LA GALLURA

in

SARDEGNA E CORSICA. Libri due ⇒

DI

CARLO CORBETTA

Milano, G. Brigola, 1877

Passato il Coghinas, le cui rive sono cosparse di macchie di oleandro dagli olezzanti effluvj, si entra in una regione di tutt’altro aspetto: siamo entrati nella Gallura. I monti da basaltici diventano granitici, la vegetazione si fa più rigogliosa di mano in mano che si sale il versante dei monti che formano l’alta conca, in mezzo alla quale siede regina, capoluogo della regione, Tempio. Prima però di giungervi è ancora abbastanza lungo il cammino, senza un villaggio, senza un casolare, per cui è stato d’uopo costruire, lungo la strada, due cantoniere, la Fumosa e quella di Femina Morta, nomi singolari, e derivanti da vicine località sulle quali corrono leggende strane di incendj e di morti, raccontate ed udite dai terrieri con superstizioso e timoroso rispetto.

Solo sul culmine d’una collina, ai piedi della quale vi sono ottime acque termali sulfuree, cui manca uno stabilimento per essere opportunamente utilizzate, torreggiano le rovine medioevali di Castel Doria colla sua bella torre pentagona che pittorescamente le corona.

Si lascia sulla sinistra Bordigiadas, seguendo la via fra massi irregolarissimi che pare minaccino ad ogni tratto rovina sovra il tuo capo, e finalmente ad un brusco risvolto di strada, in mezzo a vigneti e a campi di frutta, si vede Tempio.

TEMPIO

Il suo aspetto è davvero singolare, facendo vivo contrasto alla ricca vegetazione da cui è circondato, le sue case di nudo granito che sembrano roccie. La sua posizione è assai elevata, cioè a 576 metri dal mare, sopra un piccolo altipiano sorgente in mezzo a vasta conca, circondata com’ è da monti più alti.

Sono i colossi granitici del Limbara e dell’Utanas coi loro antemurali e contrafforti, e colle loro nude cime dentate che spiccano in bruschi e stagliati profili sull’azzurro del cielo e si elevano a metri 1340 dal livello del mare.

Tutte le sue case, per lo più di due piani, ed anche le chiese, sono, come ho detto, costrutte di granito tagliato regolarmente in parallelepipedi abbastanza grossi, e senza intonaco alcuno; assomiglian tutte a fortezze, talmente son solide e massiccie. Il granito è di varie qualità, compattezza e granulosità, quasi tutto bigio, pochissimo dà alquanto al rossiccio; lo si cava dai monti vicini, e lo si ha quindi con minimo dispendio di trasporto. Tutta la città stessa posa sopra una roccia granitoide, per cui le case vi hanno ben solido fondamento.

A Tempio risiede Sottoprefettura e Vescovado; vi ha Tribunale di Circondario, un bagno penale, una banca agricola, un ufficio del genio civile, scuole maschili e femminili elementari abbastanza frequentate, un ginnasio, ma non scuole tecniche, benchè conti oltre 10,000 abitanti[1] comprendendovi però i pastori degli stazzi in numero di circa 500.

Le vie della città, che però, come direbbe l’arguto monzese medico-poeta Rajberti, rassomiglia ad una città di campagna, sono strette e tortuose, lastricate anch’esse di granito come le case, ed ha tutt’insieme una tinta tetra ed eminentemente montanara.

Ma i suoi contorni sono veramente ameni e graziosi; anzi grandiosi e magnifici sono i panorami che si scorgono, da ogni punto, da ogni lato tu volga lo sguardo. Ha limpidissime e fresche acque sorgive che sgorgano da due fonti poste l’una all’occaso, l’altra a mattino. Ed è bello il vedere sul far del giorno e la sera sull’imbrunire i gruppi delle belle tempiesi coi loro artistici e severi costumi, correre al fonte cantando sommesse e melanconiche canzoni, e portare sul capo con maestà tutta romana e una grazia tutta greca, le grandi anfore dalle curve eleganti, colle quali attingono l’acqua.

Fuori appena dall’abitato sonvi deliziosi passeggi alberati ed ombrosi; il clima è di una salubrità proverbiale, l’orizzonte quasi sempre lucidissimo, temperato da fresche aure benefiche.

La chiesa principale, che non meriterebbe il nome di cattedrale che gli si dà, è anch’essa, come gli altri edifizj costrutta tutta in granito, e non varrebbe la pena di ricordarla, se non fosse la originale irregolarità di una delle sue facciate composta di due corpi di diversa larghezza divisi da una gran lesena o pilastro sporgente che sale fino al tetto, e con finestre disformi fra loro, quale rotonda, quale quadrata, quale ad arco a tutto centro e quale a sesto acuto. Del resto, il gusto e la regolarità delle linee architettoniche non è certo il distintivo nè di questa chiesa, nè delle case tutte di Tempio.

Ognuno fabbrica a suo talento, pel comodo interno, senza preoccuparsi dell’aspetto esterno e senza incagli nè impedimenti di regolamenti municipali, per cui tu vedi porte e finestre di ogni dimensione, poste ad ordini diversi, che contrastano assai colla euritmia, colla solidità stessa e con una certa aria di pretesa che hanno codeste case tutte di pietra.

Appena giunto a Tempio bisognava pensare a trovare un ricovero per la notte, il che mi avevano detto sarebbe stato difficile; e prima di andare alla sedicente osteria, ce ne mettemmo in traccia, io ed il luogotenente dei carabinieri. Si bussò, si chiese a varie porte che ci avevano indicato, ma indarno, ci fu gioco forza adattarci all’osteria, ed accomodarci alla meglio, anzi alla peggio, in una sola cameruccia sucida, lurida, con due letti che non invitavano certo a giacervi, per varie ragioni che è inutile il dire.

Buon per me che in buon punto mi risovvenni di avere una lettera per l’ingegnere del genio civile quivi residente. Fui abbastanza fortunato di trovarlo subito, mi offerse alloggio che di buon grado accettai senza cerimonie, e così potei dormire benissimo in un letto pulito fattomi apprestare all’uopo.

Ho detto che circa cinquecento pastori abitano gli stanzi, un centinaio o poco più di famiglie. Ma cosa sono codesti stazzi?[2] Sono isolati casolari rustici, o meglio capanne rozzamente costrutte, la parte inferiore in mura a secco di pietre, la superiore in rami e fronde « che si raggruppano fra loro con forma di federazione naturale che chiaman cussorgie.»[3] In esse vivono i pastori colle loro famiglie, attendendo ai pascoli, alla tosatura, alla manipolazione dei caci delle loro pecore e capre, intercalando il loro ozio forzato colla caccia, nella quale sono abilissimi. Lo stazzo è sparso in molte parti della Sardegna montuosa, e specie nella Gallura e nei paesi di Tempio.

Quei pastori, segregati si può dire dall’umano consorzio, a differenza dei nostri che stanno fra i monti solo nella estiva stagione, vi vivono tutto l’anno, anche il verno spesso rigidissimo su quelle alture, una vita veramente patriarcale e pastorale. Benchè abbiano una relativa agiatezza, hanno pochi bisogni, non conoscono nessun comodo del viver sociale; intelligenti e svegliati, dall’occhio fulgido e penetrante, ma rozzi, fieri, cacciatori, spesso rapaci, veri figli di Nembrotte, scendono assai di rado al piano e meno al capoluogo.

Nel loro stazzo vivono, si moltiplicano, muojono, senza desiderio di cose che non conoscono. Vi hanno un solo gran locale ove dormono, conservano le loro derrate, e fanno fuoco sopra rozza pietra posta nel mezzo, da dove il fumo sale senz’ajuto di cappa, e tutto affumicando ed annerendo, trova un’uscita attraverso a rozza apertura praticata in un angolo del tetto. Vi hanno poco o nessun mobiglio; si coricano su graticci infissi con piuoli nelle pareti; di sedie e tavole fanno a meno; si nutrono di mediolatu, di cacio, di carni e di pane, cotti sotto alla cenere, il quale ultimo chiamano coco, e lo preparano le donne con farina macinata con pietre tonde che strofinano girandole a mano.

Al viandante però che capiti fra loro son prodighi di una cordialissima ospitalità.

AGGIUS

A circa un’ora di distanza da Tempio trovasi il piccolo villaggio di Agius, di triste celebrità nei passati tempi pei suoi banditi, ed ora per le inimicizie, odj e vendette di famiglia di cui va travagliato, e che si tentò invano di rappacificare. Fra i due adagi che corrono in Sardegna: Su perdonare est de Deus, su ismentigare est de macus, (il perdonare è di Dio, il dimenticare è del pazzo); Su mezus remediu ad sas injurias est s’ismentigu (il miglior rimedio alle ingiurie è l’obblio), seguono costoro, con poco senno, piuttosto il primo che il secondo. Giace Agius in territorio amenissimo non solo, ma fertile e ricco di bestiame, e del rinomato miele amaro di Gallura.

DA TEMPIO A OLBIA

Da Tempio si dipartono due altre vie carrozzabili, da poco tempo fatte; l’una si dirige verso il nord e si biparte poi conducendo a Santa Teresa (Longon Sardo) e al Palau vicino al capo dell’Orso, in faccia a Maddalena; l’altra dirigesi verso l’est a Terranova, ed io percorro questa con legno che regolarmente parte il mattino.

Per buon tratto ancora il terreno è ben coltivato a vigneti e grano; si lascia a sinistra Nuches nascosto fra i monti, poi in mezzo a folte macchie di querciasughero che dà ottimo prodotto, si arriva a Colangianus che sorge sopra un’altura.

Codeste macchie di sughero fanno bellissimo vedere, colle lor fitte fronde di verde cupo, cui fa contrasto il color vivo ranciato dei tronchi e i grossi nodosi rami recentemente spogliati dalla loro prima corteccia che è il sughero. Il colore si fa di mano in mano più bruno nei primi anni, finchè si coprono ancora della seconda corteccia spugnosa, disposte ad essere nuovamente spogliate del loro protettore inviluppo.

Colangianus è un abitato da nulla, ma fa bella mostra di sè essendo disposto a scalea. Dopo si passa in una valle formata dai monti di Utanas al nord, da quelli del Limbara al sud, si trovano ancora macchie più rade di sugheri, poi la regione si fa piana e deserta con lieve declivio verso il mare; solo cespugli dei soliti corbezzoli e lentischj coi suoi fiori bianchi, e cacti coi fiori giallognoli, poi una pianura paludosa sparsa di alghe.

A Colangianus, si son lasciate le ultime rupi di granito, ed un agglomerato e scoscendimento di macigni della stessa natura di forme capricciose e fantastiche, rotolati dalle cime del Limbara, forse convogliati dai ghiacciaj nell’epoca glaciale ed aggruppati in imponenti morene. Non vi sono casolari nè villaggi nel lungo tratto di strada da Colangianus a Terranova; fin dove arriva lo sguardo non impedito da monti vicini, sempre la stessa pianura sterile; solo quattro cantoniere vi si trovano, quelle di Larai, di Taroni, di Telti, di Pozzolu. A Telti si trova la biforcazione della strada che mena ad Ozieri, e vicine si vedono le rovine dell’ antico castello di Telti, da cui prese nome la casa cantoniera.

Questa pianura, detta Caresi, ora isterilita e tutta pantanosa dallo straripare e dilagare del fiume che vi scorre, era altre volte a grossi pascoli e manteneva buone razze di cavalli e secondo lo Spano «quivi stava l’antica Cares nominata da Tolomeo, la patria del soldato Tunila conosciuto dal congedo militare in bronzo, che si conserva nel Regio Museo di Cagliari.»

OLBIA

Terranova[4], detta Pausania, nei tempi di mezzo, costrutta sulle rovine dell’antica Olbia, sulle rive del mare, e precisamente del golfo dello stesso nome, ora non è che un paesucolo. Sta però in parte risorgendo, ed aspetta di risorgere ancor più, quando sarà fatta la ferrovia che vi deve metter capo da Ozieri, e quando meglio riattato il porto, già sicuro ma di difficile approccio, sarà congiunto con corse quotidiane di piroscafi a Civitavecchia, punto più vicino del continente.

Codesta congiunzione dei due porti, l’ultimo dei quali in diretta comunicazione con Roma, riescirà certamente di grande vantaggio per tutta l’Isola, poichè in questo modo i suoi due principali centri, Sassari e Cagliari, potranno distare rispettivamente non più che 13 o 15 ore ciascuno dalla capitale del Regno, mentre ora le comunicazioni sono a gran pezza più lunghe, e per soprassello a lontani intervalli ed incerti.

Attualmente Terranova[5] consta di poche vie rettilinee e parallele, che metton capo al mare, polverose, sucide, con poche case nuove, le più catapecchie basse, luride e mal costrutte; non ha locanda nè caffè che meritino questo nome, ma sozzi bugigattoli mancanti di tutto che sia di conforto al vivere; solo ricchi di lezzo e sporcizia.

Dato uno sguardo non si saprebbe come impiegarvi il tempo, se non osservando i pesanti carri a bove che scaricano le merci dai legni mercantili, e due piccoli mulini a vapore che fanno sentire interrottamente i loro acuti fischi e gli isocroni sbuffi.

Non è a dire per questo, che non si trovi nulla d’interessante a Terranova, ma le cose interessanti bisogna cercarle fuori delle sue mura. Merita di esser visitata la bella chiesa di San Simplicio, sorgente sopra un vicino monticolo, di stile conosciuto sotto il nome di pisano, a tre navate, tutta in granito, con colonne marmoree a capitelli di vario genere e dimensioni tolte alle rovine romane dell’ antica Olbia e costrutta sul cominciare del secolo XII; meritano di essere visitate le rovine di castelli, i Nuraghes, e sopratutto il golfo e il porto, per la natura non per l’arte.

I Nuraghes, che stanno a qualche ora di distanza, li visitai a cavallo; sono varii, poco discosti l’uno dall’ altro, tutti granitici, a grossi massi ben tagliati. Alcuni di essi, ben conservati, hanno la disposizione che ho già descritta; un altro, in buona parte distrutto, ha la specialità di una seconda camera interna quadrata e di una nicchia laterale, che non si sa ben distinguere se formasse un’altra camera circolare appaiata alla prima, ovvero se sia costrutta appositamente a guisa di nicchia esterna. A questo Nuraghes, che certamente è uno dei più grandi che si vedono in Sardegna, stavano aggiunte ancora altre costruzioni, forse un recinto che serviva di chiusura o difesa, il che appare da mura rovinate, anch’esse di granito tagliato in macigni della stessa foggia ed a poca distanza dalla costruzione centrale.

A cavallo, atteso il non breve tragitto, mi recai pure a visitare le antiche castella che in due distinte località sorgono in mezzo a grandi estensioni incolte sparse di cespugli, solo qua e là di qualche campo di grano, sopra rupi eminenti.

Legato il mio bucefalo e quello della guida ad un albero, come avevo fatto ai Nuraghes, e lasciando sbrucassero a lor talento le frondi, m’inerpicai su quei poggi, osservando ed ammirando gli avanzi di torri, di mura, di volte, quei massicciati grandiosi che costrutti nei tempi di mezzo dai fieri Baroni e dai Giudici e Regoli, sfidarono i secoli, ma cedettero infine alla legge generale della distruzione. E stabilivo un confronto fra questi e i Nuraghes, che, anteriori certamente di molti secoli, pure erano ancora in piedi ad attestare la maggiore vigoria di razza dei popoli che li edificarono.

Uno di questi castelli, che offre ancora ritta in parte una gran torre quadrata, è chiamato di Padulazza e rimonta al XIII secolo, l’altro poco lontano, quasi distrutto e solo ammasso d’informi macerie, risale pure a quel torno di tempo.

Al golfo mi recai prima dell’ imbrunire in canotto con lieta brigata di nuovi conosciuti, diventati subito amici, fermandoci a merendare sopra uno degli scogli che vi sorgon nel mezzo. Esso s’insena assai nelle terre, ma lo approdarvi è assai difficile e pei varj scogli di cui va ingombro, e pei bassi fondi di arene formati dai fiumi che vi immettono. Ora però da tempo si lavora a sgombrarlo con draghe a vapore, e già si è scavato un canale abbastanza profondo, tracciato da opportuni segnali, nel quale possono entrare anche i grossi legni mercantili sì a vela che a vapore, ed inoltrarsi fino alla calata del porto che trovasi nella parte più interna del golfo stesso.

GOLFO ARANCI – TAVOLARA – MOLARA

Uscendo dalla stretta imboccatura di esso al mare, si trova a sinistra quello amenissimo degli Aranci, così chiamato poichè assai bene vi prosperano codesti agrumi, formato e protetto dagli acquiloni dalle immani rupi di Capo Figari. Meglio direbbesi vero porto piuttosto che golfo, dacchè offre profondo e sicuro ancoraggio a qualunque legno; è poi luogo assai pittoresco, ove fanno brusco e bellissimo contrasto le verdi spiaggie coperte di ricca vegetazione e di aranci che lo circondano ad occidente, e le nude e bianche rupi, del Figari che lo proteggono al nord. Completano poi la bellezza del quadro e la sicurezza del porto, e gli fanno stupendo sfondo di scena, le isole di Tavolara e Molara sorgenti al mezzodì.

Se è bella l’aurora in mare, è pur bello ed imponente e spande nell’animo una ben dolce malinconia, anche il tramonto; e tale spettacolo, tanto vecchio e sempre nuovo, io godei al mio ritorno in Terranova dal golfo. La brigata degli amici era più che mai garrula e schiamazzante, eccitata anche da copiose libazioni di vernaccia; il debole schifo trabalzava rapido sull’onda coi sussulti che gl’imprimevano gl’irrequieti remiganti, intuonando inni giocondi; ed io godevo isolandomi, e, contemplando gli ultimi raggi del sole morente che illuminavano di riflessi dorati gli irti scogli di Tavolara, Molara e Capo Figari, facevo meco stesso un parallelo fra gl’immensi spettacoli della natura e quelli che offrono le rovine degli edificj dell’uomo, da me visitati il mattino, e il confronto riusciva certo a scapito di questi ultimi.

Delle rovine dell’Olbia romana, non si conservano traccie apparenti alla superficie del suolo; solo recentemente nella costruzione di nuove case, si trovarono dei pozzi in muratura a bocca rotonda, che poi si riquadra nella canna inferiormente, ed avanzi di cisterne, il cui cemento e la cui costruzione è da assegnarsi indubbiamente ad epoca romana; di essi parla anche il canonico Spano[6]. Spesso poi, nel lavorare il terreno, si sono trovati avanzi di tombe, piccoli oggetti e gioielli d’oro e d’argento, pietre incise e scarabei, alcuni dei quali si potrebbero attribuire ad epoca romana, altri ad anteriori colonie greche, od etrusche e puniche. Risulta adunque anche da ciò essere incerto se Olbia fosse fondata realmente dai Romani, ovvero costrutta su ruderi anteriori, greci od etruschi o cartaginesi, dei quali non rimane notizia alcuna.

Della Pausania medioevale, benchè assai posteriore alla romana, non appaiono resti, quando non vogliasi a questa assegnare la chiesa di San Simplicio che abbiamo nominata.

Terranova fa discreta esportazione di carbone di leccio, che manda in Toscana a Livorno, e nei porti di Genova e Nizza, e che trae dai pochi boschi ancora esistenti nelle montagne circostanti, ma questo commercio va di giorno in giorno scemando colla distruzione improvvida dei boschi.

Per recarsi da Terranova ad Ozieri è d’uopo rifare per poco la strada fatta venendo, cioè, fino alla cantoniera di Telti, e la si percorre anch’essa con regolare mezzo di trasporto ogni giorno.

Da Telti a Monti, primo villaggio che s’incontra, si passa ad una regione ondulata, poco o niente coltivata, solo si trovano delle macchie di sugheri e grandi estensioni di cespugli.

Monti, addossato al versante di alte colline, ha ridente aspetto, via larga ed aprica nel mezzo, ma casuccie basse, dalle quali si vedono uscire ed entrare liberamente insieme agli uomini ed ai bambini, i maiali e certi minuscoli asinelli, vellosi come le capre, che servono a girar le mole pel grano. L’abitato è circondato da pascoli e campi di frumento e d’orzo discretamente coltivati.

Da qui si diparte la via che, scendendo direttamente a sud per strette gole di monti e toccando Alà poi Buddusò, riesce proprio nel cuore di Sardegna, nel centro suo più montuoso, a Nuoro. La strada però non per anco compita, non è ancora quindi in esercizio, ma lo sarà certo fra poco.

Dopo Monti torna il paese ad essere incolto, ad arbusti e pascoli naturali; si vedono dalla via alcuni Nuraghes, si lascia sulla destra la fresca fonte di Caddos ed il pittorico villaggio di Berchidda, e seguendo il letto del Rio di questo nome e passandolo e ripassandolo, su bei ponti a travate di ferro, si arriva finalmente ad Oschiri.

Oschiri è piuttosto grossa borgata che conta oltre 2000 abitanti[7], compresi un 350 pastori che vivono negli stazzi del contorno; l’attraversa una via tortuosa, le sue case son povere, la chiesa in rovina, non ha l’aspetto di grande prosperità, eppure era sull’imbrunire quando si passava, e tutta la gente era fuori ad aspettare l’arrivo della posta che doveva portar lorole notizie del mondo, da cui vivono, si può dire, separati.

Ad Oschiri termina la regione di Gallura e si entra in quella di Monte Acuto.

COSTEGGIANDO DA SAN TEODORO A LA MADDALENA

Procedendo a nord la spiaggia per buon tratto non offre gran che d’interessante; piccoli stagni alternati con punte petrose, e scogli e isolotti radi; dietro ad essa, poco entro terra, elevano il loro capo alcune montagne fra le quali primeggia il Cucurru (cocuzzolo) de Luna ; solo si vedono poi le rovine ancora un po’ apparenti della città romana Augustos Populos, in mezzo a piccolo piano deserto fra colline. Si arriva così, dopo aver costeggiato lo stagno di San Teodoro diviso solo dal mare da una sottile diga di arene, al seno, specie di porto, di Bradinchi, formato dallo sporgente capo, detto Coda di Cavallo, appunto pella sua forma che vi assomiglia alquanto. È roccia nuda rossastra di granito, bizzarramente dentellata che si ripiega a lingua verso il nord, coronata da scogli, e lascia aperto un piccolo stretto fra essa e l’isola di Molara, ove si passa col piroscafo.

Molara è pure tutta una roccia granitica circondata da isolotti e scogli, come il Molarotto, i Cervi, l’isola Rossa, il Reulino, tutti anch’essi di granito quali più quali meno rosso somigliantesi all’egizio. Non è priva però Molara di terra vegetale ove allignano molti olivastri e pascoli. Fu altre volte abitata massime al tempo romano e nei bassi tempi, come lo attestano le rovine di costruzioni, e gli avanzi di un castello a grossi monoliti, ma le frequenti scorrerie di corsari fecero sì che fosse abbandonata. Ora non vi abitano, e solo nella buona stagione, che due o tre pastori, e vi allevano vacche e capre. Vi si approda in due punti, da una piccola cala in faccia all’ Isola Madre, e da un’ altra verso l’Isola di Tavolara.

Questa s’incontra a settentrione di Molara, ed è di quasi doppia estensione, misurando quella sette chilometri e mezzo di circonferenza, questa circa tredici.

Essa è di forma assai allungata, e costituita da una catena di piccoli monti acuti che, verso lo stretto consta di puro granito è finisce in punta detta Spalmatore di Terra, dalla parte esteriore verso il mare di roccia dolomitica calcarea, la cui estremità chiamasi Spalmatore di Fuori e porta un faro. Questa parte è tutta nuda, tagliata a picco, l’altra offre poca vegetazione. L’inospita isola è pure abitata da un pastore colla sua famiglia soprannominato Re di Tavolara. Esso vanta, non saprei con quale fondamento, una specie di donazione o concessione fatta ai suoi antenati da Carlo Felice; fatto si è che egli ci vi ve quasi fosse sovrano e nessuno gli contesta il magro possesso o conquista, il microscopico regno. Le balze più scoscese sono popolate da capre selvatiche che si mostrano sui picchi più alti sporgendo il capo sospettose, quando passa qualche legno sul lido.

Il canonico Spano dice che «era abitata nei tempi preromani, perchè vi si trovano residui di edificj a muro barbaro.» Dice inoltre che «sono visibili ruderi di laterizj ed embrici dei tempi romani». e vi si «trovarono una gran forma di piombo ed alcune lucerne di figura rotonda pure di piombo»[8] e sepolture con vasetti e monete. Tutto ciò porterebbe a credere che, non solo fosse abitata, ma vi si scavasse minerale di piombo, o per lo meno vi si fondesse; di quest’ultima congettura però, meno la forma rinvenuta, non havvi altro indizio.

In faccia a Tavolara, nello stretto, evvi l’Isola dei Cavalli, nudo macigno di granito, come altri minori che lo circondano. È bello il passare in questo laberinto di scogli rossastri, che offrono le fogge le più fantastiche, finchè si oltrepassa il Capo Ceraso e si entra nel golfo di Terranova.

A Terranova, che io già conoscevo, si approdò, e presi passeggieri e merci e la posta, in brev’ora si ripartì, percorrendo tutto il golfo dello stesso nome e lambendo l’ingresso di quello amenissimo degli Aranci.

Dopo, eccoci davanti imponenti, sovrastanti, che pare abbiano a rovesciarcisi addosso, le perpendicolari, irte, nude, altissime roccie calcaree di Capo Figari e Figarotto o Figarello. Non uno sterpo, non un fil d’erba alligna su quelle liscie pareti cenerognole, continuamente battute e levigate dai fiotti rabbiosi; solo miriadi di uccelli acquatici, quali punti bianchi sospesi, nidificano nei crepacci, e svolazzano e vanno ad ampie spire rigirando per l’aere e l’empiono delle loro strida, e, tratto tratto, ratti come fulmini, si tuffano nelle onde sottoposte a far preda di qualche pesciatello, che hanno visto dall’alto coi loro acutissimi sguardi.

Dopo Capo Figari, si aprono, a profonde crespe, piccoli golfi e porti naturali, fra cui principali la Marinella Vecchia e Congianus. I promontorj che dividono questi e i seguenti, sono formati dalle propaggini dei Monti di Gallura, che vengono ad estendersi fino al mare. Sono i Monti di Utanas, Porcareccia e Congianus coi loro contrafforti, spopolati di villaggi e d’ogni abitato, solo coperti di rade boscaglie di sugheri e quercie, e da qualche santuario isolato.

Seguendo la costa e piegando poi verso occidente a guadagnare il nord dell’ Isola, s’incontra innumerevole stuolo di isolette e scogli disabitati, fra i quali la navigazione è difficile assai. Son sempre formati dalle stesse roccie ora granitiche, ora calcaree, ad irregolarissime ed asprissime creste e ritagli. Molti minori sono innominati; i più grandi si chiamano: i Soffi, Mortorio, i Porri, i Libani.

Il mare, prima tranquillissimo, viene agitato da forte ponente-maestro, ed appare ora nero ora biancheggiante di spume; le onde si frangono negl’irti scogli, si procede con cautela per non urtarli, vigile sta il nocchiero al timone e alla bussola, anche il capitano e il secondo stan fissi in vedetta sul ponte; intanto imbrunisce.

LA MADDALENA

Passiamo vicino a Capo di Ferro, ove sorge un nuovo faro necessario in quei paraggi, bella costruzione recentissima, quadrata, con torre rotonda che la sovrasta, ove brilla interpolata vivida luce; lasciamo a destra l’isolotto delle Biscie, e a sinistra, oltre altri minori, il più grande, profondo seno di Arsachena, e finalmente siamo in vista di Caprera. Essa appare scogliosa, bruna, e forma uno stretto colla madre Isola, entro il quale si passa, e lasciando a sinistra l’isola di Santo Stefano, si arriva, a notte fatta, a Maddalena, nell’isola dello stesso nome.

Il giungere di nottetempo in paese nuovo, non è mai cosa simpatica, peggio poi se trattasi di luogo di mare. Lo scendere nei canotti, lo scarico dei bagagli, la visita indispensabile della dogana, l’andare in cerca d’alloggio, son tutte cose nojose sempre e massime la notte. Toccata terra e sbrigatomi della dogana, eccomi in cerca di una camera ove posare il capo; ma è cosa più difficile di quello che credo. L’unica locanda è piena, due o tre porte a cui batto, e che usano alloggiare, non hanno ove ricoverarmi, o luogo affatto sconveniente.

Mi rimane una via da tentare, ed è quella di ricorrere ad un signor Ingegnere del Genio Civile, addetto ai fari, pel quale ho una lettera; mi duole il disturbarlo di notte, ma tant’è, necessitas non habct legem, come dice l’antico dettato. Duro qualche fatica a trovare la sua abitazione, ma sono ben compensato dalla noja patita. Esso è già coricato, pure si leva e mi offre un giaciglio; mi schermisco debolmente, poi accetto.

È un savojardo e parla italiano con accento francese; ha lunga barba bianca che gli scende sul petto ed assomiglia assai al generale Garibaldi, e se ne tiene; non si può fargli cosa più grata che il dirglielo. Passo la notte assai bene, solo col rimorso di avere arrecato tanto disturbo, riserbandomi a cercare altro alloggio la domane riposatamente, e visitare l’isola. Il mattino prima che spunti l’aurora, e prima che il mio ospite si svegli, sono in piedi ed in giro.

L’ossatura della Maddalena è tutta di granito, in massima parte di qualità eccellente per costruzioni, anzi ne esiste una cava che esporta ottimo materiale, impiegando buon numero di operai peninsulari. È coperta solo qua e là da poca terra, per cui va quasi spoglia di vegetazione; bassi cespugli quindi e magri pascoli vi allignano; vi è pur coltivata in qualche luogo la vite, che dà ottima uva, tanto per vino, che per disseccare. Misura circa venti chilometri il giro delle sue coste, essendo assai frastagliate; offrono un porto che, benchè piccolo, è abbastanza sicuro, per essere nello stretto formatovi dall’isola di Santo Stefano, che gli sta di faccia, a poco più di un chilometro e mezzo. Il porto è sulla spiaggia meridionale e qui sorge la borgata di Maddalena, con circa duemila abitanti[9], i soli che popolino l’isola.

Che Maddalena fosse abitata fino dall’evo romano, lo dicono le tombe, le monete, i cocci di vasi trovati.

Fu abbandonata forse nell’evo-medio in causa delle escursioni turchesche o saracene, e ripopolata poi, come dice il Valery[10], nei primordj del secolo scorso da una colonia di Córsi, che vi piantarono stanza in luogo elevato, poi scesero al mare e vi fondarono l’attuale borgata. S’accrebbe poi dei fuggitivi dalla coscrizione del primo impero napoleonico, e all’ epoca del blocco continentale, allora inaugurato, divenne un vasto e ricco deposito di mercanzie inglesi.

I suoi abitanti non presero mai il dialetto sardo, e conservano intatta la loro natia parlata italiana di Corsica; nè le abitudini, nè i costumi, nè gli abiti presero dai Sardi. Vivono del commercio di transito e dei trasporti e noleggi marinareschi, ingrato essendo il loro suolo per l’agricoltura; anzi la sua popolazione valida si può dire viva sul mare, non restando a casa che le donne, i vecchi e i fanciulli; si occupano altresì della pesca del corallo, insieme ai Napoletani, e dell’altra pesca.

Le sue case, che in parte s’ aggruppano lungo il mare, in parte ascendono il monte ad anfiteatro, sono bene e solidamente fabbricate a due e tre piani; molte nuove, con balconi sporgenti in pietra lavagna, o in marmo di Carrara, come le scale. La sua posizione riparata dai venti, fa sì che il clima vi sia dolce, quasi uniforme in ogni stagione e sanissimo, per cui riesce prediletto soggiorno dei marinai pensionati, che vi trovano poi il vivere poco spendioso, e che si vedono a capannelli oziare sui muricciuoli e sedili che guardano il mare, ricordando fra loro le passate gesta.

Ad occidente del porto, trovasi un antico forte detto Barbiano, ora adattato ad abitazioni private, quantunque i fiotti ne battano le mura, ed un altro se ne trova sul punto più culminante dell’Isola, chiamato Guardia Vecchia. Esso è tutto smantellato ed andrà in breve rovinando; dai suoi spalti però, che percorsi con un vento diabolico di ponente-maestro, mentre in basso non se ne sentiva ombra, si gode stupenda vista su tutto l’arcipelago che si aggruppa intorno e sullo stretto di Bonifacio.

Nell’isola esistono tre case solitarie, oltre il paese.

Una a poca distanza di esso, sorge in una valletta, di cui un Inglese ha formato, con pertinaci sforzi, un Eden, una vera oasi di vegetazione, e vi ottiene ogni sorta di prodotti; egli vi è stabilito e vi abita tutto l’anno colla sua famiglia. Le altre due stanno sullo stretto della Moneta e guardano Caprera; sono desse due vere villeggiature, in posizione amenissima ed appartengono ad un altro Inglese l’una, l’altra ad un Sardo che vi abita però solo parte dell’anno. Hanno ambedue giardini ben coltivati con piante esotiche tropicali quasi acclimatate.

Maddalena è ancora piena dei ricordi dell’ infausta spedizione, che vi fecero infruttuosamente i Francesi approdandovi nel 1793. Respinti, nella fretta del ritirarsi a bordo delle loro navi, abbandonarono a terra un pezzo d’artiglieria da sbarco che fu facile preda di quei popolani, e fu poi trasportato nella Regia Galleria d’armi a Torino. Conservavasi poi ancora, or fan pochi anni, una bomba caduta sul tetto della chiesa parrocchiale, che scomparve venduta ad un Inglese raccoglitore di curiosità storiche.

Ad sud di Maddalena vedesi a poca distanza, come ho detto, la piccola isola di San Stefano. Non evvi abitato, solo in uno dei suoi vecchi forti diroccati abita un pastore col suo gregge di pecore che trovano magro pascolo; altro non vi cresce che poco orzo e fave.

A sud ancora di questa, dopo uno stretto di circa due chilometri, trovasi la costa della madre Isola, ove al punto detto il Parau o Palau, giunge la strada che viene da Tempio, e vicino il Capo dell’Orso. Era conosciuto fino da Tolomeo che ne parla nelle sue storie, e prende nome da una roccia granitica che presenta la figura di un orso bianco accosciato sulle gambe di dietro, e così bene raffigurato da parere scolpito dalla mano dell’ uomo.

All’oriente poi lo stretto della Moneta coll’isoletta dello stesso nome, e che in alcuni punti si ristringe fino a mezzo chilometro, la divide dall’Isola di Caprera, dimora del generale Garibaldi.

CAPRERA

Quantunque esso fosse lontano, pure non volevo trascurare l’occasione di fare una visita a questo luogo di cui tanto si parla. Vi combinai dunque una gita coll’ingegnere del Genio, anzi con una delle barche destinate al servizio dei Fari, che mi fece appositamente apprestare.

La mattinata era bellissima quando si lasciò il piccolo porto con due marinai; spirava una fresca brezza marina bastevole per spiegare la vela e si scivolava ratti sul l’onda coll’agile schifo, ma non tanto che varie barche coralli ere non ci raggiungessero e ci sopravanzassero. Le avevo viste in porto in numero di otto o dieci equipaggiarsi per la pesca ; stavano imbarcando le grosse reti di fune, gli arpioni, i graffj ed altri attrezzi, i barili dell’acqua dolce, il biscotto, le provvigioni per star in mare quattro o cinque giorni o più; erano montate da cinque o sei marinaj ciascuna. Due o tre di esse approfittando del tempo propizio, avevano salpato poco dopo di noi, e colla loro ampissima vela, raccoglievano assai più vento e filavano quindi più veloci.

Si passò vicino ad una grossa nave da guerra, la pirofregata trasporto Cittá di Napoli ancorata nello stretto per scuola dei mozzi; in poco più di mezz’ora si toccò Caprera, e lasciata la lancia in una piccola cala, saltando di scoglio in scoglio, si scese a terra. Questo però non è il solo approdo; havvene un altro migliore più a nord, in un piccolo seno abbastanza profondo da potervi entrare anche i piroscafi e i legni mercantili di una certa portata, che in numero grandissimo vi approdano sempre in ogni stagione, massime inglesi ed americani.

Caprera è poco men grande di Maddalena, anche essa ha struttura granitoide, e a mala pena ricoperta da terra, mostra qua e là le sue acute e nude punte.

Dopo breve e torto sentiero, in terreno incolto e sassoso, od a pascoli con qualche capanna per ricoverarvi gli armenti, eccoci alla casa dell’eroe popolare.

È una casa di assai modeste proporzioni, bianca, con persiane verdi, e cinque o sei finestre di fronte; metà ad un sol. piano, metà a due con terrazzo sporgente dal lato di mezzodì. Addossata ad essa, a ponente verso mare, evvi una torre rotonda con comignolo acuto che ne sovrasta il tetto in ardesia e porta ancora le ampie ali di un mulino a vento, ora inoperoso perchè surrogato da un altro a diverso sistema.

A levante, verso la montagna e il centro dell’isola, un rozzo cancello di legno dà accesso ad un cortile quadrato, con macchie di fiori ove pigolano e razzolano polli e galline. I due lati di esso che fiancheggiano la casa, sono occupati da stalle per bovi, vacche e cavalli e fienili; quello in faccia, da una siepe di rosaj o.

A poca distanza dal cortile, sorge un piccolo edificio isolato, pel nuovo mulino a vento detto all’ americana, mosso da due grandi ruote a pale che agiscono verticalmente come quelle dei piroscafi. Serve esso oltre alla macinazione del grano e degli ulivi anche come forza motrice per molti altri usi agricoli, come trebbiatojo, trituratore, sgranatore, ecc. Attigua poi alla casa, dal lato opposto, vedesi quella regalata a Garibaldi da un Inglese e che si può trasportare ed impiantare ove si vuole; è costrutta in lamiere di ferro zincato ed ha quattro camere a due piani, essa però non fu mai abitata da lui e serve ad alloggio del suo domestico ed a magazzino di attrezzi rurali e foraggi.

Giunti nel cortile non trovammo nessuno, ed i nostri marinaj pratici del luogo, venendovi spesso a portare provvigioni, ci condussero nella casa d’altronde aperta a tutti.

Entrati da piccola porta, primo si presenta a terreno un ristretto vestibolo, ove è la gran poltrona a ruote del Generale che gli serve quando travagliato dalla podagra e dai suoi dolori reumatici non può reggersi sulle gambe, e cavallucci di legno e giuocatoli pei suoi bambini. Il vestibolo conduce a destra in una sala da pranzo semplicemente arredata, con gran tavolo quadrato nel mezzo, coperto di tela cerata, ed armadj a vetri per riporvi stoviglie, ed a sinistra la camera da letto del Generale.

Questa è ampia, ripiena di un monte di roba tutta a soqquadro. Gran parte di essa è occupata da un letto matrimoniale ove esso dorme colla donna colla quale convive, e da letticciuoli e culle per bambini. Del resto, qui vedi armi bianche e da fuoco irrugginite, in ogni angolo, ricordi di guerra. Stampe inglesi rappresentanti briks, brigantini, golette, con semplici cornici e cristalli rotti; un magnifico orologio a pendolo in bronzo dorato ; una colonna d’argento con in cima il suo ritratto in busto; uno stupendo igrometro di nuova foggia; regali tutti di inglesi ed americani. Poi mobiglio sdruscito, e libri e carte sparse in ogni luogo, e tavole ingombre di ogni sorta di oggetti disparati; poi abiti, scarpe, stivali, dimenticati su ogni sedia, sul pavimento, chi sa fin da quando. Attiguo un piccolo ripostiglio.

Procedendo nel vestibolo, s’incontra davanti la cucina a sistema economico, e a sinistra dietro alla camera da letto descritta, un corridojo che mette a quattro piccole camere, due per lato, destinate ai figli Menotti e Riciotti. Anche qui un disordine più facile a vedersi che a descriversi, armi libri, albi, incisioni, fotografie, ogni cosa a rifascio: Una di codeste camere dà sul terrazzo che abbiam visto fuori.

Tutto ciò ad un sol piano, che dal lato ove si entra è terreno, dall’altro per l’ inclinazione del suolo, riesce al primo, e sotto cantine per uso domestico. Una scala a chiocciola mette al piano superiore, ove sono due camere per la figlia Annita ed il genero Canzio, o per forestieri.

Ecco tutta la casa; casa come vedesi modestissima, limitata appena allo stretto necessario, e che rivela i semplici costumi dell’abitatore.

Visitata questa, usciamo a vedere il frutteto e i luoghi coltivati. Qui troviamo un amico di Garibaldi, da lui lasciato con un domestico a custodia del luogo; esso viene dalla caccia che abbonda nell’isola; ci accompagna per poco, poi ci fa padroni di girare a nostra posta.

Fuori appena dal cortile vedonsi pascoli ove falciasi fieno due volte all’anno; poi campi coltivati a grano, ad ulivi, a vigneti e qualche palma che alligna bene in quel dolce clima. Il frutteto e l’orto sono in una ben riparata ed umida valletta detta il Fontanaccio, ove fu raccolta la poca acqua che scende perenne dal monte in appositi serbatoj e serve per la irrigazione. Qui ortaggi e legumi d’ogni specie; poi peri, meli, mandorli, susini, peschi; inoltre salici piangenti, pioppi, pini, cipressi; non mancano anche cedri e limoni difesi da siepi contro lo spirar dei venti; è una vera terra promessa benchè in piccolo spazio. V’ è infine un apiario con molte arnie che danno saporoso miele, tratto dai fiori aromatici spontanei nell’isola.

All’infuori però di questa parte coltivata a gran cura e fatica, e che è durante il suo soggiorno la principale occupazione e sollecitudine del novello Cincinnato, il resto son tutti macigni con poche erbaccie ed esili virgulti, ove errano selvatiche alcune capre, che spesso bisogna tener lontano col fucile od ucciderle, poichè invadono e guastano i luoghi coltivati, sbrucando i giovani germogli come è lor costume.

Fra il frutteto e i campi vicino alla casa, è un piccolo spazio a giardino, in mezzo al quale sorge un’urna in marmo bianco colle ceneri di una bambina di Garibaldi avuta dalla sua donna, e chiamata Rosa, nata nel 1869, morta nel 1871, come lo dice un’iscrizione appostavi. V’è inoltre un’aja assai ben disposta ed inclinata ai raggi solari, lastricata a piastrelle di majolica di Napoli per disseccare il grano.

Fatto il giro dei campi, rientrammo in casa, ove l’amico del Generale precedutoci ci aveva fatto preparare una colazione alla campagnuola, la quale benchè fosse ancor presta l’ora, gustammo assai. Era carne salata, e cacio, e frutta bellissime e saporosissime, tutta roba di Caprera, e vino di Marsalla stravecchio, dono di un negoziante siciliano, il tutto ammannito senza cerimonie, ma cordialmente in linde cestelle e panieri senza apparato di tovaglioli o porcellane.

Ognuno che arriva a Caprera, vi trova ospitalità, ma nessuno anche vi si reca a mani vuote, e noi stessi vi avevamo portato della carne di vitella fresca che non vi si trova, e fu la ben accetta. Qui si fa la vita proprio di giorno in giorno, senza preoccuparsi della domane, affidandosi assai alla generosità dei visitatori, e questa si vede, è l’abitudine anche quando vi abita il signore del luogo, per cui spesso avviene che un giorno si nuoti nell’abbondanza d’ogni cosa anche superflua che ammalora, e un altro vi manchi anche il necessario.

Dopo qualche ora di sosta, lasciando i ringraziamenti al generale Garibaldi con una carta di visita ci congediamo, e ce ne torniamo a Maddalena impiegando assai più tempo che nel venire, poichè il vento prima spirante in poppa, ora ci era contrario, e ci obbligava a frequenti bordeggiate.Qui avevo trovato discreto alloggio da una buona vedova, ma percorsa l’isola in lungo ed in largo, bisognava pur pensare alla dipartita; era però cosa più presto detta che fatta, colle difficili comunicazioni che vi sono, poichè pel piroscafo era d’uopo attendere ancora tre o quattro giorni difficili ad impiegare, e per altro mezzo di trasporto bisognava affidarsi ad un’occasione propizia. Per mia buona ventura si presentò ben presto non già per Corsica, ma per Santa Teresa, ove mi si diceva avrei trovato facilmente passaggio per lo stretto. Era una barca peschereccia montata da quattro robusti marinaj, e migliore congiuntura di questa non mi poteva capitare, poichè mi dava agio a vedere da vicino le altre isole e la costa, per cui subito ne profittai.

DA LA MADDALENA A SANTA TERESA

Ben provvisti di cibi e bevande, si salpa di buon mattino lasciando Maddalena con vento fresco. L’opera dei remi diventa presto inutile, e spiegando la vela e i fiocchi, in breve ora valicato il piccolo braccio di mare che ce ne separa, approdiamo all’isoletta degli Asparagi, ove ci raggiunge un’altra barca di pescatori, e ci disponiamo all’ asciolvere piantando sugli scogli il nostro provvisorio accampamento. Dei marinaj, alcuni hanno in breve attizzato il fuoco per cuocere il pesce, altri raccolgono telline, castagne ed altri frutti di mare da mangiar crudi. Da buoni fratelli si dividono le provvigioni, e si appagano le strette dello stomaco che con quell’aria marina si facevano sentire prepotenti.

I barchi colle vele e le orifiamme variopinte cullantisi sulle onde, la pentola borbottante sul fuoco che innalza dense colonne di bianco fumo, i gruppi animati dei marinaj dalle robuste membra e dai visi adusti dal sole, gli acuti, bizzarri scogli che ci fanno corona, formano un quadro degno soggetto di buon pennello.

L’isola degli Asparagi ha tutt’all’intorno una scogliera granitica con vene di anfibolite, irta, nuda, ma in mezzo a guisa di conca racchiude un piano abbastanza vasto e fertile, con buona acqua potabile, ove vive un pastore colla sua famiglia, e vi coltiva grano e viti, e vi alleva bestiame grosso e minuto. Questo pastore, già bandito, ora se ne vive costì quasi piccolo sovrano come quello di Tavolara, e vi fa anche buona caccia di pernici e beccaccie che vi abbondano. L’isolotto sarebbe un piccolo eden se non vi crescesse un’erba velenosa detta ferula che riesce micidiale per gli animali che se ne pascono.

Vicinissimo agli Asparagi é il grosso scoglio detto lo Spargiotto, e a circa un’ora al nord, il gruppo delle tre isole che i Romani conoscevano sotto il nome di Cuniculariæ: Budelli, Razzuoli e Santa Maria. Queste tutte insieme all’isola della Presa ed ai tre Barattini formano, con Maddalena, Caprera, San Stefano e la Moneta, un vero piccolo arcipelago. Budelli nuda ed incolta non merita menzione speciale. Razzuoli ove prospera l’agaccio o ginepro di Fenicia porta un faro, è abitata dalla famiglia che lo custodisce ed offre delle forme assai singolari di granito che va decomponendosi collo sbatter dell’onde. Santa Maria infine la più bella delle tre, benchè granitica anch’essa come le altre, ha buon terreno coltivabile abbastanza piano, nel centro un piccolo lago pescoso, e caccia varia, specie di conigli selvatici. Vi abitano alcune famiglie che vivono di pastorizia e cacciagione e coltivano qualche vite.

Rinfrescando il vento, si levan le tende dagli Asparagi, si mette quindi alla vela e si continua il viaggio.

Dopo il Capo dell’Orso, la costa della Madre Isola forma la punta di Stropello, la più vicina a Maddalena, apronsi poi l’una all’altra susseguenti a brevissima distanza, le tre piccole insenature dette porti; Pollo, Liscia e Puzzo. Quest’ultimo che stretto s’interna assai nelle terre formato da una lunga lingua; quello di Liscia più largo e tondeggiante di coste, ove ha foce il Rio dello stesso nome che scende dai Monti di Utana attraversando buona parte della Gallura; Pullo finalmente minore degli altri, ingombro da isolette. Son tutte coste pittoresche, ma spopolate e poco coperte di vegetazione comecchè vi abbondino le roccie granitiche.

Toccasi quindi lo scoglio della Marmorata e la punta dello stesso nome, ed oltrepassata l’altra del Falcone, mostransi dall’alto le case del villaggio di Santa Teresa, altre volte chiamato Longon Sardo. Nel piccolo golfo che s’appella dal villaggio approdiamo e salgo la contorta viottola che vi conduce.

Qui giunto, sento che un legno è pronto alla partenza per Bonifacio in Corsica, e mi dispongo quindi a salirvi; ma intanto che si fanno gli apprestamenti, e vidimare il passaporto pello Stato di Francia, il vento già abbastanza forte, rinforza ancor più, e non è prudente lo avventurarsi al passaggio sempre difficile delle bocche. Si procrastina adunque aspettando il tempo propizio, e trovo una discreta locanda con pulita camera ove istallarmi.

SANTA TERESA

Santa Teresa è villaggio di recentissima fondazione, essendosi cominciato a costruirlo nel 1810, nel luogo istesso ove altre volte esisteva Longon Sardo, per cui le sue case son tutte nuove, molte nuovissime. Sorge sopra un’ eminenza rocciosa, ha vie larghe, rette, ampia e quadrata piazza, case alte alcune assai bene e solidamente costrutte che sembran palazzi. Vi mette capo la strada che conduce al capoluogo di Gallura, Tempio.

Gli abitanti, ora circa mille ottocento[11], sono in continuo aumento; si occupano in parte di agricoltura, coltivando grani, viti, ulivi, in parte di trasporti di mare con varj legni mercantili però di tenue stazzatura atti al piccolo cabotaggio, specialmente con Corsica, colle coste della penisola ai porti di Genova, Livorno, Civitavecchia e con quelle di Francia a Marsiglia e Tolone.

Vi risiede un console francese, vi sono scuole discretamente frequentate; vi si educa una quantità grande di polli e galline come a Maddalena, dei quali e delle uova si fa discreto commercio di esportazione.

Vi hanno due mulini a vento ora però abbandonati, dopo il sorgere di due a vapore, che macinano grano fino per Tempio.

Da tutto ciò si vede che la popolazione è svegliata, e risente il contatto dei paesi più inciviliti; poco ha del sardo, nemmeno la lingua ed il vestire.

Sopra un promontorio che si protende in mare, sorge un’ antica torre pisana, grossa, massiccia, rotonda; dagli spalti di essa si gode stupenda vista sul mare, sulla Corsica e sul vicino Capo della Testa, unito a terra da piccolo istmo ed ove sta un faro.

Il vento continua da ponente-libeccio, contrario quindi al passaggio dello stretto; anzi nella notte si fa gagliardo ed impetuoso in modo da togliere affatto ogni pensiero di mettersi in mare. Conviene adunque attendere che Eolo voglia rabbonirsi e sospendere il soffio, e gonfiare invece le gote da mezzodì-scirocco per esserci favorevole.

Impiego il mio tempo di forzata sosta nel visitare i vicini santuarj di Santa Reparata, e di Nostra Signora di buon Cammino, il primo sull’istmo che unisce Capo Testa, l’altro sulla strada di Tempio; nell’osservare minutamente il golfo, specie di porto naturale che offre ottimi rifugi per bagno quasi fossero all’uopo disposti, e le rovine medioevali di vasto castello che ne guardava l’imboccatura; nel vedere i mulini a vapore, la torre pisana, nel conoscere varie ed ottime e gentili persone fra le quali il sindaco che mi è prodigo di ogni cortesia.

Il continuo spirare del vento, che qui domina sovrano, mi mostra essere il villaggio edificato in località forse troppo esposta; e valga il vero, gli olivastri sparsi per la campagna, si sono tutti piegati verso il sud, in modo che le loro frondi quasi toccano terra, ancorchè alto sia il loro fusto.

Dopo due giorni finalmente di attesa, si leva leggera una brezza di scirocco che ci promette di lasciarci salpare per Bonifacio, e diffatti con una paranza il facciamo.

[1] Col censimento 1871 conta abitanti 10,096.

[2] Chiamansi stazzi nel dialetto del luogo anche le capanne dei pastori negli Abbruzzi.

[3] Mantegazza. Opera succitata, cap. I, pag. 57.

[4] Spano. Opera succitata, pag. 184.

[5] Il censimento del 1871 gli assegna una popolazione di 2862 abitanti.

[6] Spano, opera succitata, pag. 183.

[7] Il censimento 1871 novera 2386 abitanti.

[8] Spano, opera citata, pag. 168.

[9] Censimento 1871, abitanti 1914.

[10] Valery, Voyage en Sardaigne, voi. 2, cap. 2, pag. io.

[11] Censimento 1871, abitanti 1726.

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