Nozze pastorali

di Francesco De Rosa

    Diverso dai paesi è il modo con cui contraggono le nozze i pastori, tra i quali gli amori avvengono nel modo più semplice e patriarcale che si possa immaginare.

    Il pastorello che si sente affascinato dalla bellezza o dalle grazie comuni di qualche eventuale campagnola si siede a poca distanza dalla fanciulla amata e le tira sassolini o fuscellini che quella coglie e tira a sua volta al giovane se questo gli piace («va a sangue»), o getta lontano, tirando invece dei moccoli al suo indirizzo, se di lui non vuol saperne, facendolo smettere.

    Quando il ragazzo è persuaso di essere riamato ne fa parola ai suoi genitori, i quali, se, come d’ordinario avviene, non si oppongono ai naturali impulsi del suo cuore, mandano una persona di famiglia, o un fidato amico, a chieder la mano ai genitori della ragazza. Nel caso di risposta affermativa, si fissa un giorno per il fidanzamento (gli sponsali), nel quale il giovane accompagnato dai più stretti parenti, si reca dalla sua promessa, a cui dà il primo bacio d’amore e le fa il donativo di vari anelli, di pendenti, di spilloni e d’altri oggetti d’oro: donativo indispensabile, dal cui valore si desume la considerazione in cui è tenuta dai parenti del giovane la ragazza, e che rappresenta il prezzo con cui veniva e viene tuttavia pagata dai popoli orientali, da cui i Sardi discesero, una vergine da marito.

    Prima di far ritorno al proprio stazzo, il promesso sposo fissa, d’accordo dei parenti della fanciulla amata, il giorno del matrimonio e si fa l’elenco delle persone che approssimativamente potranno essere invitate da entrambe le parti, perché si possa per tempo preparare cibo abbondante per tutti.

    Qualche settimana prima del matrimonio, le famiglie dei fidanzati invitano i parenti e gli amici, vivamente raccomandandogli di non mancare alla cerimonia, a scanso di risentimenti, e tanto più calda è la raccomandazione dei genitori dello sposo, in quanto che dal numero di coloro che vorranno onorarlo, dipende la maggiore o minore somma che sarà, come vedremo, donata alla sposa.

    La sera precedente il matrimonio il giovane, accompagnato dai parenti e da coloro che risposero all’invito, va a prendere la sua promessa per andare coi suoi al villaggio dove dovrà celebrarsi la funzione.

    Giunti in vista dello stazzo del futuro suocero, fanno una scarica, alla quale ne risponde un’altra da parte di quello; la prima in segno che lo sposo sta per arrivare; la seconda che egli è il ben venuto.

    Al tempo stesso la promessa sposa viene con altre donne rinchiusa in una stanza e vestita coll’abito di nozze, tutto ornato di cordelline di seta a vari colori, che le piovono dal collo, dalle spalle, dal petto, dalla cintura e dagli sparati; cordelline di cui s’adornavano le spose degli antichi Egizi, come emblemi d’amore e quelle degli Etruschi e dei Pelasgi, come apparisce dalle loro dipinture e scolture nuziali, in cui i geni alati, che presiedono agl’imenei, presentano alle spose delle fettucce per adornarsene.

    Gli uomini stanno fuori schierati e seduti. Arrivata la comitiva, si fa avanti lu raxunanti, il quale non è altri che l’antico pronubo rappresentatoci con le divinità di Giunone, Tellus, Cere o da altri auspici, per far la richiesta (la pricunta), a cui risponde un altro raxunanti, intavolando un dialogo nel quale la ragazza viene simboleggiata in una bandiera, in una rosa, in una giovenca, ecc. e il suo promesso in un tempio, o giglio, o colombo, o torello. Quest’ultimo modo ha del biblico; giacché Sansone raffigurò in una vitella la sua sposa.

    Riportiamo una di queste pricunta alla quale ho assistito.

    – Ben arrivati, gli ospiti.

    Ben trovati.

    – Che buon vento v’ha portato da queste parti?

    Ci ha mandato il tal dei tali a comprare la vostra bandiera.

    – Che diavolo ne fa della mia bandiera?

    Gli si è ammalato il figlio per grave malore al cuore, e l’hanno consigliato, se ha cara la sua vita, di tener presso il suo letto la vostra bandiera, la quale ha fama di possedere, per tali malattie, mirabili virtù.

    – Deve sapere il vostro uomo che, se la mia bandiera è tale da guarire ipsofacto il figlio, è pur quella che tiene allegra e contenta la mia vita, e che perciò non è possibile che io me ne privi.

    Trattandosi di salvar la vita ad un nobile e virtuoso giovane, qual è il figlio del nostro mandante, voi, che pur siete padre e possedete un cuore eccellente, non vi mostrerete restio alla nostra richiesta.

    – Che cosa intende offrire per aver la mia bandiera?

    Sul prezzo, chi ci ha inviato, non lesina niente. Voi potete dettare le condizioni che più vi piacciono, fissare il prezzo che più vi aggrada. Considerate pure che egli non si tirerà indietro, gli costasse pure un occhio.

    – Poiché ha saputo stimar quanto vale la mia bandiera, io non voglio mostrarmi meno ragionevole di lui. Dia quel che vuole e come vuole. Ciò che darà n’andrà a beneficio della sposa, anzi, dirò più, degli sposi.

    L’avevamo detto noi, che avete un cuore d’oro!

    – Piano! Conoscete voi la mia bandiera?

    Certo non abbiamo avuto la fortuna di vederla mai! Ma è tale la fama della sua bellezza e magnificenza, che sapremo distinguerla fra mille.

    – Ed io ve la presenterò tra due altre. Se voi riuscirete a distinguerla di primo acchito dalle altre due, la bandiera sarà vostra; in caso contrario resterà con me e per sempre. Che ne dite?

    Accettiamo volentieri. Non è possibile sbagliare.

    L’oratore della fanciulla entra nella casa dello stazzo, dov’essa sta rinchiusa con altre donne, e la fa venir fuori accompagnata da altre due: quindi, presentandola alla brigata del giovane fidanzato, dice:

    – Qual è di queste la bandiera che cercate?

    L’oratore dello sposo s’avanza, prende per mano la fanciulla promessa e la consegna allo sposo, che l’abbraccia e la bacia.

    – Buon pro vi faccia, dice l’oratore di questa, con le quali parole termina la pricunta.

     La pricunta era in uso presso i Franchi (Cantù, Storia Universale, vol. IV, lib. VIII, cap. 15). Per altro essa ci ricorda il dialogo di Eliezer con Habano e Batuele, quello di Giuseppe coi fratelli captivi, ed altre bibliche espressioni.

     Le donne intanto danno mano a preparare la cena e gli uomini si portano al bersaglio, al quale prende parte la sposa tirando, fra le acclamazioni degli astanti, il primo colpo.

    Tornati allo stazzo siedono a mensa gli uomini che accompagnarono lo sposo i quali devono essere serviti da quei della sposa. Portate le vivande in tavola, prima di dar mano ai cibi si alza il vate, il quale, tenendo in mano una tazza ricolma, improvvisa un caldo augurio di amore, augurando agli sposi lunga e prospera vita, giorni pieni di pace e di perenne contentezza – proprio come si fece alle nozze di Megapente, figlio di Menelao, in cui tutti Rallegravansi assisi a lauta mensa mentre vate divin fra lor cantava.

    Più tardi si dà principio ai balli tradizionali, che per tutta la notte fervono animati, non interrotti che dai canti degl’improvvisatori e dai giochi di sala. Non mancano i buffoni – ultimi rappresentanti dei giullari del medio evo – i quali con la loro spiritosità, coi motti pungenti e pieni di finezza letteraria arguta (“sale attico”), divertono non poco la brigata. Nessuno dorme in quella notte, dedicata all’allegria e ai passatempi.

     All’indomani, verso le otto, gli uomini montano sui loro cavalli mettendo in groppa le loro dame, e fra esse la sposa, che viene portata da un prossimo parente, e tutti s’avviano al paese. Un altro parente della donna, colui che inforca il miglior cavallo, riceve in consegna la conocchia – simbolo di laboriosità e d’economia domestica – tutta ornata di nastri, che egli impugna come trofeo nella mano destra, vantandosi d’esser stato prescelto: gli altri lo inseguono e tentano di strappargliela di mano: ché il far ciò dà grande onore e arreca invece vergogna al vinto. Per lo più la conocchia si affida a colui che l’ha conquistata alla corsa a cui hanno partecipato i migliori corridori.

     La cerimonia della conocchia ci ricorda quella presso i Franchi, per la quale i genitori della sposa ricevevano il giorno delle nozze a piè dell’altare una conocchia, cui porgevano alla figlia, che ne traeva qualche filo a indicare il lavoro a cui sentivasi destinata (Cantù, loc. cit.). Anche i Greci e i Romani portavano la conocchia e la spola dinanzi alla sposa.

     Arrivati al paese smontano in casa d’un amico, legano i cavalli e si recano alla parrocchia dove deve contrarsi il matrimonio.

    Quindi tornano dall’amico presso cui è stato preparato un piccolo ricevimento, rimontano a cavallo e si recano allo stazzo dello sposo, accolti dai genitori di lui che fanno gli onori di casa. Lungo la via si rincorre di nuovo il portatore della conocchia.

    Appena smontati, la sposa s’avanza fra due altre giovani, delle quali una tiene fra le mani una custodia. Allora coloro che restarono in casa l’abbracciano e la baciano per primi, ponendo nel vassoio una moneta di dieci lire, o sul capo di lei un fazzoletto di seta. Poi l’abbracciano e la baciano quelli della compagnia, gettando, quelli della parte dello sposo, ognuno cinque lire nel vassoio. Finito il baciamento, la giovane che teneva il vassoio conta i denari e li consegna alla sposa, che a sua volta li rimette al marito riconoscendolo, con tal atto, come suo signore.

    Di nuovo si tira al bersaglio dalle fazioni opposte degli sposi, le quali si contendono la palma della vittoria: la sera vi è la cena, a cui siedono per primi quelli dello sposo, che vengono serviti da parenti della sposa.

    Un brindisi dà il segnale di buon appetito. Il vate augura agli sposi una numerosa figliolanza – ché ciò presso i pastori, come presso gli antichi Ebrei, è la cosa più ambita: perché dal numero dei figli viene calcolata la potenza e l’influenza d’una famiglia sulle altre e perché i figli sono quelli che fanno rispettare e stimare i genitori, di cui devono perpetuare il nome e non già i beni che sono provvisori.

    Tanto nello stazzo dei genitori della sposa che in quello dello sposo si avvia, tra quelli che siedono e coloro che servono a tavola, un dialogo scherzoso: gli uni disprezzano le vivande e i vini che vengono portati in tavola; gli altri rinfacciano ai primi la loro ingordigia e golosità: durante il dialogo per tutto il pasto, si lanciano a vicenda motti pungenti ed acerbe satire: proprio come gli Ateniesi solevano fare nelle pubbliche adunanze. Perciò nessuno s’offende o mostra di offendersi: far ciò sarebbe ritenuto da tutti inopportuno e disdicevole all’allegra compagnia e perciò fortemente biasimato.

    La cena termina con un altro voto nuziale con cui si augura ai giovani e alle fanciulle che vi hanno preso parte di trovare una moglie e un marito degni di loro e tali da renderli felici.

    La notte poi si succedono canti, suoni, balli, versi, buffonate, fra le quali quella di attaccare campanelle e ciondoli al letto coniugale: cosicché gli sposi, prima di coricarsi, guardano diligentemente se lo scherzo ha avuto luogo per togliere gli oggetti che potessero rendere gli altri avvertiti dei loro amorosi assalti.

    Il giorno seguente partono i parenti e gl’invitati e tutto ricade nella tranquillità consueta.

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