Pasquetta e scampagnate di primavera

di Francesco De Rosa

    Nel lunedì, dopo Pasqua di Risurrezione, i paesi si spopolano per recarsi a far delle scampagnate, gli agricoltori per visitare i loro seminati e cullarsi della speranza d’una larga raccolta, gl’impiegati, gli operai e i buontemponi in riva al mare, alle chiese campestri, o agli stazzi vicini.

    Le famiglie che si recano fuori, invitano gli amici, e se hanno fanciulle da marito, invitano quei giovanotti che non sdegnerebbero accogliere in casa in qualità di generi: se poi invitano delle fanciulle, non dimenticano certo i loro innamorati. Le donne e i fanciulli vengono condotti sui carri al luogo stabilito e gli uomini vi vanno pedestri o a cavallo. Ivi giunti, primo pensiero del capo della brigata è il pranzo.

    Viene acceso un bel fuoco, si mettono fuori dalle ceste padelle, casseruole e tegami ed in ciascuna si prepara una data pietanza, sia di lesso, di manicaretti o d’altro. Intanto in lunghi spiedoni di mirto, lì per lì preparati, s’infilzano mezzi capretti, o agnelli e interi porchetti, che vengono a fuoco lento accuratamente arrostiti.

    Gli agricoltori vanno intanto a visitare i frumenti e gli orzi, per vedere se promettono o no un buon raccolto, e siccome fino a quel giorno le biade si mostrano solitamente lussureggianti, la speranza si dipinge, nell’osservarli, sul viso di tutti, per cui non c’è nessuno che non manifesti la sua gioia o cantando, o danzando o suonando, o correndo, o saltando, o facendo capitomboli, piroette od altri esercizi.

    Non appena il pranzo è pronto, il capo comitiva ne dà l’avviso. Allora tutti corrono a prender posto intorno ad una lunga tovaglia, che ricopre un verde e soffice tappeto di fresche erbette o di asfodelo, sulla quale vengono disposti i piatti, le posate, i bicchieri, le salviette, e bottiglie e fiaschi a profusione. Qualche volta il piatto è uno solo per ciascuna pietanza e, un tempo, solo il tagliere serviva per tutte le pietanze, meno che per il brodetto, la minestra o altri intingoli. Ciò non impedisce, né impediva, che le pietanze venissero mangiate col maggior gusto del mondo, dacché non vi faceva difetto la salsa migliore, che è l’appetito, aguzzato dall’aria ossigenata della campagna e dal continuo movimento. Alle vivande succedono latte agro («ossigala») e le caciotte di formaggio («caciòle»), che come le prime vengono divorate non appena appaiono sulla tavola. Queste e quella vengono normalmente portate dai pastori che scendono dagli stazzi per unirsi alla lieta brigata. Del vino se ne beve più del solito, per cui, se non ebbri del tutto, certo i più fanno ritorno al paese almeno alticci.

    Dopo pranzo si suona, si canta, si balla, si va a spasso per i campi, correndo, saltando, mangiando erbette commestibili e fresche. E molti fanno l’amore sdraiati sulla terra fiorita e sotto il cielo, così concependo nuove vite[1].

     Anche i Greci usavano tali campagnate, portando ciascuno la sua porzione di vitto, il che dicevasi ferre symbolam, e a chi v’andava a mani vuote davano l’appellativo di symbolos, che corrispondeva all’immunis dei Latini.

     E così, per tutta la primavera, quando la campagna, coperta di prato verde rivestito di variopinti fiori che spuntano ovunque a mille a mille, invita alle passeggiate e a sedervisi sopra, i giovani e le ragazze, i fanciulli e le bambine vi si recano insieme a squadre per mangiare, rincasando poi con fasci d’occhio bovino, d’ammi, di mergo, di rindomolo, d’acetosella, d’aglietto, di cardi, di vicie, di cicerbita ecc., altresì raccogliendo fiori che infilzano in lunghi giunchi, formando ghirlande, collane, sciarpe, cinture, braccialetti, corone e mazzetti per ornarsene la testa, il collo, il petto, la vita, le braccia e le gambe. Carichi in tal modo di fiori da testa a piedi, si stringono in circolo e ballano una danza mistica tutta a salti con fragorose grida di gioia. Infine, ognuno prende il suo fascio d’erbucce che portano in braccio o sulla testa trionfalmente in paese.

     Questa usanza giovanile ci ricorda in qualche modo le feste ilarie, le ambarvali, le fiorali, le adonie, le fontanili, le cereali, le faunali, le majunna, ecc.

    ————————————————————————————————————————————————————————————–

    [1] Così il testo originale: «Molti imitando gli uccelli svolazzanti sui folti ombrelli degli alberi e sui fioriti rami dei cespugli o rincorrentisi saltellando per terra, adempiono il più grande decreto del creato, la propagazione della specie, fanno talamo dell’alma terra, ammantata a festa e ricoperta dal più bello e immenso padiglione, il firmamento, uniscono, avvinti in dolce legame d’amore le loro anime. Verso le ore cinque tutti fanno ritorno al paese, suonando, cantando e lanciando tratto tratto al corso i buoi e i cavalli».

    Condividi Articolo su: