VI.2 – L’ora del trapasso

di Maria Azara

Si muore, come si sa, a tutte le ore anche in Gallura. Ma là quando si è perduta la speranza che l’ammalato si salvi, se ne attende la fine all’alba o alla sera tardi. Se, poi, ha ricevuto l’estrema unzione, si ritiene che l’ammalato debba morire dopo ventiquattr’ore da quella in cui gli è stato somministrato il Santo Sacramento.

Quando l’agonia è lunga, i parenti, per abbreviare le sofferenze del moribondo, ricorrono agli scongiuri. Ottimo mezzo è quello di mettere sotto il cuscino un pettine oppure un juali (il giogo che si mette sul collo dei buoi). Tanto l’uno quanto l’altro oggetto, perché considerati quasi sacri, non devono essere mai bruciati.

Se il moribondo tarda ad esalare l’ultimo respiro (si è malu a muri) è segno che deve avere, sia pure involontariamente, bruciato uno dei due oggetti; e allora, perché questa specie di pena cessi, basta avvicinare alla testa o al collo del… presunto colpevole uno dei due oggetti in stato di integrità.

Il Professore Marielli, per il quale il rimedio consiste, invece, nel bruciare lu juali, nel rispondere tanto gentilmente al mio questionario, dopo aver accennato che non ha trovato una vera ragione di tale credenza, prospetta questa interessante e originale ipotesi. «Il presupposto si trova nel rapporto analogico che sta tra la vita e il giogo. L’una e l’altro congiungono due elementi (dissimili, se vogliamo, in quella, simili invece in questo); l’una e l’altro, con la forza che congiunge, impongono la funzione, e la coppia schiava e obbediente, osserva il comando.

In coordinazione del presunto sta una identità di fatto: brusciatu lu juali, gli elementi accoppiati si scindono, e spariscono “ex abrupto” la funzione e l’unità similmente, con lo spegnersi della vita, corpo e anima si separano, e dell’essere non rimane che materia inerte, destinata a dissolversi in polvere, come lu jali brusciatu.

Per giustificare la credenza popolare occorrerebbe a questo punto dimostrare che, dati il rapporto analogico e l’identità del fatto, lu juali sia stato prescelto a simbolo della vita: onde la distruzione dell’uno, secondo forme rituali e preghiere, debba produrre la fine dell’altra.

La conclusione, finisce il prof. Marielli, sembrerebbe audace e fantastica, anche perché nulla si trova al riguardo nelle opere del Savnier e di altri specialisti francesi intorno alle leggende dei simboli filosofici, religiosi e massonici».

Ho letto su qualche libro [205] che in questi casi si ricorreva alle aggabbadori o accabbadores (accoppatrici), cioè a donne specializzate nella trista bisogna di finire il moribondo con un colpo di mazzucca (mazza) sulla testa, oppure stringendolo al collo, mentre tutti i presenti uscivano dalla stanza.

Devo escludere assolutamente che un simile uso esista attualmente; e, per la Gallura, escludere anche che sia esistito in tempi relativamente recenti.

Perfino i più vecchi, interrogati al riguardo, hanno dichiarato non solo di non aver mai assistito a simile atto ma neppure di averne sentito parlare dai propri genitori. Solamente qualche persona colta ha risposto di avere notizia di questo uso ma unicamente per averlo appreso, al pari di me, dai libri. Può darsi, quindi che, in tempi remoti, un siffatto uso sia esistito e che sia, poi, totalmente scomparso. Non ho fatto particolari indagini al riguardo ma, attenendomi alle risposte dei cortesi informatori della Gallura, potrei quasi dire che l’uso sia scomparso anche dalle altre regioni della Sardegna (206).

(206). È pure scomparso l’uso di l’ammentu (ricordo) che è così descritto nel volume di PINNA Ofelia (Riti funebri in Sardegna, Sassari 1921, pag. 11): «Negli stazzi della Gallura, quando l’infermo era per entrare in agonia, uno dei parenti più anziani, o anche un estraneo, che avesse facilità di parola, giacché non sempre si poteva trovare un sacerdote, cominciava l’ammentu. Passava allora nella camera triste la voce che esortava quelli che piangevano intorno, a perdonare il morente, ed egli sentiva quella voce che parlava a lui di pace, di rassegnazione, di oblio delle cose del mondo di pianure ridenti dove il verde non muore, di primavere eterne, di spirituali feste di amore. Ricordati! Ricordati! gli si gridava – tu partirai fra poco – chiama il Nazareno della Croce – percorrerai un aspro cammino – chiama la Madre sua chiama i santi e gli angeli. Nel trionfo delle cose immortali troverai le tue opere buone – Guarda il cielo, vi salirai tra breve ora».

È scomparso anche l’altro uso accennato dalla PINNA, (op. cit., pag. 11) di segnare per tre volte il moribondo con la candela accesa.

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[205] Cfr. PINNA O., Riti funebri in Sardegna, Sassari 1921 pag. 26; BRESCIANI A., op. cit., vol. II pag. 293; CALVIA G., Usi funebri di Mores (Logudoro), in «Rivista per lo studio delle tradizioni popolari», 1894, fasc. XII, pag. 949; LA MARMORA A., Viaggio in Sardegna, Cagliari 1926 pag. 216 segg.: FERRARO G., Feste sarde sacre e profane. Usi e costumi, in «Giornale Linguistico», anno XX, gennaio 1893, fasc. I; ANGIUS V., Lettere al gazzettiere di Cagliari sulla nota 3 del n. 39 dell’«Indicatore sardo» sulle donne accoppiatrici, Torino, 1837; ANGIUS V., Lettera seconda all’estensore dell’«Indicatore sardo» sulla questione delle donne accoppiatrici, Cagliari, 1838; PASELLA, Risposta alla lettera 1 sulla nota 3 dell’«Indicatore sardo», Torino, 1838.

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