III.3 – Feste di ragazzi e feste di giovani

di Maria Azara

Ne faccio un paragrafo unico perché molti degli usi seguiti normalmente dai ragazzi grandi sono imitati dai ragazzini e non è raro che, durante una festa campestre o in altre occasioni si vedano giovanotti e ragazze imitare alcuni giochi fatti solitamente dai ragazzini.

Appartengono specialmente ai ragazzini le solenni giornate di Capo d’anno e dell’Epifania, in cui, a gruppi, si recano a casa di parenti ed amici (e quelli più poveri in qualunque casa dove prevedano di trovare buona accoglienza) e, bussando alla porta de mandano «E déti la bòna strinna» (strenna).

Per lo più ricevono qualche moneta oppure una maggiore o minore quantità di noci, mandorle, nocciole, fichi secchi, stagne secche ecc.

Qualche volta soltanto… buone parole e raramente risposte sgarbate.

La ripulsa scortese è considerata gravemente offensiva; non manca la reazione dei birichini che, oltre a rispondere per le rime, non risparmiano qualche sassata alla porta.

Non si va mai nelle case, nelle quali si sa che qualcuno è ammalato grave e dove si è in lutto recente.

Nella zona presso l’Anglona si usa, come anche nel territorio sassarese, cantare in questa occasione li gobbuli. Dopo aver bussato i ragazzini chiedono: «a cantamus?» (cantiamo?) «cantàde» (cantate) si risponde. Allora il coro o una voce isolata, alla quale fa eco il coro ripetendo l’ultimo verso, canta o qualche volta recita come nei versi seguenti favoritimi dalla professoressa Biccheddu.

Sos tres res de Oriente
I tre re di Oriente
Fattu de s’istella andana
Dietro la stella andavano
In Egittu ch’intrana
In Egitto entravano
E in Egittu ch’intrein
In Egitto entrarono
E tres Missas li narein
E tre Messe gli dissero
Dae sa notte ’e Nadale
Dalla notte di Natale
Si no’nde cherides dare
Se ci volete dare
De calchi còsa, a chent’annos
Qualche cosa, a cent’anni
E bòna notte e bòn’annu
E buona notte e buon’anno
E bòna Pasca cumprida
E buon Natale completo
E Déus bos died vida
E Dio vi dia vita
Mezzus a un atteru annu
Meglio a un altr’anno

Quando non ricevono doni i ragazzi, oltre le reazioni su accennate, rispondono pure maledicendo in poesia.

Tira tira sa colora
Circolino le bisce
Dee su lèttu e su foghile
Dal letto al focolare
Centu nd’azzis dadu a mie,
Quanto ne avete dato a me,
Gai ndappes dae intro e fora!
Ne abbiate dentro e fuori!

Anche per i ringraziamenti funziona l’estro poetico.

Gi nos amis regaladu
Già ci avete regalato
Cun gustu e cun allegria
Con gusto e con allegria
Five chie no l’ada dadu
Viva chi ce l’ha dato
Can totta sa cumpagnia
Con tutta la compagnia

Riproduco come esempio una gòbbula che mi è stata favorita dalla professoressa Biccheddu:

Bona notte, su Canonigu
Buona notte canonico
No li enzo cun imboligu
Non vengo in mala fede
Benzo pro l’imbisitare
Vengo per visitarvi,
Benzo pro li raccontare
Vengo per raccontarvi
Comente mi allevei.
Come mi allevai
A giaganu mi ch’intrei
Come sacrista entrai
Tres annos e una ghida,
Tre anni e una settimana
Pro sustentare sa vida
Per sostentare la vita
In cussu impreu vivesi.
In quell’impiego vissi
De muccolos nde furesi
Di moccoli ne rubai
Duamizzatrintatrese.
Duemilatrentatrè
Arbas e armignos? Trese?
Rocchetti e tuniche? Tre?
Non si podene contare
Non si possono contare
Sas tiazzas de s’altare
Le tovaglie dell’altare
Las isconzao a bentone
Le disfacevo per farne camicie
Sas casulas a giuppone
Le pianete per farne giubbe
Mi sò fattu malandrinu
Mi sono fatto malandrino
Ca mi io tottu su inu
Che mi bevo tutto il vino
Abbaidemmi sa zamarra
Guardatemi la zimarra
Chi poned su festiggiante
Che mette il festaiolo
Sas origias dogni istante
Le orecchie ogni istante
Mi muidan che fanfarra
Mi ronzano come fanfara
Totta ganta istrazzulada
Tutta quanta stracciata
Totta ganta tappulada (130)
Tutta quanta rattoppata
Est a varios colores
È a vari colori
Abbaidemmis sos calzones
Guardatemi i calzoni
Chi non’nde poden pinsu.
Che non ne possono più.
Ma como mi diad dare
Ma ora mi dovete dare
Caschi pagin de reales
Qualche paio di monete
Vivad puru chena males
Viviate pure senza mali
Vivad para senz’affannos
Viviate pure senz’affanni
Bona notte e a chent’annos.
Buona notte e a cent’anni.

(130). A questo punto un’altra versione è la seguente:

Pared unu solideo
Pare uno zucchetto
Sa poveltade ch’appeo
La povertà che ho io
Isse la potad gosare
La possiate godere voi
Ma como mi dio dare ecc.
Ma ora mi dovete dare

Anche nella sera di Ognissanti, specialmente a Tempio, si usa fare questa specie di questua. Il gruppo di ragazzi è fornito di un campanello che dà rintocchi imitanti quelli delle campane (don! don! don!), con cui dal campanile viene ricordato ai fedeli che il giorno successivo è quello dedicato alla memoria dei defunti.

Giunti alla porta i ragazzi dicono: «e ci déti li mòlti e mòlti?» (ci date i morti e morti?  Cioè «Ci volete dare qualcosa in memoria dei vostri morti anche i più remoti?).

Anche nella risposta è contenuto il ricordo dei defunti. «Grazi. Sia pa li ’ostri mòlti» (Grazie, sia per i vostri morti).

Il dono, per lo più, consiste in un poco di castagne fresche, ma si danno anche fichi secchi, noci ecc.

Molto attesa dai bambini è la sera di Natale: non si usa far l’albero di Natale; è consuetudine invece ma non costante, di fare il presepe.

Quello che non manca mai è il consumo dei dolci; molto gradito dai bambini, e anche dai grandi. Si può quasi dire che non vi sia famiglia, che ne abbia la possibilità, che nella sera di Natale non abbia «aranciata» o acciuléddi (pasta di farina mista a miele), cucciuléddi o niuléddi (impasto di miele, con una o più qualità di noci, di nocciole, di mandorle, di fichi secchi cotti al forno) o papassini pasta dolce con uva passita e noci) e tutta l’altra serie di dolci, più o meno speciali, che le buone mamme sanno inventare e manipolare così bene; e fra cui primeggia lu pane e saba (pane impastato con sapa).

Le mamme econome costituiscono la riserva di questi dolci per impedire che i bambini facciano indigestioni e per far durare più a lungo il piacere di soddisfare la loro ghiottoneria. Ma questa è sempre grande e se il nascondiglio non è proprio sotto chiave, il che raramente avviene, i piccoli finiscono per trovarlo, rubando a man salva e la provvista è presto esaurita, provocando la finta ira e le minacce della mamma.

Nella notte di vigilia del Natale le chiese si affollano di fedeli fin dalle 21 o dalle 22 per assistere alla Messa di mezzanotte (La Missa di mezzanòttisa Missa de puddu).

Le tre Messe, come si sa, cominciano a mezzanotte e le donne che stanno in chiesa, come ho accennato, da qualche ora, sedute, chiuse nella loro faldetta (gonna di panno rovesciata in testa) per riscaldarsi, sono spesso vinte dal sonno.

I giovanotti e i ragazzi, che stanno, invece, in piedi in lunga fila, che occupa la parte destra della chiesa (131) sono attenti e, appena si accorgono che una giovane sonnecchia, le lanciano coccole di mirto, fichi secchi e anche qualche nocciolina, con poco rispetto per la casa di Dio, per ottenere dalla ragazza uno sguardo di finto corruccio o un sorriso di vero compiacimento.

(131). Non soltanto nella sera di Natale ma in tutte le funzioni in chiesa gli uomini sono separati dalle donne. Queste stanno a sedere, su banchi o sedie, dal lato sinistro o nella parte centrale della chiesa guardando verso l’altare: gli uomini invece si dispongono sul lato destro e nello spazio, che resta in fondo, dove finiscono i banchi e le sedie.

Il DE ROSA (132) fa una descrizione del contegno della gente in chiesa nelle ore di attesa della funzione, che dimostrerebbe, in verità, assai poca finezza di educazione religiosa nei Galluresi.

Nella descrizione però mi parve che si esagerasse e, dalle notizie raccolte, mi risulta che la scorrettezza del contegno dei fedeli, almeno in questi ultimi tempi, non va al di là del rapido e furtivo lancio del mirto e dei fichi secchi, di cui ho parlato sopra, e di parole pronunciate a bassa voce. Di gazzarra non è il caso più di parlare, e anche l’esplosione di gioia, che ogni credente ha nel momento del «Gloria in excelsis Deo», se un po’ chiassosa ed esuberante, è, tuttavia, pur contenuta in limiti tollerabili per persone del popolo, che non sono certo abituate a frenare la manifestazione spontanea dei loro sentimenti.

Dopo l’Epifania comincia il carnevale.

Come del canto i Galluresi sono amantissimi del ballo e in tutto l’anno ogni occasione di feste diventa buona per ballare; ma, particolarmente, il periodo del carnevale è quello del ballo. Almeno un paio di sere per settimana, in ogni paese vi è qualche sala (133) aperta al ballo, che, a seconda dei casi, può essere frequentata soltanto da coloro che si sono riuniti in gremiu (società e provvedono alle spese di divertimenti), oppure è aperta al pubblico.

 (133). Ho scritto «sala» perché così localmente chiamano il locale dove si balla; ma, in genere, di sala non vi è che il nome. Una stanza di discrete dimensioni basta perché poche o molte coppie possano danzarvi, spesso non potendo far altro che qualche breve giro su se stesse e limitandosi quasi per tutto il tempo del ballo a fare una specie di passeggiata in pigia pigia.

Anche la platea del teatro di Tempio (che è bello, del tipo di quelli che si trovano nella penisola in città di provincia) durante il carnevale è adibita, di frequente, come sala da ballo. I pastori, non avendo la possibilità di avere sale a propria disposizione, hanno risolto il problema recandosi per ballare, a turno, ora in uno stazzo ora nell’altro. Per lo più per accompagnare il ballo si servono della fisarmonica, ma ormai non è raro, come ho accennato sopra, trovare negli stazzi il grammofono e, in qualcuno ricco, perfino la radio.

I balli sono di due specie: baddi civili (balli civili), che sono quelli in uso da per tutto (con preferenza per il valzer) e baddi saldi (balli sardi) dei vari tipi (134).

 (134). La maggioranza degli scrittori che si sono occupati delle tradizioni sarde ritengono che questi balli siano di origine greca.

Vi è un ballo, dirò così, collettivo, che è detto baddu tundu che è ballato da tutti, anche dagli anziani, perché non è affatto faticoso. È anche detto baddu a passu perché si balla facendo due passi obliqui in avanti e uno obliquo indietro dai ballerini, che fanno circolo in catena tenendosi semplicemente per mano e dondolandosi al ritmo lento della musica. Qualunque ballerino o ballerina può «entrare nella catena» ma è buona regola per gli uomini aprire la catena dove siano due ballerine, una vicina all’altra e, per le donne, dove siano vicini due uomini. Non è, poi, opportuno distaccare gli anelli della catena che congiungono due innamorati.

Qualche volta, specialmente nelle feste campestri o nel ballo domenicale sulla piazza del villaggio, invece dell’organetto si fa il ballo tondo al ritmo di la tasgia, un canto di almeno tre persone (tenore – tinóri o bóci; baritono – contra, e basso – grossu), alle quali possono unirsi altre, sia come voci principali sia per rafforzare il coro formato dalle prime tre, dopo che ciascuna di esse ha cantato la propria parte della tasgia. Si usa anche all’infuori del ballo, durante qualche festa, particolarmente al momento delle libazioni e durante le serenate, dopo il canto isolato (135).

 (135). Le altre voci principali sono lu trippi (l’acuto), lu falsittu (il falsetto) una specie di contralto, le cui note sembrano stonate, mentre chi ascolta l’insieme del coro si accorge che danno a questo soltanto un poco di varietà senza turbarne l’accordo.

Per ampie notizie al riguardo cfr. GABRIEL G., Canti di Sardegna, Milano, 1923, pag. 13 segg. e DE ROSA F., Tradizioni popolari di Gallura, Tempio, 1900, pag. 259 segg.

Oltre la tasgia altri canti corali sono: lu tuldiò, la timpiesa, la filugnana, l’andira, l’ottava, la brunédda.

I più giovani si seccano di continuare a lungo il ballo a passu e cominciano a gridare al suonatore o al coro pesannillu (letteralmente: sollevalo) per incitarlo ad affrettare il ritmo.

Dopo avere resistito un poco al richiamo per potere accontentare tutti quelli che partecipano al ballo e che amano, per ragioni di età, la calma, il suonatore e i cantori intonano una musica a ritmo celere e sincopato, che consente ai ballerini e alle ballerine più abili, di sbizzarrirsi con rapidi passi, con agili salti, con intrecci di suoni e sottopassaggi sotto l’arco formato dalle coppie vicine, il tutto accompagnato da grida di gioia e da chiamate di questo o di quello, che danno l’impressione della frenesia del ballo.

La catena oscilla violentemente ora verso il centro, ora verso la periferia, viene rotta e riattaccata immediatamente e, pur rilevandosi ogni tanto un ritmo al passo, dirò così, saltellato, ci si accorge che ciascuno tende a dare saggio della propria bravura e a far uso, estrosamente, del passo di vari balli.

Chi non abbia pratica, però, non si orienta più e non potrebbe dire se i ballerini tengano o no il tempo. Ma gli anziani che hanno, prima o poi, abbandonato la catena, guardano i giovani, giudicano con competenza e se i migliori appartengono alla loro «casata» sorridono e annuiscono con compiacenza e con orgoglio.

Gli altri balli sardi si ballano a coppia. I più usati sono: la danza, lu baddu lisciu, lu baddittu, lu baddittu furriatu, lu baddittu sisirinatu, lu baddu zòppu, lu baddu di tre, lu baddu sciancu, lu badda riccu (136).

Nei balli «civili» è sempre il cavaliere che invita la dama. In quelli «Sardi» qualche volta e in qualche zona, a seconda dei balli, può essere concesso alla dama di scegliere il cavaliere.

Non occorrono parole, basta presentare le mani tese al cavaliere scelto.

Durante il carnevale è consentito l’uso della maschera, e il travestimento offre l’occasione a scherzi, fra ballerini e ballerine, che devono essere pazientemente sopportati anche se le parole sono qualche volta ardite e pungenti. Quando non è usata la mezza mascherina di seta nera, ma la maschera di cera, è facile che sotto un mascaroni (mascherone) si trovi il visetto di una arguta ragazza, oppure sotto la maschera di un bel viso stia una donna d’età e brutta, ma spiritosa, che si diverte alle spalle dei più ingenui ragazzi fino a quando non si riesce a riconoscerla.

A una certa ora, per lo più sulla mezzanotte, il ballo è sospeso. Si ha la così detta «pausa» durante la quale i ballerini invitano le ballerine a prendere qualche rinfresco, poi, quasi sempre senza le ballerine, passano in altra stanza e allegramente banchettano mangiando quello che loro viene ammannito, più di frequente capretto o agnello arrostito o ravioli, il tutto abbondantemente innaffiato di generoso vino (137).

 (137). Fra i cibi carnevaleschi ricordo li friscioli (frittelle a forma di corda allungata) sulle quali si mette miele o zucchero. Sono di gusto squisito e non mancano mai il giovedì grasso (lu joi di laldaggjolu) in cui si mangia anche tradizionalmente un minestrone di fave condito con lardo e pezzi di salciccia, con carne di maiale (lu laldaggjolu) e cavolo o finocchio.

Le fave secche si mettono a bagno dalla sera precedente e quindi la mattina di giovedì grasso si mettono a cuocere con acqua leggermente tiepida; ci si mette il battuto di lardo, abbondante, con aglio, prezzemolo e altri gusti, soprattutto anice, origano; poi ci si mettono la salticcia (la salsiccia) lu spinu (spina dorsale del maiale e carne della schiena) e, finalmente, quando tutto ciò è quasi cotto, si mette il finocchio o il cavolo. In questa occasione si usa mangiare anche li cjusòni (gnocchi) fatti illa canistrédda.

Si riprendono, quindi, le danze fino alle prime ore del mattino. Si spiega, perciò, come ai ragazzi non faccia piacere che il carnevale finisca.

Dal sabato al martedì precedenti le Ceneri, si cerca di guadagnare tempo ballando tutte le notti. Di giorno, poi, mi è stato riferito, che fino a qualche decina di anni or sono, cavalieri mascherati percorrevano le vie principali della città o dei villaggi (e anche quelle secondarie se vi abitava l’innamorata) gettando ogni tanto una manciata di confetti o verso le finestre delle belle ragazze o verso qualche gruppo di queste, che a sua volta girava a piedi. Si accendeva spesso qualche piccola e rapida battaglia di confetti ed era quasi sempre il cavaliere che correva oltre, anche per non recar danno, col cavallo, alle ardite avversarie. A raccogliere i confetti pensavano turbe di ragazzi, che seguivano i cavalieri schiamazzando perché il getto fosse abbondante.

Talvolta la maschera era abbandonata e si andava a viso aperto quando il cavaliere era sicuro di poter fare bella figura, sia perché aveva un superbo cavallo che con la propria vivacità offriva al cavaliere stesso il modo di dar saggio di bravura, sia perché il cavallo era coperto di sonagli e vistosi finimenti ricamati, sia, infine, per lo sciupio di confetti che la larghezza di mezzi economici consentiva di fare.

Non di rado il cavaliere aveva la gruppèra, cioè una donna in groppa vestita in costume di gala che, tenendosi con la destra a lui avvinghiata, partecipava, con la sinistra, al lancio dei confetti, prendendoli da un rigonfio fazzoletto di seta assicurato alla cintura. In questi ultimi anni, molto raramente, si sono visti girare tali generosi cavalieri.

Durante il carnevale li màscari (le persone mascherate) hanno la più ampia libertà di parole, e se questa è ardita e pungente nessuno può dolersi. Vige anche in Gallura il detto, che è, del resto, comune anche nelle altre regioni della penisola italiana, che in carrasciali dugna burrula vali (in carnevale ogni scherzo vale). Qualche volta le parole satiriche colgono nel segno e molti visi arrossiscono o impallidiscono, ma il sorriso, anche se forzato, trionfa sull’ira che certamente ribolle dentro.

II DE ROSA (138) ricorda la caratteristica usanza delle cucine o “Società del buon umore”. I giovani si riuniscono e cantando l’andira andira davanti alle case che sanno ben fornite, raccolgono quanto occorre per banchettare.

Nelle ultime ore del pomeriggio avviene la finta cremazione del carnevale, rappresentato da un grande fantoccio imbottito di fieno e di paglia, al quale è dato il nome di Giorgio. Non ho potuto accertare il perché del nome. Il corteo dei giovani, che mettono spesso sugli abiti una camicia bianca da donna, traversa le principali vie cantando canzoni funebri, qualche volta accompagnate da musica, alle quali vengono intramezzati urli strazianti, ma ogni tanto anche qualche battuta allegra per ricordare lo scherzo. Nella piazza principale oratori o poeti improvvisati e travestiti tessono le lodi di Gjolgiu e provocano invocazioni lugubri, come quelle delle prefiche innanzi al morto, o frizzi coronati da grandi risate che l’oratore cerca, con finta serietà, di reprimere richiamando gli indisciplinati alla gravità della perdita di Gjolgiu e, sopra tutto, se è spiritoso, come spesso avviene, provocandone altri (139).

 (139). Come esempio di elegia per Gjolgiu riporto questa frequentemente cantata nelle zone del Coghinas e favoritami dalla professoressa Maria Biccheddu:

Oi e bene méu
Oi bene mio
No no lu fettad Déu
No non lo faccia Dio
Chi Giolzi est pro andare
Che Giorgio sta per andare

L’appo idu intrattésu
L’ho visto fermo
Paghende sa duana
Pagando la dogana
Cun sa faccia galana
Con la faccia brillante

Su oe de Santu Luca
Il bue di San Luca
Istad pensende anduca
Sta pensando al dunque
Comente ada a restare
Come resterà

Oi e bene méu
Oi bene mio
No non lo fettad Déu
No non lo faccia Dio
Chi Giolzi est pro andare
Che Giorgio sta per andare

Viene, infine, il momento in cui il fantoccio è incendiato fra grandi schiamazzi e tutto torna nella calma.

A metà di quaresima, quasi sempre nella terza domenica, si ha ancora una festa da ballo: lu carrascialoni (il carnevalone) oppure lu rompipignatta (la pentolaccia). È chiamato così perché dal soffitto della “sala” pendono tre pentole coperte.

Durante la «pausa» prima di recarsi a mangiare, i cavalieri invitano le donne (sorteggiate) a lasciarsi bendare. Appena la donna è bendata, le si fanno fare alcuni passi e giri su sé stessa per farle perdere l’orientamento; le si consegna quindi un lungo bastone e la si invita a fare qualche passo ed a tentare di colpire le pentole. Una fra queste contiene la sorpresa gradita (confetti, cioccolata ed altri dolci), le altre le sorprese sgradite (acqua, crusca, farina).

Talvolta la pentola è una sola e non vi sono sorprese sgradite. La ballerina che riesce a colpire giusto è molto festeggiata.

Non mancano, anche durante i restanti mesi dell’anno, occasioni ai giovani per divertirsi e per ballare; si può anzi dire che, per essi, ogni occasione è buona quale che sia il motivo lieto per cui è avvenuto l’incontro di giovanotti e di ragazze.

Ricorderò soltanto, con brevi cenni, le circostanze più frequenti e più tradizionali che danno luogo a divertimenti.

Negli stazzi avvengono riunioni di parenti e amici in occasione di la tunditura (tosatura delle pecore e degli agnelli), di la malcatura (marchiatura di tutte le bestie) e di l’affocatoggju (marchiatura a fuoco di vacche, buoi, cavalli, vitelli e puledri).

I contrassegni nelle orecchie sono numerosi. Mi limito a citare – ma ve ne sono anche altri (quelli indicati dal DE ROSA (140) – Trunca (taglio della parte superiore delle orecchie); firita (taglio in due delle estremità); a scala (taglio a zig zag al bordo); rundulina (taglio a coda di rondine); paltunta (foro); isupata (partite); a triuzzu (bipartite); a gjuali (intaccate); bucata (marginate); muzzurra campanédda (troncate e spaccate). I contrassegni possono essere diversi da un’orecchia all’altra o anche abbinati in una sola orecchia. Se la bestia è senza contrassegni è detta innita (non tagliata) (141).

(141). La stessa parola è usata per i campi di fieno non ancora tagliati e per le erbe non ancora mangiate dal bestiame: per esempio una tanca innita è quella nella quale non è stato immesso bestiame a pascolare.

La marcatura a fuoco (affocatoggju) consiste nel fare arroventare un ferro che porta le iniziali del proprietario delle bestie (spesso anche con qualche altro segno caratteristico: una croce, una stella ecc.) e produrre poi alle bestie, pressando il ferro sulla groppa, una scottatura, riproducente le iniziali, su cui non crescerà più il pelo. È una crudele operazione, ma è ritenuta indispensabile per riconoscere poi le bestie. I giovani, ad ogni modo, profittano dell’occasione per i consueti giochi e divertimenti.

Più noto e più importante, perché si fa ancora talvolta nei centri abitati con maggiore concorso di persone, e perché più tradizionale è lu graminatoggju (142) (la cardatura della lana) (143).

(143). Non è da confondere con la scardassatura che si fa col cardo o scardasso, lo strumento a punte uncinate, che serve anch’esso per raffinare più rapidamente la lana per la filatura, ma che ne sciupa una maggiore quantità di quella che si perde nella cardatura a mano, che è più lenta. Graminà in gallurese significa appunto «Cardare».

È la festa propiziatrice dei fidanzati. Un tempo su un bianco lenzuolo le donne si accosciavano a terra in giro nella stanza e ciascuna cardava e gettava in una grossa còlbula (canestro di palma) la quantità di lana datale dalla padrona di casa, generalmente madre di ragazze da marito. Ora però le donne siedono in sedie, ravvicinate l’una all’altra, lungo le pareti. Al centro della stanza sta il suonatore d’organetto (o i suonatori con mandolino o clarino e chitarra) e il poeta di la casa.

I giovani stanno in piedi e conversano con le ragazze mentre le aiutano a cardare la lana, che, occorre notarlo, è stata preventivamente bene pulita, lavata e sgrassata.

In qualche casa è la padrona che attende all’ingresso i giovani e a ciascuno regala un fiore o un mazzetto di fiori; in altri luoghi i fiori sono riposti in un grande vaso al centro della stanza; in altri ancora i fiori sono messi in vasi qua e là per la stanza. Il giovane, che voglia fare una dichiarazione d’amore a una ragazza, le offre il fiore accompagnandolo con versi improvvisati. La ragazza può accettare o rifiutare, ma, in un caso e nell’altro, deve spiegare l’accettazione o il rifiuto rispondendo a sua volta in versi. Se il giovane non è capace di «poetare» ricorre a un amico che ne sia capace e, in mancanza di questo, si rivolge al poeta di la casa che provvede a offrire lu fióri raccumandatu. Del pari la ragazza può fare conoscere le sue intenzioni a una amica o al poeta, che pensano a tradurle in versi.

Sono improvvisati in questa occasione graziosi versi che poi, riprodotti scritti oppure tramandati verbalmente, sono divenuti noti.

Il DE ROSA (144) ne dà alcuni esempi.

NOTE sopra segnate

(132). Cfr. DE ROSA F., op. cit., pag. 193 e segg.

(134). Cfr. fra gli scritti recenti DESSENAJ, Origini bizantine delle sagre popolari in Sardegna, in «Lares» 1937, III, pag. 205 e segg.

(136). Per la descrizione dei singoli balli cfr. DE ROSA F., op. cit., pag. 270 e 86-

(138). Cfr. DE ROSA F. pag. 227. Nello stesso DE ROSA può leggersi anche di altre usanze che ora non esistono più.

(140). Cfr. DE ROSA F., op. cit., pag. 247 segg.

(142). Descrizioni del graminatoggiu si possono leggere in IANCTUS, op. cit., pag. 143; LUCIANO B., Cenni sulla Sardegna, Torino, 1843 p. 129; DELLA MARMORA A., Viaggio in Sardegna, Cagliari, 1926 pag. 206; LEDDA P., Paesaggi e costumi di Gallura in «Rivista sarda» anno II, febbraio 1920, pag. 16; FASANO CAO M. L., Carlo Alberto e il folklore sardo in «Mediterranea», Anno V, n. 8, 10 agosto ottobre 1931 pag. 72.

(144). Cfr. DE ROSA F., op. cit, pag. 168 segg.

Ho potuto ottenerne anch’io, dalla cortesia dei miei informatori, altri che non mi risultano editi. Riproduco soltanto questi:

Da chi m’hani cumandatu
Poiché mi hanno comandato
Decu fa lu mé onóri
Devo fare il mio onore
A cuiuà sòcu ubricatu
A sposare sono obbligato
Tutti li graminadóri
Tutti i carminatori

Ti presentu chistu fióri
Ti presento questo fiore
Palchì nasci da lu córi
Perché nasce dal cuore
È tantu fissu l’amóri
È tanto fisso l’amore
Chi lu dé pultà continuu
Che lo deve portare continuo

La tó fiamma illu mé sinu
La tua fiamma nel mio seno
Mi faci sta a dismài
Mi fa stare a svenimenti
E tu lu rimediu hai
E tu il rimedio hai
Di curà la mé firìta
Di curare la mia ferita

A te dònu córi e vita
A te dono cuore e vita
Chi dattilli mi resci
Che di darteli mi riesce
E in mèni sólu cresci
E in me solo cresce
Di punitti bòn’amóri
Di metterti buon amore

In vista a li tó culóri
In vista dei tuoi colori
Tu mi fai dismanià
Tu mi fai svenire
Lu rimediu hai a dà
Il rimedio darai
A ca tantu ti ’ò bèni
A chi tanto ti vuole bene
Iscio[u]ddi chisti catèni
Sciogli queste catene
Chi m’hai pòstu d’amóri
Che mi hai messo d’amore

Sòcu fideli a tutt’óri
Sono fedele a tutte le ore
Sèmpri ti sòcu custanti
Sempre ti sono costante
Gjurami chi sé’ amanti
Giurami che sei amante
Di chistu córi fideli
Di questo cuore fedele
Chi grazia da lu Céli
Che grazia dal Cielo
Si chistu pudia aé
Se questo potessi avere

Còmu t’àggju un ver’affèttu
Come per te ho un vero affetto
E di sta a te suggjèttu
E di stare a te soggetto
Sempre a li cumandi toi
Sempre ai tuoi comandi
Alliviggja si pói
Allevia se puoi
Li mé guai e li mé pesi
I miei guai e i miei pesi

Paldonami chidd’offesi
Perdonami le offese
Pa no sapetti silvì
Per non saperti servire
A te dummandu paldonu
A te domando perdono
Ti presentu chistu dònu
Ti presento questo dono
Lu fióri di li mé dì
Il fiore dei miei giorni
Ti raccumandu tinellu in córi
Ti raccomando di tenerlo in cuore
Ti presentu chistu fióri
Ti presento questo fiore

(Favoritami dal parroco Paolo Pintus)

II

Un fióri cilcu, un cialdinu
Un fiore cerco, un giardino
Pal pudellu istrapiantà
Per poterlo trapiantare
Cilcu e no pòssu agattà
Cerco e non posso trovare
Tarra cussì affatenti
Terra così adatta
Come te chi sé’ presenti
Come te che sei presente

O pastera dilicata
O vaso delicato
E tu sì chi sè’ fulmata
E tu sì che sei formata
Ben custrutta e ammirata
Ben costruita e ammirata
E tarra bòna a producì
E terra buona a produrre

In te decu punì
In te devo mettere
Pianti di li più gustósi
Piante le più gustose
Fióri disti producì
Fiori dovresti produrre
E in te dia nascì
E in te dovrebbero nascere
Frutti di li più amurosi
Frutti dei più amorosi

E cun trabaddi gustósi
E con lavori gustosi
Fèndi chei profundi
Facendo solchi profondi
Uhai undi sòcu e undi
Uhai dove sono e dove
Lu pòaru miserinu
Il povero miserino
Cunsola chistu mischinu
Consola questo poveretto
Un fióri cilca un cialdinu
Un fiore cerca un giardino

Risposta della donna:

No è mala la idea
Non è cattiva l’idea
La chi t’è vuluta intrà
Quella che ti è voluta entrare
Si ti decu cuntintà
Se ti dovessi accontentare
Lu mari saría chen’èa
Il mare sarebbe senz’acqua

E pa lu fióri ch’è chici
E per il fiore che è qui
E di fa fossi proffundi
E per fare fossi profondi
Hai a turrà l’òccjtundi
Ti verranno gli occhi tondi
Trapiantèndi li radici
Trapiantando le radici
Di chistu fióri ch’è chici
Di questo fiore che è qui

No sé’ bòn gjaldineri
Non sei un buon giardiniere
È diversu lu tó misteri
È diverso il tuo mestiere
Pal cultivà chistu fióri
Per coltivare questo fiore
Vi ò trabaddu briu e amóri
Ci vuole lavoro brio e amore
E abbatu di cuntinuu
E innaffiato continuamente

Un fióri cilca un cialdinu
Un fiore cerca un giardino
Pal pudellu strapiantà
Per poterlo trapiantare
Cilcu e no pòssu agattà
Cerco e non posso trovare
Tarra cussì affatenti
Terra così adatta

(Favoritami dal parroco Paolo Pintus)

III

Chistu fióri dilicatu
Questo fiore delicato
M’hani a te raccumandatu
M’hanno a te raccomandato
Ca mi manda gjà lu sai
Chi mi manda lo sai
Accittà lu volarai
Accettare lo vorrai

Risposta della donna:

Da’undi ‘èni chissu fióri
Da dove viene questo fiore
Mi dei dì l’ambasciadóri
Mi deve dire l’ambasciatore
Mi dei dì gjustu lu lócu
Mi deve dire giusto il luogo
Undi nasci chistu fócu
Dove nasce questo fuoco

Replica dell’uomo:

Si tu vidi lu cialdinu
Se tu vedi il giardino
Di lu bèddu gelsominu
Del bel gelsomino
Cu un profumo ch’è divinu
Con un profumo che è divino
Dilicatu, supraffinu
Delicato, sopraffino
Gjà cumprèndi si ti dicu
Già capisci se ti dico
Chi vi manca lu chi vicu
Che ci manca ciò che vedo
Ben fiuritu illa tó cara
Ben fiorito sulla tua faccia
Rosa bèdda la più rara
Rosa bella la più rara

Di frunissi lu cialdinu
Di guarnirsi il giardino
Cu li rósi lu mischinu
Con le rose il poverino
Ha cilcatu e disiciatu
Ha cercato e desiderato
Palchì sa ch’è assai priziatu
Perché sa che è assai pregiato
Si di fióri è ben frunitu
Se di fiori è ben guarnito
E di tarra ben cunditu
E di terra ben condito

Còmu dunca pói nicà
Come dunque puoi negare
Di vulè accumpagnà
Di volere accompagnare
La tó rósa a un gelsominu
La tua rosa a un gelsomino
Pa fa bèddu lu cialdinu?
Per fare bello il giardino?

Si sò uniti chisti fióri
Se sono uniti questi fiori
Bianchi e rui di bòn culóri
Bianchi e rossi di buon colore
L’ammiru sarà di tutti
L’ammirazione sarà di tutti
Pa biddessa di prudutti
Per bellezza di prodotti

E t’ispiria tandu Déu
E t’ispiri allora Dio
A iscultà lu dittu méu
Ad ascoltare il detto mio
Si cuntèni in chistu fióri
Si contiene in questo fiore
Un aldenti bèddu córi
Un ardente bel cuore
Sólu pói spignì li fiami
Solo puoi spegnere la fiamma
Rispundèndili chi l’ami
Rispondendogli che l’ami

Risposta della donna

Si cuntèni tant’amóri
Se conviene tanto amore
Accittà pòssu lu fióri
Accettare posso il fiore
La mé rósa a lu cialdinu
La mia rósa al giardino
Pòlta tu, cantóri finu
Porta tu cantore fino

Grazi a te pa l’ambasciata
Grazie a te per l’ambasciata
Di l’onóri sòcu grata
Dell’onore sono grata
Chici aspèttu lu bè méu
Qui aspetto il bene mio
E fultuna ci dia Déu
E fortuna ci dia Dio

Favoritami dalla Sig.na Anna Baltolu

IV

Un fióri raccumandatu
Un fiore raccomandato
D’arricatti m’hani dittu
Di portarti mi hanno detto
Cridut’hani binidittu
Hanno creduto benedetto
Lu faéddu méu cantatu
Il parlare mio cantato
E si chistu fussia ’eru
E se questo fosse vero
Sarìa propriu fultunatu
Sarei proprio fortunato
Chi a un córi scunsulatu
Che a un cuore sconsolato
Torrarìa lu bè sinzeru
Ritornerebbe il bene sincero
Un fióri raccumandatu
Un fiore raccomandato

Risposta della donna:

Lu tó labbru dici bè
Il tuo labbro dice bene
Ma è sèmpri labbru angenu
Ma è sempre un labbro estraneo
A iddu no mancàa l’alenu
A lui non mancava il fiato
Pa arricà lu fióri a me
Per portare il fiore a me

Replica dell’uomo:

A tutti no ha datu Déu
A tutti non ha dato Dio
Lu puderi di fa mutti
Il potere di far versi
Ma lu córi più di tutti
Ma il cuore più di tutti
Bonu l’ha, ti lu dic’éu
Buono l’ha, te lo dico io

Piddatillu chistu fióri!
Prenditelo questo fiore!
La só pianta è in un cialdinu
La sua pianta è in un giardino
Ma sicchèndi è a finu a finu
Ma sta seccando a poco a poco
Pal mancanza di l’umóri
Per mancanza dell’umore

Tuttu chici è cuncintratu
Tutto qui è concentrato
Tuttu sangu e tuttu amóri
Tutto sangue e tutto amore
Tuttu chici in chistu fióri
Tutto qui in questo fiore
Chi t’offeru cumandatu
Che ti offro comandato

Piddatilla e lu culcittu
Prenditelo e il poveretto
Cunsuliggja cu l’amóri
Consola con l’amore
Lu calóri di lu córi
Il calore del cuore
Dà a lu fióri binidittu
Dà al fiore benedetto

Risposta della donna:

A te, dunca, cantadóri
A te, dunque, cantore
Dì di nò no si pó mai
Dire di no non si può mai
Palchì tutti l’alti sai
Perché conosci tutte le arti
Illu prisintà li fióri
Nel presentare i fiori

Dì parò a ca t’ha mandatu
Di però a chi t’ha mandato
Di faiddà cun ca si dei
Di parlare con chi si deve
Chi sò babbu e mamma mei
Che sono babbo e mamma miei
Piddu abà sènza cruidatu
Prendo ora senza preoccupazione
Lu fióri raccumandatu
Il fiore raccomandato

A prescindere dall’offerta di fiori, raccomandati o no, la poesia trionfa anche in gare improvvisate su soggetti determinati, oppure in madrigali non sempre innocenti che qualche bizzarro poeta rivolge a una ragazza, oppure ancora in qualche satira che il giovane respinto rivolge al rivale o comunque ad altri che desideri pungere con i suoi versi.

È superfluo dire che, in questi tornei poetici, il poeta di casa sostiene la parte principale. Quando la cardatura è finita si inizia il ballo con una mazurka. La ragazza che ha accettato il fiore è tenuta a ballarla col giovane che glielo ha offerto. Dopo ballerà liberamente con tutti tanto li baddi zivili quanto li baddi saldi.

Particolarmente in passato era così interessante per i forestieri assistere a un graminatoggju che lo stesso Re Carlo Alberto di passaggio a Tempio, durante un suo viaggio in Sardegna, volle presenziarlo, ed è ricordata una ragazza molto formosa che offrì un mazzolino di fiori al Re accompagnandolo con questi versi:

Ben venga lu nòstru Re
Ben venga il nostro Re
A Tempiu a facci onóri
A Tempio a farci onore
Tutti li graminadóri
Tutti i carminatori
Silvidóri di Vostè
Servitori di Vossignoria

Un’altra poesia composta nella stessa occasione è la seguente, che mi è stata favorita dal canonico Salvatore Pes:

Nò, no tuccarìa a me
No, non toccherebbe a me
Chi sòcu ancóra minóri
Che sono ancora piccola
A prisintà lu fióri
A presentare il fiore
Chistu moment’a lu Re
In questo momento al Re

Ma chistu fióri è
Ma questo fiore è
L’isprissioni di un córi
L’espressione di un cuore
Di nobili passioni
Di nobile passione
Vessu  ̓òstra Maestai
Verso vostra Maestà
Ch’aut’ha la bunitai
Che ha avuto la bontà
Di ’isittà la Saldigna
Di visitare la Sardegna
Tarra cultesa e benigna
Terra cortese e benigna
Tarra custanti e fideli
Terra costante e fedele
Tarra ch’ha fattu lu céli
Terra che ha fatto il cielo
Ma mischina! Abbandunata!
Ma poverina! Abbandonata!

Ma óggj ch’è onorata
Ma oggi che è onorata
Da ’oi, Re generósu
Da voi, Re generoso
Vói sareti lu spósu
Voi sarete lo sposo
D’idda fideli e custanti
D’essa fedele e costante

Vói sareti l’amanti
Voi sarete l’amante
Ancóra di Tempiu nòstra
Anche di Tempio nostra
E sarà lu zèlu  ̓òstru
E sarà lo zelo vostro
Di chista tarra la ’ita
Di questa terra la vita
Curèndili la firita
Curandole la ferita
Chi l’ha fatta lu distinu
Che le ha fatto il destino
Abbrèndili lu caminu
Aprendole la strada
Di la più bèdda spiranza
Della più bella speranza

Fióri méu t’avanza
Fiore mio avanzati
A onorà chissi mani
A onorare quelle mani
Ma ti précu, non trimàni
Ma ti prego, non tremare
Vidi còmu sò gentili!
Vedi come sono gentili!

Fióri méu d’abbrili
Fiore mio d’aprile
Ripassa a li mani soi
Ripassa nelle sue mani
E dilli, o dilli chi nói
E digli, o digli che noi
Di tuttu córi l’amému
Di tutto cuore l’amiamo

E si nói no sapému
E se noi non sappiamo
Trattallu còmu cunvèni
Trattarlo come conviene
Dilli ch’illi nòstri ‘èni
Digli che nelle nostre vene
Scurri un sangu generósu
Scorre un sangue generoso

Chi sutt’a un céli amurósu
Che sotto un cielo amoroso
Nat’è la bèdda Gaddura
È nata la bella Gallura
Chi s’è cunsalvata pura
Che si è conservata pura
Pa la patria e pal Déu
Per la Patria e per Dio

Sì, anda, fióri méu
Sì, va, fiore mio
A onorà chissu córi
A onorare quel cuore

Dopo la cardatura o dopo la filatura con la rucca (conocchia) e lu ghindalu (arcolaio), e dopo che il filo è usato per la naspa (lunga canna intaccata alle due estremità), prima di passare ai telai per la lavorazione, i gomitoli provenienti dall’arcolaio devono essere preparati in nuove lunghe matasse.

A tal fine le giovani piantano in terra, nel campo vicino al paese o sul ciglio di una strada, numerosi pali abbinati, a distanza di un metro circa una coppia dall’altra, e poi ciascuna con un gomitolo percorrono la fila avanti e indietro facendo ogni volta passare il filo tra i due pali. Si vengono, poi, a formare così matasse piuttosto lunghe, che sono pronte per la tessitura. Questa operazione si chiama ulditoggju (orditura).

I giovanotti si avvicinano e, senza partecipare alle distese dei fili, accompagnano le ragazze nel continuo andirivieni conversando con loro. E anche qui si scambiano complimenti e promesse.

Lu calcatoggju (il pestamento). In autunno, quando le lane carminate sono già in gran parte tessute, si viene alla operazione del pestamento. È fatto da ragazze invitate. Ed anche qui si finisce con i balli (146), con le tenzoni poetiche e con le libazioni. [Questo brano è stato spostato di poche righe perché si amalgama meglio con quanto si dice dell’autunno].

Specialmente nella primavera e nell’autunno i galluresi amano recarsi in campagna più spesso che possono, e sempre nella domenica. I giovani ne profittano per divertirsi. In aprile, per esempio, essi si divertono, oltre che a cogliere fiori, a raccogliere e mangiare li ziri cioè gli steli del terrassaco col bocciolo non ancora fiorito, che sono acquosi e lattiginosi, di sapore gradito, ai quali, si intende, vanno uniti pane, prosciutto, formaggio, sardine in scatole, salsicce, il vino e la freschissima acqua delle fontanelle sgorganti direttamente dalle rocce, quanto occorre, insomma, per fare appetitose merende fra un gioco e un ballo.

In autunno sono gli alberi carichi di frutti, che a solo vederli fanno venire l’acquolina in bocca, e i tralci di vite, da cui pendono i grappoli d’uva dorati e rossi, che allettano i giovani, non tanto però quanto la speranza del divertimento in allegra compagnia.

Durante la vendemmia (a la binnenna), come ho più sopra già accennato, queste riunioni festose di giovani sono molto frequenti. Quando il buon tempo assiste, nell’ultima decade di settembre o nelle due prime di ottobre, basta percorrere un tratto di strada fra i vigneti che costellano tutto intorno la città e i villaggi, per sentire qua o là il suono di un violino, o mandolino, o clarino, o flauto accompagnato dalla chitarra, oppure quello di una fisarmonica o le note di un grammofono. Certamente là si vendemmia, là ci si diverte. E non manca ogni tanto il grido di stirruta o starruta (la distesa), cioè il richiamo d’amore e qualche volta anche di canzonatura, che riempie d’orgoglio lu stirrutadorio la stittutadora se il grido gorgheggiato riesce bene e lungo, o assoggetta ai sarcasmi degli altri se riesce male.

Le vendemmiatrici tagliano i grappoli con li marrazzi o marrazzéddi (piccoli coltelli a lama ricurva come roncole in miniatura) e li depongono in li junéddi (recipienti di sughero a forma di piccola culla). Appena li junéddi sono ripiene, i grappoli vengono versati in li joni, recipienti di uguale forma ma più grandi (ogni jona può ricevere il contenuto di due junéddi colmi), che i trasportatori (li carriadóri) trasportano fino alla casa dove stanno le vasche per la pigiatura (147).

(147). Una volta la pigiatura dell’uva era fatta dentro una larga cassetta sospesa sulla vasca (lu laccu) con molti fori nel fondo, da uno o due pigiatori, che tenevano i calzoni rimboccati più su dei ginocchi, e che per reggersi meglio in equilibrio si attaccavano a una corda che pendeva dalla trave del tetto. Oggi in tutte le campagne si usano pigiatrici meccaniche; ma se a queste capita un guasto, la vecchia pigiatura torna in onore. Ho avuto occasione qualche anno fa di assistere alla graziosa scenetta. La pigiatrice si è «incantata»; il capo contadino invita il più volenteroso dei portatori a trasformarsi in pigiatore, per non perdere tempo. Con quanta premura si precipitano tutti ad offrirsi. Si deve ricorrere al sorteggio per stabilire la preferenza ai due primi e non saprei descrivere con quanta gioia i due fortunati salgono trionfalmente sul vascone ed entrano nella cassetta, spolverata e ripulita alla meglio, per pigiare, cantando e reggendosi a vicenda, perché manca la corda pendente dal tetto!

Il mosto resta a fermentare in lu laccu per otto giorni, quindi viene trasportato in città, mediante bariletti (li mizini) che si caricano su carri o cavalli, e chiuso nelle botti in cantina.

Nelle ore pomeridiane vanno alla vigna giovani popolani ad aiutare le vendemmiatrici (per lo più l’aiutante è l’innamorato della vendemmiatrice), e arrivano anche parenti ed amici d’entrambi i sessi del proprietario, con suonatori. Giochi e danze si protraggono (per esempio nelle campagne di Tempio) finché gli ultimi chiarori del tramonto tingono di viola il cielo dietro la catena dentata dei monti di Aggius.

Anche quando le viti si spogliano di pampini le compagnie di giovani colgono qualche buona giornata per recarsi a scaluggjà (a raspollare) col pretesto di prendere qua e là qualche racimolo di uva dimenticato (o volutamente lasciato) dalle vendemmiatrici, ma, in verità, per godersi un ultimo piccolo divertimento campestre.

Ci sono poi i divertimenti campestri a data fissa, la data cioè della ricorrenza di una festa, una sagra più o meno solenne a seconda della fama della chiesa campestre. Anche qui, prima e dopo la funzione religiosa, merende e banchetti, diurni e notturni, e musiche, canti e danze rallegrano, come un’improvvisa ventata di follia carnevalesca, la campagna solitamente allietata soltanto dal canto degli uccelli e dai belati delle pecorelle, o dai muggiti delle vacche, che chiamano presso di sé i loro piccoli.

Vi è negli idilli che si intrecciano all’ombra della chiesa molta maggiore serietà e correttezza di quello che possa pensarsi, e alla chiesa ritornano poi i giovani, divenuti sposi, per ricevervi la benedizione in nome di Dio. Per recarsi a queste chiese campestri i giovani, tanto dalla città quanto dagli stazzi, percorrono, talvolta, molte ore di strada in carro, a cavallo e anche a piedi, e si ritengono sufficientemente compensati dalla gioia che provano nelle brevi e fuggevoli ore di divertimento che trascorrono.

L’organizzazione di queste feste è fatta per lo più da giovani, ma anche da anziani, che qualche tempo prima si riuniscono sotto la guida di un dirigente (lu capu suprastanti) il quale è stato eletto nel giorno della festa e dura in carica un anno. Egli ha diritti e obblighi.

Ha il diritto di custodire la bandiera sacra in casa sua e di portarla o farla portare accompagnandola ad altre feste religiose e, immancabilmente, nell’anno successivo, a quella di cui è capu suprastanti. Ha posto privilegiato in chiesa ed altri piccoli vantaggi onorifici. Di contro ha l’obbligo di provvedere all’organizzazione della festa e, quando questa è finita, di invitare a casa sua, oltre il sacerdote, almeno i partecipanti (li obrieri) alla sua società o suo comitato (la suzietai, lu sozziu, lu gremiu) e li bandèrai, cioè i portatori delle bandiere religiose, in onore di santi diversi venerati in altre chiese. Va da sé che la compagnia si ingrossa e la casa del capu suprastanti è presto trasformata in sala da ballo.

Per sopperire alle spese che occorrono per tali feste il capu suprastanti con i suoi soci è autorizzato a questuare e non vi è chi neghi l’obolo per il santo che dovrà essere festeggiato.

Delle somme raccolte il capu suprastanti deve rendere conto nella seduta nella quale egli cessa dalla carica ed è eletto il nuovo capu suprastanti.

L’arrivo del corteo processionale in una di queste feste campestri è interessantissimo. Precede un battistrada a cavallo; viene poi il sacerdote, anch’egli a cavallo, e intorno o dietro a lui i cavalieri bandèrai, che tengono la bandiera infilata col fondo dell’asta in una guaina di pelle assicurata alla staffa o all’arcione della sella, oppure, semplicemente, appoggiata, fra le gambe e la sella, come una specie di lancia.

Appena il sacerdote smonta dinanzi alla porta della chiesa, i bandèrai e tutti i liberi cavalieri (spesso cun gruppéra con la donna in groppa) che li hanno seguiti, fanno per tre volte il giro della chiesa, galoppando, facendo impennare i cavalli e dando saggio di grande abilità nell’equitazione (148).

(148). Quando i cavalli corrono intorno alla chiesa si dice che sò caraculèndi (stanno caracollando) oppure sò fèndi li caracoli. Anche durante il percorso del corteo, prima di arrivare alla chiesa, avvengono gare di corse fra bandèrai o fra liberi cavalieri; e i poveri cavalli arrivano alla fine del viaggio sempre madidi di schiuma e di sudore, col fianco qualche volta arrossato di sangue per effetto delle speronate ricevute.

Smontano, poi, tutti; le bandiere vengono introdotte in chiesa e assicurate alla balaustra o, in qualche modo, a terra innanzi all’altare, dove restano dura la festa, la quale qualche volta è di un solo giorno, qualche altra volta di due; mai di più.

Le principali fra queste feste di campagna sono (mi limito a quelle non lontane da Tempio) le seguenti: Santa Lucia, La Trinità, la Madonna di mezzo agosto, S. Leonardo, S. Giorgio, S. Paolo, Santi Cosma e Damiano, S. Pasquale, S. Francesco, S. Maria delle Grazie, S. Bacchisio, SS. Rosario, Santa Vittoria, S. Lorenzo, Spirito Santo ecc.

Vi sono poi le feste che si fanno nei paesi. Per la parte religiosa vi sono anche qui il capu suprastanti e gli obrieri, ma l’organizzazione della parte, dirò così, civile, della festa è assunta da altro comitato di giovani che riceve contributi in più ampia misura dallo stesso Comune, e dai cittadini, particolarmente dai commercianti, che dalle feste traggono i maggiori profitti. Questi giovani provvedono alle gare di canto e poesia, alle corse di cavalli, alle corse ciclistiche (149), agli alberi di cuccagna, al tiro a segno, alle fiaccolate, alle corse nei sacchi, alle feste da ballo, alla musica e a tutti i divertimenti, che possono attrarre il maggior numero di persone.

(149). Le corse di cavalli e di bicicletta – eccetto che a Tempio dove si fanno spesso in pista – si svolgono sulla strada.

I cavalli (per lo più adorni con pettorali ricamati, muniti di sonagli e con la coda attorcigliata e legata con nastri) vengono guidati a una distanza variabile fra i cinquecento e i mille metri. Messi in fila da uno degli obrieri o da altro delegato del capu suprastanti, partono li scappani) quando viene sparato un colpo di fucile (li dà la scappata). Scappata è anche detto il luogo dove è stabilita la linea di partenza.

I cavalli non hanno, all’infuori della briglia e del pettorale, altri finimenti. I fantini cavalcano a dorso nudo come piccoli centauri e ogni tanto (mi è stato detto per costringere il cavallo a prendere fiato pa fallu sbuffä ma vi è da ritenere che si tratti piuttosto di un vezzo per dimostrare bravura) tirano le briglie e per un attimo si distendono fino quasi a toccare col proprio dorso quello del cavallo. Speronate al cavallo proprio e frustate al proprio e a quelli degli altri e ai rispettivi fantini, non sono risparmiate durante la gara.

Si compie prima la corsa di li cabaddi manni (cavalli grandi) per il percorso più lungo, e poi quella di li puddetri (poledri) per il percorso meno lungo.

L’arrivo avviene fra due fitte ali di curiosi, che urlano e gesticolano per l’entusiasmo con pericolo di andare sotto le zampe dei cavalli. I primi tre arrivati al traguardo (capu di lu palu) (capo del palio) devono poi correre lu trinchittu, una piccola corsa d’onore di un centinaio di metri. Prima corre il terzo arrivato, poi il secondo e finalmente il primo. Spesso gli arrivi avvengono, per la malsana curiosità dei presenti, in modo così confusionario che i meno vicini possono conoscere l’ordine di arrivo guardando, dopo, in quale ordine è corso lu trinchittu.

Spesso la festa coincide con la fiera, e allora il concorso di gente è maggiore.

In genere queste feste più solenni hanno luogo in onore del patrono o di altri santi. A Tempio, per es., si festeggia, come patrono, S. Paolo eremita nella terza domenica di agosto, S. Isidoro nella prima domenica di settembre e S. Giuseppe il giorno 8 dello stesso mese.

La festa più importante è quella per S. Paolo, ma la più caratteristica è quella per S. Isidoro, per la così detta processione del grano. Al tempo della mietitura il contadino forma un mazzo delle spighe più alte e più belle, lo orna con variopinti nastri di seta e, alla vigilia della festa, lo porta in chiesa, dove è benedetto e lasciato fino alla mattina seguente. La statua di S. Isidoro, guidante i buoi attaccati all’aratro, è solennemente portata in processione con tutto il clero fra due lunghe file dei mazzi di grano, che danno alla processione un aspetto nuovo e un simbolo propiziatorio di buon raccolto, che tocca profondamente il sentimento religioso dei contadini; e non può non commuovere quelli che assistono alla sfilata (150).

(150). Una descrizione delle feste si può leggere in Angius, op. cit., pag. 175. [Si veda QUI nel sito Gallura Tour]

Vi sono, infine, altre feste per le quali non vi è particolare organizzazione, ma che sono molto attese dai giovani e dalle ragazze perché la tradizione vi commette speciali riti e speciali presagi matrimoniali, non soltanto in Gallura, ma in tutta la Sardegna, e, forse, in tutti i piccoli paesi d’Italia.

Intendo parlare delle feste dei santi di giugno: S. Antonio (13 giugno) (151) S. Giovanni (24 giugno) e SS. Pietro e Paolo (29 giugno).

(151). Questa stessa cerimonia del salto del fuoco si fa anche, nelle zone presso l’Anglona, in occasione della festa di Sant’Antonio eremita (17 gennaio). In quel giorno, anzi, si dice che lu tizzoni entra suttu tarra (il tizzo entra sotto terra) per esprimere che fin da quel momento la terra comincia a riscaldarsi e a favorire la germinazione dei semi.

Non sempre e non da per tutto le speciali cerimonie si compiono per tutte e tre le feste, e, dove si fanno una sola volta, non sempre è preferito lo stesso santo. Dirò, perciò, soltanto di S. Giovanni perché è la giornata più comunemente scelta e preferita in Gallura.

Al mattino del 24 giugno in ogni quartiere della cittadina o del villaggio, o innanzi a uno stazzo se si è in campagna, si fissa in apposito fosso un albero (quercia o frassino) tagliato nella stessa mattina, possibilmente col fusto ben diritto. Qualche volta – non sempre – viene unto con sego, in modo da renderlo scivoloso e fra i rami si attaccano oggettini e frutta, perché nelle ore pomeridiane possa funzionare da «albero di cuccagna» al quale i ragazzi cercano di arrampicarsi con grande difficoltà specialmente in principio fino a che l’untuosità, a furia di strofinarvi su mani e gambe, sparisce il tronco.

Alla sera intorno all’albero si accende il fuoco di S. Giovanni, con arbusti secchi che fanno alta fiamma e si consumano presto senza dare eccessivo calore. I ragazzini e i giovanotti prendono la rincorsa e saltano passando fra le fiamme, e coprendosi il viso con una mano al momento in cui spiccano il salto.

Piccole ustioni, anche se il passaggio sul fuoco sia rapidissimo, non mancano, ma l’attraversare le fiamme è considerato come un simbolo di purificazione (152) e un buono auspicio per l’avvenire.

Intorno al fuoco di S. Giovanni avviene lo scambio di solenni promesse fra i giovani, si conclude il comparatico di S. Giovanni.

Quando, con l’andare del tempo, due persone si chiamano compari, interpellate, precisano se sono cumpari di battiscimu o di gresima oppure cumpari di Santu Gjuanni o di miccalóri (fazzoletto). Si spiega, quest’ultima parola perché tra i mezzi di acquistare il comparatico vi è quello del fazzoletto. I due che desiderano essere compari (è da notare che questo comparatico può stringersi anche fra due giovani o fra due ragazze) annodano per tre volte i capi opposti di un fazzoletto e poi sciolgono i nodi dicendo cumpari (oppure cumpari e cummari di Santu Gjuanni) e infine, pronunziando ancora le stesse parole, si stringono la mano, scuotendola vigorosamente e ripetutamente (in qualche luogo per tre volte) e rivolgendosi parole augurali. Quando si tratta del fidanzato, il fazzoletto che si annoda è quello della ragazza e, perché l’atto abbia maggiore efficacia, è bene che il fazzoletto porti le cifre ricamate della proprietaria. Qualche volta il fuoco è saltato dai due compari, che si tengono per mano e che gridano, al momento del salto, le parole ora riportate. Non è raro vedere partecipare al salto del fuoco anche la comare, la quale, in questo caso è tenuta per mano dal compare, che salta stando verso la parte interna della fiammata, mentre la donna fa il salto all’estremo limite del fuoco in modo che questo non si attacchi alle vesti.

Il comparatico si può compiere, anche senza saltare il fuoco, ma sempre innanzi a questo, fra due giovanotti, che si danno l’abbraccio della fede, consolidata poi dalla stretta di mano e dalla pronunzia delle solite parole.

In Olbia, particolarmente, si usava il comparatico di la curona. I compari si stringevano la mano in cui era un rosario, che valeva a consacrare la fede. Questa allora si considerava quasi giurata e il romperla, dopo, era gravemente offensivo. Dirò più innanzi degli auspici matrimoniali che si traggono il giorno di S. Giovanni.

Qui mi limito a ricordare che i ramoscelli di ruta, colti in quel giorno, si crede che abbiano, presi in decotto, particolari effetti risanatori del mal di ventre e anche del mal di capo. Uguali effetti avrebbe la centaurea per la febbre malarica, le steccade per le coliche delle bestie (153) ecc.

Un’altra festa di giovani è quella dei coscritti. Un tempo, veramente, le feste erano due.

Una si faceva nel giorno del sorteggio fra gli iscritti alla leva, quando coloro che estraevano numeri alti per una certa quantità erano assegnati alla terza categoria e prestavano soltanto pochi giorni di servizio territoriale nella sede della più vicina compagnia di soldati. Ora non c’è più sorteggio, tutti hanno ugualmente il dovere di prestare servizio militare per la Patria, salvo le eccezioni stabilite per legge.

L’altra festa si faceva e si fa ancora quando i giovani ventenni sono chiamati al distretto per prendere servizio. I coscritti si radunano, cantando canzoni guerresche, lanciando frizzi ai riformati e, mettendo dovunque una nota di allegria, percorrono le vie, fermandosi un poco sotto le finestre delle ragazze, i cui fidanzati si trovano nel gruppo. È superfluo dire che sono abbondanti i banchetti, le bicchierate e l’immancabile ballo nella sera che precede la partenza.

Questa diviene commovente perché i coscritti sono accompagnati alla stazione, dove passa il treno, o fuori del paese, dove non passa, da uno stuolo di parenti e di amici. Al momento del distacco, i coscritti emettono grida di allegria, starruti, (cfr. sopra p. 2 n. 3) e richiami all’uno e all’altra; ma parecchie mamme e parecchie ragazze si asciugano le lacrime mentre gli uomini le rimproverano per la loro debolezza e perché non devono attenuare, con dimostrazione di rammarico, l’entusiasmo dei partenti.

Note bibliografiche

(145). Altra versione è in DE ROSA F,, op. cit., pag. 168.

 (146). Cfr. ANGIUS V.. op. cit., pag. 144.

(152). Per quanto concerne il fuoco e i suoi significati simbolici, cfr. FERRARO G., Il Fuoco in Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, 1893, XII, pag. 322 e segg. e DE ROSA F.. op. cit., pag. 178 e segg.

 (153). Cfr. DE ROSA F., op. cit., pag. 191.

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