verso le dieci del mattino il campanello portato in giro da un soprastante annunzia che la messa solenne sta per incominciare. D’un tratto le danze cessano, si spopolano le capanne dei rivenditori e dei giocolieri: tutti, uomini e donne, si riversano in chiesa dove, fra preghiere e pentimenti, i giovani e le fanciulle si scambiano ardenti occhiate. Terminata la messa, si porta in processione il santo attorno alla chiesa, fra lo sparo continuo dei fucili e d’altre armi da fuoco.

Compiuta la cerimonia religiosa si va a pranzo, quindi si ritorna ai balli e agli altri passatempi che si protraggono fino alle ore quindici. In questo frattempo c’è la corsa dei barberi, per assistere alla quale s’era interrotto ogni altro divertimento.

Alla fine giunge inesorabile l’ora della partenza, e qui sarebbe da descrivere il mesto accomiatarsi delle pastorelle dai novelli compari paesani, le calde proteste d’amore o quelle d’una salda e duratura amicizia, la vicendevole promessa di rivedersi presto in una prossima festa campestre o del villaggio!

Intanto i giovani danno ancora fondo ai torroni e altri dolciumi dei rivenditori e ai rinfreschi e liquori, per gratificare lo stomaco delle graziose e belle comarine.

I bandierai intanto rientrano in chiesa per riprendere le sacre insegne che vengono loro restituite dal sacerdote. Quindi, inginocchiatisi per una breve preghiera, escono, rimontano sui loro cavalli da parata («palafreni»), fanno di nuovo un triplice giro intorno alla chiesa e dato – sparando – il segno della partenza, s’avviano al paese salutati da una salva interminabile di fucileria.

Gli altri festaioli li seguono, in parte accompagnandoli e in parte seguendoli a brevi intervalli. I cavalli vanno al trotto mentre invece i carriolanti stimolano con pungoli di ferro i buoi per affrettare il passo.

Vicino al paese i bandierai, coi vessilli spiegati all’aria mite della sera, e i giovani e gli adolescenti dando di sprone ai cavalli, vi entrano di corsa, seguiti da lontano dagli sbuffanti buoi, nel mentre le campane suonano a distesa annunziando e salutando l’arrivo dei festaioli.

I bandierai rifanno per tre volte consecutive il giro rituale attorno al paese, poi si recano a depositare i vessilli presso i rispettivi proprietari; gli altri si recano alle loro case o alla porta di coloro che loro prestarono o dettero a pagamento carri o cavalli, per farne la dovuta consegna.

Al suono della campana, quelli che erano rimasti in paese ne escono fuori ad incontrarli e dar loro il benvenuto, frammischiando le loro grida di gioia a quelle dei festanti.

Ad integrazione della descrizione della festa, credo opportuno aggiungere quella dei cibi che si preparano per gli intervenuti, tanto più che in essi ognuno avrà un’immagine fedele del modo di cucinare degli antichi Greci e d’altri popoli d’Oriente e d’Occidente.

La sera del vespro si cucinano i visceri delle bestie uccise e una porzione di carne per i sacerdoti e i notabili del paese, quando a essi non si serve invece del pesce o dei maccheroni spalmati con manteca (ociu caxu). Il giorno seguente si abbrustoliscono per colazione bei tocchi di carne infilati in lunghi spiedoni di verde lentisco o di mirto.

Alle nove si comincia a preparare il pranzo. Il capocuoco chiama presso di sé i sottocuochi e gli sguatteri per mettersi prontamente all’opera. Preparato un soffice strato di frasche, vi si gettano sopra ceppi e tronconi su cui alcuni squartano e tagliano in minuti pezzi le bestie uccise o quelle che si crede possano bastare a saziare lo stomaco di coloro che si siederanno a tavola. Intanto altri accendono grandi fuochi presso ai quali mettono i treppiedi, formati da tre pietre disposte a triangolo, su cui si poggiano enormi pentole di terra cotta o ampie caldaie di rame, di solito non stagnate, nelle quali, dopo avervi fritto abbondante lardo e strutto, vi gettano le carni sminuzzate: in ultimo vi si versa tant’acqua per il brodo.

E poiché non sarebbe sufficiente il brodetto, come si suole chiamare questa pentolata di carne, s’infilano in grossi e lunghi spiedi metà e quarti d’agnello, di pecora e di capretto, accanto ai quali siedono cuochi, provetti o improvvisati: chi per attizzare o aggiunger legna al fuoco, chi per rimestare con lunghe pertiche o verghe le carni nel grasso brodo e chi per far girare i pesanti spiedi, aggiungendovi di tanto in tanto nuove braci in modo tale che un ben temperato calore arrostisca le carni, senza che ne sia per nulla alterata l’apparenza esterna: tanto che, pur quando è cotta, la si potrebbe scambiare per cruda.

Mezz’ora prima del pranzo si distende sopra uno strato di frasche o di asfodelo una lunga tovaglia, presso gli orli della quale si dispongono in giro a breve distanza tante scodelle quante si presume siano i coperti, e accanto a ciascuna scodella una schiacciatina (ciccara) e una posata.

Al tocco del mezzodì viene dato il segnale che la mensa è imbandita. A capo di essa siede il sacerdote coi cantori e i notabili del paese, quindi il consiglio direttivo, poi gli altri alla rinfusa, sedendo prima chi arriva prima e dove meglio possono cacciarsi gli ultimi: all’infuori del prete che si fa sedere su morbido guanciale, e di coloro che l’attorniano i quali siedono su pietre o massi, tutti s’accoccolano per terra come tanti turchi, o meglio come usavano sedersi gli antichi progenitori dei popoli galluresi. Prima d’ogni altra cosa viene servita la zuppa gallurese, quindi il brodetto, poi l’arrosto e in ultimo ossigala (jogurt), ricotta, formaggioli, miele, ecc. Solo il vino, abbondantemente versato al sacerdote, ai cantanti, ai notabili e ai componenti il consiglio, viene agli altri servito così parcamente che è molto se ne tocca a ciascuno un paio di bicchieri.

Non si creda che il vitto venga apprestato per i soli soprastanti, ma si prepara per quante persone si calcola interverranno alla festa. Perciò tutti, paesani o forestieri, devoti e curiosi, soprastanti o non soprastanti, possono partecipare alla mensa comune, o come suol dirsi alla tavola rotonda, senza timore d’esservi guardato male («a stracciasacco»). Anzi alla festa di San Pancrazio in Bortigiadas, ogni forestiero che vi si reca, grande o piccolo che sia, oltre a trovarvi la tavola apparecchiata, si vede regalato un pezzo di carne vaccina del peso di cinque chilogrammi.

Questo uso di sedere a mensa comune, senza distinzione d’età, di sesso e di ceto, richiama al pensiero l’antica costumanza, per volere di Minosse, dei Cretesi (Aristotile, Politica, VII, cap. 10; Strabone, X, p. 736) i quali mangiavano alla stessa tavola, venendo alimentati a spese dello stato. Tuttavia la maggior parte delle famiglie paesane, non adattandosi al modo predetto di cucinare preparavano in disparte i loro pasti, ai quali invitano i forestieri di loro conoscenza e quelli che ritengono non s’adattino alla mensa apparecchiata dai soprastanti.

Dopo aver mangiato, i soprastanti dividono fra loro il pane che è sopravvanzato. Quindi si fa il rendiconto e si nomina il capo soprastante e gli altri membri del consiglio per il venturo anno.

Come le nostre chiese campestri, gli antichi popoli orientali, per esempio gli Eraclidi, gli Joni, i Cananei, i Dolopi, ecc., avevano i loro templi sorgenti sui colli e fra le selve dedicate alle loro divinità, in cui celebravano le feste.

Come presso i Galluresi, così era comune l’uso di far voti presso i Libi, e i Tirreni, i quali ultimi, come rilevasi dai loro vasi, cercavano con offerte, preghiere e sacrifizi, placare lo sdegno degli Dei: giacché presso quel popolo, come presso i moderni Galluresi e i popoli tutti dell’antico Oriente, le infermità erano ritenute un segno palpabile dell’ira divina. E come in Gallura vanno o vengono portati nelle chiese per chiedere ai piedi del santo la guarigione dei mali, così gl’infermi si portavano al tempio di Esmum in Berito e si ricorreva a Baal, ad Astarte, a Beelfegor, a Dagon, a Chamos, a Moloch, a Beelzebub, a Esculapio, a Iside e a Serapide, i quali ebbero pure culto nella sarda isola.

Il passar la notte o più notti presso le chiese campestri fa ricordare l’antica pratica così detta dell’incubazione, per mezzo della quale i malati e i parenti e gli amici cercavano di conoscere nel sonno dalle divinità medicali il più efficace rimedio alle infermità. Coloro che andavano a consultare la Dea Iside, scrive Diodoro Siculo, riacquistavano la salute contro ogni malattia. Parecchi, la cui guarigione era riguardata dai medici come disperata, furono salvati in tal modo, e altri che erano privi chi dell’uso della vista o di qualche altra parte del corpo, rifugiandosi per così dire nelle braccia della dea, furono restituiti al godimento delle loro facoltà. Molte inscrizioni greche scopertesi (vedi Boeckh, Corpus inscriptionum graecarum, tomo 3, p. 5980) consacrano simili guarigioni dovute a Esculapio e a Serapide. Come presso di noi, anche presso gli antichi Greci, gli Ebrei e gli altri popoli dell’antichità le feste venivano celebrate con danze, canti, giochi, banchetti, senza parlare delle camminate, processioni, ecc. (Platone, De Legibus, VII, p. 886).

Il bersaglio, usato così frequente dai Galluresi, rappresenta il trar d’arco dei Greci nei loro giochi, quale ci viene descritto nel canto XXIII dell’Iliade da Omero, e di tutti i popoli antichi d’Oriente, e la corsa dei barberi quella delle bighe, pure descritta nel predetto canto dell’Iliade. I Greci e i Romani usavano pure la corsa dei barberi, come si fa al presente.

Scaduta che fu presso questi popoli, fu rimessa in uso dagli Italiani, e noi sappiamo che nel XIII secolo praticavasi a Roma, Firenze, Bologna e in altre città italiane. In tali corse davasi per premio ai vincitori alcune braccia di pannolano, di seta, o di broccato, che venivano esposte al pubblico, come pochi anni sono ancora tra noi avveniva, prima della corsa. E poiché il taglio, che veniva esposto appellossi palio, ne venne la frase: Correre il palio o Correre al palio (currì lu palu), per denotare la corsa dei barberi.

Come avviene nella festa di San Giacomo di Bortigiadas, gli Ebrei usavano in occasione di feste o di fauste ricorrenze della carne (arrostita): locché si legge aver Davide praticato dopo il trasporto dell’Arca dell’Alleanza da Cariat-Jarim a Gerusalemme.

Solitamente dopo la messa solenne (nei villaggi appena terminata la predica) si legge la nota dei soprastanti, come nei primi secoli, celebrate le sacre funzioni, prima dello stabilimento delle decime, si leggeva la nota degli oblatori.

L’Operaio, colui il quale amministrava le particolari entrate d’una chiesa, è istituzione che risale a quei secoli. In Sardegna fin dal sesto secolo lo vediamo amministrare il così detto patrimonio di San Pietro. Le chiese di Pisa, il convento di Montecassino, quello di S. Vittore di Marsiglia ed altri monasteri del continente tenevano in Gallura e altrove nell’isola degli Operai per amministrare i loro beni e raccogliere offerte.

L’uso di tenere tavola comune nelle feste campestri e l’obbligo d’ogni soprastante di contribuire alla spesa ci ricorda le feste fidizie nelle quali si davano banchetti all’aria aperta, mediante le contribuzioni, che, secondo il Bernegero, ogni intervenuto era tenuto a fare di una certa misura di farina, otto cori di vino, cinque mine di formaggio, ecc.

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[1] Così nel testo originale: «[…] dopo aver copiosamente onorato il dio Ventre, sacrificano a volte il loro onore sull’ara improvvisata della voluttuosa dea».

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