Indumenti

di Francesco De Rosa

Gl’indumenti usati generalmente una volta dai Galluresi erano: il gabbano, il cappotto, il panciotto (cansciu), la fustanella (calzon’ a campana), i calzoncini, gli usatti (li calzitti) e la berretta.

Il gabbano o palandrana è una sorta di toga o veste lunga d’orbace, che scende dalle spalle alle calcagna, provvista di largo cappuccio e con lo sparato nella parte posteriore, dal coccige al fondo della veste. Si usa per ricoprire interamente la persona, sedendo a cavallo, o per servir di giaciglio, o per ricoprirsi la notte, coricandosi all’aperto, o negli stazzi presso il focolare.

Questo indumento era usato una volta dagli aborigeni del Lazio, dagli antichi Romani e segnatamente dagli abitanti della vetusta Gabio, da cui il suo nome di cintum gabinum. Il Barone Maltzan vuole che il sardo gabbano non sia altro che il birrus dei Romani.

Il cappotto, pure d’orbace (fresi), come il gabbano, è un indumento o veste foderata in gran parte di fustagno e nel rimanente, lungo le pettiere, a velluto trapuntato verticalmente e parallelamente, a distanza di mezzo centimetro, da una cucitura all’altra, combaciando ciascuna cucitura verticale con una orizzontale in basso, formante con la prima angolo retto, in modo che tutti gli angoli risultanti risultino fra loro paralleli.

Lungo l’orlo delle pettiere e dell’estremità inferiore della veste soprapponesi una striscia di panno, con tre o più cordoni a pieghettine trapuntate.

Più tardi, dal cappuccio di quello dei signori si faceva pendere da un cordoncino di seta ritorto, attaccato all’apice di quello, una nappina di seta nera. Quest’indumento, era a un dipresso il birrus dei Romani, se se ne eccettua che mentre le maniche di questo non oltrepassavano i gomiti, le maniche del cappotto sardo arrivano fino alla radice del pollice.

Il panciotto non differiva molto da quello usato oggigiorno; se non che, invece d’esser scollato, si portava abbottonato fino quasi alla fontanella della gola, con piccole mostre superiormente allo sparato. Anticamente era assai diverso, portandosi allora come quello usato tuttodì dai Berchiddesi e dagli Ozieresi, cioè a modo di panciotto a doppio petto, abbottonato lungo il sinistro lato dalle gavigne alla cintura, portante dalla parte opposta, in linea convergente a quella dei bottoni, un’altra fila di bottoni uguali per numero e per rispettiva distanza alla prima. Il panciotto si indossava allora ordinariamente provvisto di maniche di saia rossa fine, o di pannolano più fine intinto di porpora, abbottonate ai polsi con bottoni d’argento o d’altro metallo, a seconda della diversa condizione delle persone.

Questo indumento era chiamato con voce generica, così dai Greci che dai Latini col nome di torax e i Logudoresi lo chiamano coritu dalla voce greca corys o corithos che al presente significa celata, elmo, morione, ma che anticamente presso i Greci significava corazza, corsaletto, panciera e giubbone; perché serviva a difendere o riparare il busto umano. Difatti thoresso vale armo e difendo, e coryste armato o ben guarnito. Questo giubbone o farsetto era usato dai Lidi, dai Frigi e dai Romani, che, come gli antichi Greci, lo facevano con pelli irte di capra o d’altro animale lanuto.

Le brache sono una specie di corto gonnellino d’orbace a foggia di campana, pendente dalla cintura fino alla metà del ginocchio e più corto ancora, con una striscia, che, passando fra l’inguine, unisce l’anteriore con la parte posteriore.

I Greci di tremila anni fa le usavano poco dissimili, chiamandole raccos o rachos, da cui il sardo ragas, cui essi introdussero quando immigrarono nella nostra isola. Prima i Greci si coprirono i lombi con cortecce di melloni, poi con pelli di capre, indi, per maggior decenza, inventarono le brache di lana e di lino.

I calzoncini sono di tela casalinga lunga fin sotto il ginocchio fermati inferiormente entro gli usatti. Ai calzoncini di tela se ne soprapponeva un altro paio di lana.

I primi erano pure usati dai Greci, che li distinguevano sotto il nome di raccos lineos. Gli usatti (calzitti) erano come gli ordinari, ma d’orbace coll’orlo superiormente ornato con una striscia di velluto, larga due dita, collo sparato dalla parte interna della gamba, a partire dalla metà dell’usatto, dove principia con una spaccatura triangolare col vertice all’ingiù, fino all’orlo inferiore, allacciato con un aghetto verde, che si avvolge poi sopra l’usatto nella parte mediana. Talvolta lo sparato si vede in tutta la lunghezza dell’usatto; nel qual caso non havvi spaccatura triangolare, né allacciatura coll’aghetto, abbottonandosi esso per via di gancetti. Tali usatti o calzoncini ci ricordano gli embata dei Greci e i cothurnos dei Romani tragedi, se si eccettua che mentre gli usatti galluresi sono d’orbace, gli embata e i cothurnos erano congegnati di salcio in tessuti a forma di cesto, o di crudo cuoio.

La berretta, che si porta tuttora dalla maggior parte dei Galluresi, rimboccata leggermente o cascante sulla spalla sinistra o all’indietro, oppure a sollechio, piegandola sulla fronte o tenendola dritta a modo di torricella o chiocciolino (a caramagnola), doppia, però d’un sol pezzo, l’interna parte di color di grana rossa, l’esterna, nera, per modo che nella rimboccatura appariva il primiero colore.

Essa altro non è che la mitra usata dai Frigi e dai Lidi, dei quali alcune colonie passarono in Etruria e nelle parti settentrionali della sarda isola; per cui essa s’appella tuttora berretto frigio.

La berretta usata al presente dai Galluresi è interamente nera.

Le scarpe usate mezzo secolo fa, poco meno, dai Galluresi, non erano che le pianelle o sandali di crudo cuoio degli Etruschi, Greci e Romani, da questi ultimi detti perones o culponiae, da cui derivò la voce sarda di scalpones e l’italiana di scarpaccia, di cui calzavano i piedi per ripararli dal freddo, dal fango e dalla neve. I più portavano scarpe terminate a punta un tempo rivolta in su, come quella degli Hittiti.

Oltre ai predetti indumenti gli uomini portavano, fino alla metà del presente secolo, il colletto, il cinto, lo stilo, e il baculo.

Il colletto detto dai Galluresi coaru (coiru a Terranova) era formato da uno stretto giubbottino senza maniche di pelle di dante morbida, finissima e d’un sol pezzo, a doppio petto, abbottonato alla sinistra, guernito dalle gavigne fin presso la cintura da due ricami in linee insensibilmente convergenti, e terminante, dalla vita alle ginocchia, in una gonnellina spiegata.

Secondo il Madao e il Maltzan esso era il toras dei Greci e il colobium dei Latini, dai quali popoli veniva indossato, come pure dai Hittiti, dagli Egiziani e da altri popoli primitivi, presso i quali, come presso gli aborigeni del Lazio, era però fatto di irsuto cuoio o di vellosa pelle.

Il cinto, detto ambogja dai Galluresi, era di cuoio, largo una spanna, foderato e guernito a fiorami di pelle di vari colori, col quale si stringeva alla vita il colletto e le vesti sottostanti, allacciandolo mediante fibbie d’acciaio, d’ottone o d’argento sul davanti della vita. Più tardi si faceva il cinto di grosso pannolano, di qualità finissima di color rosso, avvolgente a più rivolgimenti la vita.

Pomponio Mela, nella sua Corografia (De situs orbis, II, cap. 1) ci dice che era portato dagli antichi Latini, i quali lo chiamavano cinthorium, da cui, come presso i Sardi pendeva il pugnale, o per meglio dir la daga, detta da Virgilio tegea, portata da Evandro, antichissimo re degli aborigeni del Lazio.

Presso i Sardi erano in uso fin dai tempi di Strabone, il quale, nella sua Geografia, ci dice che vestivano il colletto e si cingevano con cinto di pelle di muflone, dal quale pendeva il pugnale. In origine il cinto era portato dagli Hittiti.

Il baculo (lu baculu) era un bastone con o senza pomo, provvisto per lo più di manutengolo che portavano i signori per segno di distinzione, proprio come usavano i Greci.

Non è mezzo secolo ancora che gran parte dei Galluresi portavano, come gli antichi Ebrei, e gli Ateniesi, i pendenti agli orecchi, e al collo una specie di collana o catenella che cadeva sul petto, andando a fermarsi in un taschino del panciotto, al quale stava inferiormente attaccato uno stuzzicadenti di metallo o qualche gioiello.

E non è un quarto di secolo che tutti, i pastori specialmente, portavano, con aria marziale, la ventriera[1] alla cintura e il polverino[2] a sciarpa sul petto.

Gl’indumenti delle donne erano la camiciola, la gonnella, la cuviédda, il fazzoletto da collo, la cappa, il manto, le scarpine, le calze.

La camiciola era di grana, con largo sparato sul davanti, a maniche strette, sparate sull’avambraccio al disotto e affibbiate da dodici catenelle, da cui pendevano altrettanti bottoni d’argento o d’oro, a foggia di buccole, spesso finemente cesellati e portanti in mezzo incastonata una piccola gemma.

Ad Aggius la camiciola aveva due diritti, l’uno di grana o di velluto rosso in seta, l’altro di broccato d’alto pregio, dei quali uno serviva di fodera all’altro, secondo che si preferiva portare all’esterno l’uno o l’altro dei diritti, sbottonata sul davanti e con lo sparo largo sul braccio sotto l’ascella, con le maniche lunghe così che restavano a sbuffo sul polso: cosicché la si poteva tirare sulla mano fino a ricoprirla e servirsene, cosa che facevano veramente, come fazzoletto per tergersi il sudore.

Quest’indumento non è che una modificazione della clamide, adoperata dai prischi Romani, come veste militare, e da essi importata in Sardegna, fatta di un panno di lana («saia») rossa, o di scarlattino, o d’altra stoffa di bellissimo colore, con ricca bottoniera d’argento in ambo le maniche. Talvolta era, e lo è tuttora presso i popoli del Logudoro, di pelli d’agnello o di pecora con la lana rivolta all’infuori per ripararsi dal freddo.

I popoli della più remota antichità come i Caramani, i Cilici, gli Sciti, gli Arabi, i Persiani, i Parti, i Celti, i Galli, gli Alemanni, gli Ispani, i plebei romani, i Marsi, gli Ernici, i Vestini, i Sanniti, e perfino i Salii e i senatori romani portavano una tale clamide, ma più rozza, fatta di pelli di capra o di cammello.

La gonna ordinaria o giornaliera era d’albagio[3] d’un rosso bruno, se di festa era di grana rossa, se di gala, come quella adoperata dalle signore, di velluto in seta o di broccato d’alto pregio. Qualsivoglia fosse la stoffa era fatta a pieghettine parallele dalla cintura che avvolgeva la vita fino all’orlo inferiore della gonnella, tirate con tale cura, che pur indossandola non si scomponevano, né si alteravano menomamente. La gonna ordinaria si chiamava suncurinu. In quella di gala correva spesso lungo l’orlo inferiore una balzana di seta bianca, o d’altro colore, accuratamente ricamata. Le signore attorno alla vita portavano una fascia, i cui capi, uniti in grazioso fiocco e ornati di frangia, pendevano posteriormente sulla gonna.

La cuviédda era una striscia di tela lunga dai settanta agli ottanta centimetri, larga venticinque, con la quale si avvolgeva la testa dall’alto al basso, partendo dall’orecchio destro, per fissarla, dopo aver avvolto la testa e fatta ripassare sotto la gola, presso l’orecchio sinistro per mezzo d’uno o più spilli.

Più tardi alla cuviédda venne sostituito un bianco fazzoletto di tulle o di pannolino, cadente sul dorso in un largo triangolo col vertice in basso e sul petto in ampio collaretto, annodando i capi, coi quali si è formato questo, sulla nuca.

Sotto il fazzoletto le signore portavano una berrettina o capperruccio di seta rossa di forma conica, terminante con lunga e sottile nappina, che pendeva posteriormente sul collo; la quale non era altro che il pileos cipriotto. Attorno alla berrettina cingeva la fronte una serica benda, stretta alla cervice in un grazioso fiocco, i cui festoni cadevano sul dorso al di sotto della predetta nappina.

Il fazzoletto da collo (spaddera) era un fazzoletto di tela o di tulle che, piegato diagonalmente, pendeva dietro al collo e scendendo dalle spalle veniva ad incrociarsi sul petto, fissando le cocche ai due lati della vita nella cintura.

Era la fascia pectoralis dei Latini, il petigil dei Greci e la murumulae di san Gerolamo degli Ebrei (vedi Isaia III, 20, 24).

La cuffia (la scuffia) portata dalle signore, quando si recavano in chiesa o a far visita, aveva larghe falde coperte di fiocchi, di fiori e di trine e il cocuzzolo terminato in largo disco. Essa si legava al collo per mezzo di due nastri, che si annodavano alla gola in gentile fiocco. Questo indumento, a quanto pare, ci venne portato dai Saraceni.

La cappa era l’antico peplo dei Greci: ampia sopravveste che copriva la persona, venendo affibbiata sul petto con elegante fermaglio.

Il manto era una specie di mantellina, la quale, coprendo la testa e la vita, veniva fermata attorno alla cintura della gonnella, terminando posteriormente in due bendoni larghi una mano e pendenti posteriormente dalla vita fino ai ginocchi.

Le scarpine erano una specie di scarpe scollate, quasi simili agli scarponi usati dagli uomini, ma di pelle più fine.

Veramente di calze non ne usavano cinquanta anni fa le Galluresi, come al pari degli uomini non le usavano le donne ebree.

Le donne portavano i pendenti a peretta, come le usavano le Greche e una o più collane al collo come le Greche e le Romane.

Le vesti si riducevano per ciascuno a due, quella per i giorni festivi e quella per i feriali. Dopoché fu abbandonato l’antico costume, le donne usavano però sovraccaricarsi di gonnelle (ve n’erano di quelle che ne indossavano in una stessa volta perfino quindici). A nessuna di esse mancavano i pendenti, una grossa spilla a capocchia piatta e larga, e tre o quattro anelli d’oro almeno; ché ve n’erano di quelle che li contavano a dozzine. Gli uomini sono andati sempre con le scarpe, ma le donne povere non ne calzavano che nelle importanti occasioni, (sposalizi, battesimi, feste ecc.). Come gli Ebrei i Galluresi non usavano calze [4] .

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[1] Borsa o tasca, per lo più di pelle, che si appendeva alla cintura per mettervi dentro denaro, arnesi di lavoro, munizioni da caccia, ecc.

[2] Contenitore della polvere pirica fine usata in passato per innescare la carica di lancio nelle armi da fuoco ad avancarica con accensione a focone.

[3] Grossolano panno di lana, impiegato in marina per tende e cappotti oppure, imbevuto di minio, per guarnire strutture metalliche e renderle resistenti all’acqua.

[3] Le ultime righe in originale sono nel paragrafo “Le abitazioni”.

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