Poesia tradizionale e improvvisatori

di Francesco De Rosa

La storia degli improvvisatori si perde nei secoli.

Il primo canto improvvisato fu il salmo Bonum est confiteri in Domino di Adamo e dopo lui simili improvvisazioni fecero Abramo e Giacobbe, se è vero che essi, come affermano alcuni rabbini, sono autori d’alcuni salmi. Un cantico improvvisò Mosè dopo il passaggio del Mar Rosso, per ringraziamento al Dio liberatore del popolo d’Israele, e cantici per lo più improvvisati erano i salmi di Davide e le profezie dei Veggenti d’Israele e improvvisati furono i cantici di Zaccaria, della Vergine e di Simeone.

Fra i Greci erano comuni gl’improvvisatori e noi li troviamo nella casa di Penelope a rallegrare le cene dei Proci coi loro versi inspirati, e dallo stesso Omero sappiamo che Ulisse ed Agamennone prima di partire per la guerra di Troia lasciarono nelle case loro dei cantori, i quali, da quanto si può supporre dalla speciale missione che avevano di ammaestrare e mantenere gli uomini nella virtù, la facevano da aii o da pedagoghi nelle famiglie, segnatamente lungo l’assenza dei loro capi.

Dalla Grecia questa specie di cantori, quando non vi siano passati prima con le migrazioni cananitiche, trasmigrarono nell’isola e specialmente in Gallura fino dal tempo della venuta dei Focesi in Olbia: poiché allora, come fino alla metà di questo secolo, i Galluresi tenevano aperte scuole, o palestre, dove si esercitavano i giovani nell’arte sacra ad Apollo.

Fu in una di queste scuole che insegnò il poeta L. Ennio, il quale fra gli altri giovani aveva carissimo Foceno e probabilmente nella stessa apprese l’arte divina delle Muse, Tigellio, amato da Cesare, Cleopatra e Ottaviano, detestato e al tempo stesso ricercato da Cicerone e invidiato, per la sua facilità nel verseggiare, dallo stesso Orazio.

Come presso i Greci vi erano i cantori dell’agnello, gli anfizioni nei loro certami (vedi Egloga III di Virgilio, i Buccolici cantori di Teocrito e l’Egloga III del Sannazzaro) e presso i Latini gli improvvisatori campestri, così in Sardegna specialmente fra i pastori e gli agricoltori, fin dai tempi di Foceno e di Tigellio erano in uso le poetiche gare (disputa), nelle quali due o più improvvisatori entrando in lizza si disputavano la palma della vittoria.

La palestra poetica più antica, della quale si è serbata memoria, se vogliamo prestar fede a uno di quei così detti fogli cartacei che fanno parte della pergamena d’Arborea[1], è quella alla quale presero parte quattro improvvisatori del Logudoro (Locu dictu de oro) chiamati da certo Circerio sullo scorcio del secondo secolo dell’era volgare a Usellus, nella cui colonia dimorava il procuratore imperiale di Diocleziano, Marco Ticino, per sollevare l’affranto spirito di costui, cantando in lingua vernacola in modo perfecto ipsa virtute de Ardena e lo bisu de Benus. Marco, oltremodo soddisfatto, offrì ai cantori alloggio e protezione. Invitati in seguito a cena dai servi del procuratore e pregati, dopo aver cenato e bevuto, a cantare, presero a celebrare, con ispirati e robusti versi, le antiche vittorie dei Sardi, ottenute 500 anni prima sugli invasori dell’Isola, quindi la vittoria dei Romani sopra gl’isolani, sui quali trionfarono, non per proprio merito, ma per la frode commessa a danno del forte duce Corelio. I Romani, che erano presenti, offesi nel loro amor proprio, avrebbero voluto rintuzzarne l’orgoglio; ma paventando lo sdegno di Circerio e di Marco Ticino, si limitarono a dar loro la berta, dicendo, fra i lazzi e le risa, che i loro canti non erano inspirati dal divino Apollo, ma de bino de creka, cioè dal vino di bettola; aggiungendo allo stesso tempo che i cantori erano uomini di selva e di montagna.

Uno di costoro ne rimbeccò i rimbrotti così cantando:

Sardos semus umiles,

Belveces pascimus omnes,

Per alios in monte

No bivimus omnes,

Qui horrida tempestate

Et ventos super habemus.

Nec coelum plus ardente,

Nec frigida nive timemus:

Cuntentos et beatos

In nostro istamus ovile,

Iupter nec alios

Dios timemus iratos:

Mors timeant homines

Ab homine crimine natos

Anche oggi come nei tempi passati è divertente assistere alle gare poetiche.

Quando il tema non viene indicato dalla circostanza o dal dover onorare un ospite o la bellezza d’una fanciulla, o da qualche fatto o connessione di fatti o da altro che sia tale da suscitare alla mente degli improvvisatori il motivo intorno a cui si deve o può aggirare il loro poetare, uno di essi propone il soggetto; l’altro mostra di accettarlo o rigettarlo, oppure lo modifica a suo modo; un terzo si avanza a sostenere le parti dell’uno o dell’altro o a far da mediatore o paciere; poi un quarto entra a difendere colui che viene attaccato dai due avversari, e così le parti diventano pari; oppure non dà ragione né all’uno, né agli altri, ma cerca dar diverso svolgimento al tema portando gli altri per la stessa via.

Ognuno di essi cerca di solito di mettere in rilievo la propria bravura, affermando d’essere il discepolo prediletto delle Muse, il sacerdote caro ad Apollo, il solo che possa sostenere con abbondanza di argomenti e con logica stringente e facilità d’eloquio il tema proposto, cercando al tempo stesso di abbassare e talvolta denigrare con ignominiosi o ridicoli epiteti gli avversari, o a burlarsi di loro rimproverandoli della loro temerarietà per essersi voluti misurare con lui. Coloro che sono presi di mira da questi pungenti attacchi cercano di restituire pane per focaccia e persuadere l’avversario che egli non è che un misero poetastro dalla voce di cornacchia e abbandonando la rima serrada, l’ottava e la novena, si valgono delle mode (versi leporiani) variamente cantate, incitando lo spavaldo a seguirli o a darsi per vinto.

Quando alla gara poetica partecipano provetti improvvisatori, non c’è persona che assistendovi non resti assai meravigliata nell’udire con quanta prontezza, senza accordare un solo minuto di tempo alla riflessione, imbroccano una questione o sostengano una tesi, per quanto ardua essa sia, oppure rispondano all’avversario. Il quale il più delle volte, senza che l’altro abbia pur anche terminato d’esprimere l’ultimo verso, anzi da questo prendendo per lo più occasione di dar principio o materia al suo canto, dà la stura ai suoi versi con tale rapidità di pensieri, fluidità di parole, abbondanza di frasi, eleganza di forme, unità di periodo, correttezza di dettato, cospargendo il tutto di motti leggiadri, di sali attici, di gravi e appropriate massime, da incantare chiunque li ascolti. Motivo per cui, quando tali gare avvengono di notte, l’uditorio s’affolla di gente, di cui la maggior parte rimane in piedi, restandovi fino a tarda notte e spesso fino all’alba, dimentichi spesso del cibo e del riposo.

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[1] Quanto di seguito riportato, essendo stato poi provato che le pergamene d’Arborea rinvenute nell’800 erano dei falsi (oggi sono conosciuti come i cosiddetti “Falsi d’Arborea“), va perciò considerato come non veritiero da un punto di visto documentale

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