Contro una pregiudiziale

di Silla Lissia

 Prima di passare allo svolgimento delle singole parti in cui si divide questo libro, è necessario sgombrare il terreno da una pregiudiziale, che toglierebbe in gran parte la ragione di essere a questi studi. Poiché infatti questi studi devono infine metter capo ad uno scopo pratico, questo scopo verrebbe a mancare se fosse vera la pregiudiziale che viene posta da un giudizio espresso alcuni anni fa dal Niceforo nel suo libro La delinquenza in Sardegna. In questo libro, che a suo tempo ha fatto molto rumore ed ha suscitate polemiche vivaci non sempre intonate a severità scientifica e spesso fuorviate da un cieco spirito di campanile, il Niceforo ha affermato che il popolo sardo è un popolo arrestato nel suo sviluppo ed incapace di progresso.

Sono evidenti le conseguenze pratiche che scaturiscono da questo giudizio. Se il popolo sardo non ha la capacità di progredire e di migliorarsi è inutile occuparsi del suo avvenire. Anzi è bene abbandonarlo interamente a sé stesso perché naturalmente finisca tra le sue impotenze morali ed i suoi truci delitti. Pertanto ci si impone la necessità preliminare di vedere quanto fondamento di verità sia nel giudizio espresso dal Niceforo e se esso sia la conseguenza logica di verità scientifiche indiscusse ed indiscutibili e di osservazioni di fatto esatte.

Potrei facilmente mostrare l’inconsistenza del giudizio con notare che lo stesso Niceforo non crede alla serietà ed attendibilità della sua affermazione, dal momento che nell’appendice al suo libro dichiara che il popolo sardo costituisce una grande e vigorosa cellula dell’organismo nazionale, ed anzi lo esorta a non aspettare l’aiuto dello Stato per migliorare le sue ed a fare da sé[1].

Ma se il Niceforo crede che il popolo sardo possa fare da sé e possa con le sue sole forze uscire dallo stato morale e sociale in cui oggi si dibatte, come ha potuto dichiararlo incapace di progresso? Potrei anche rilevare il fatto molto sintomatico che mentre nel volume La delinquenza in Sardegna il Niceforo attribuisce alla razza la causa della irriducibilità del popolo sardo, nell’altro volume successivo L’Italia barbara contemporanea abbandona la tesi della immodificabilità della razza, che si limita a chiamare degenerata. E potrei ancora, a voler fare il maligno, mettere a confronto il Niceforo del 1896 con quello di oggi, per mostrare che chi crede alla forza educatrice della suggestione nelle malattie morali, non può onestamente e seriamente credere alla immutabilità psichica di un popolo[2]. Ma poiché questa dimostrazione non riguarderebbe infine che la personalità dell’autore, così esaminiamo senz’altro la solidità delle ragioni che il Niceforo pone a base del suo giudizio.

Prima però di esaminare queste ragioni è bene di intendersi sul significato della frase arresto di sviluppo. Molti termini della biologia sono passati alla sociologia, portando in questo campo una confusione ed una indeterminatezza di linguaggio che hanno giovato poco alla comprensione della nuova scienza.

In biologia il termine “arresto di sviluppo” ha un significato netto e preciso: esso significa che un organismo od una parte di esso non ha raggiunto tutto il suo sviluppo potenziale e che non lo raggiungerà più. Trasportato nella sociologia questo termine dovrebbe quindi significare che un popolo arrestato nel suo sviluppo ha perduto la possibilità di raggiungere tutto lo sviluppo potenziale, di cui esso è capace. Ma non è questo il significato corrente in sociologia; il termine serve anche ad indicare il “ritardo di sviluppo”. E questo doppio significato è causa di errori e di illusioni gravi, perché con la medesima espressione dobbiamo indicare due condizioni del tutto diverse dello sviluppo sociale di un popolo: quella di un popolo realmente arrestato nel suo sviluppo, e quella di un popolo che indugia troppo a lungo in una fase anteriore di civiltà. Nel primo caso quel popolo non potrà mai arrivare ad uno stato di civiltà superiore, come è il caso del popolo Basco; nel secondo invece quel popolo, quando che sia, potrà riprendere la corsa del progresso, come oggi accade al popolo Giapponese.

Ora bisogna confessare che il termine “arresto di sviluppo” nel suo proprio significato biologico ha qualche rara ed unica occasione di essere applicato in sociologia. In biologia abbiamo il vantaggio del tempo e possiamo positivamente osservare che un dato organismo ed un dato organo non hanno raggiunto il loro sviluppo normale ed affermare a posteriori che sono arrestati nel loro sviluppo: ma in sociologia ci manca il controllo del tempo, perché lo sviluppo sociale di un popolo non ha misura fissa e determinata né nel tempo né nello spazio. E quel popolo, che noi potremmo aver dichiarato “arrestato nel suo sviluppo”, può farci la gradita sorpresa di riprendere la via ascensionale della civiltà e del progresso. Il Giappone dormiva i sonni secolari, come la Cina di cui faceva parte, ed era considerato come un popolo arrestato nello sviluppo, ed oggi invece tende a gareggiare in civiltà con le nazioni europee. Sarebbe quindi opportuno eliminare dal linguaggio sociologico questo dualismo gravido di errori e di confusioni e mantenere al termine “arresto di sviluppo” il suo preciso significato biologico, chiamando semmai “ritardo di sviluppo” il fenomeno presentato da quei popoli che più indugiano in una data fase della civiltà.

L’arresto di sviluppo pertanto del popolo sardo non può avere altro significato che quello di “ritardo di sviluppo” e tutte le conclusioni verbalistiche basate su quel termine non hanno ragione di essere.

Due sono, secondo il Niceforo, le cause dell’arresto di sviluppo e della incapacità al progresso del popolo sardo: «l’isolamento storico e la qualità cristallizzabile della razza che popolò quei paesi, razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza sociale»[3]

L’isolamento storico, che è il vero ed unico motivo dello stato sociale e morale presente del popolo sardo, è però evidentemente nel concetto dell’autore una causa secondaria, perché l’azione dell’ambiente sociale è assolutamente nulla su un popolo del tutto privo di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza sociale.

La razza dunque è la sola e fondamentale causa che avrebbe impedito ed impedirebbe al popolo sardo di evolvere e di progredire.

Ma il Niceforo non fa qui se non applicare al popolo sardo le conclusioni della dottrina sociologica delle razze; per cui, prescindendo dal caso nostro speciale, esaminerò la consistenza scientifica di questa dottrina generale. E se inattendibile risulterà questa, inattendibili risulteranno anche le applicazioni del Niceforo.

La sociologia, nel ricercare ciò che determina l’evoluzione storica e sociale dei popoli, si divide in varie scuole, di cui le principali sono quella del determinismo tellurico, quella del determinismo antropologico e quella del determinismo economico. La prima attribuisce alle qualità del territorio la ragione dello sviluppo sociale di un popolo, la seconda alle qualità della razza e la terza alle modificazioni che subisce lo strumento tecnico di produzione di fronte ai bisogni economici delle popolazioni.

Qui non debbo esaminare quale di queste dottrine risponda meglio ai bisogni della scienza sociale, ma semplicemente debbo vedere se sono scientificamente accettabili le conclusioni del determinismo antropologico, altrimenti e più comunemente conosciuto sotto il nome di teoria della razza. Secondo questa dottrina, la psicologia della razza è il fattore fondamentale di evoluzione di ogni popolo. Ogni popolo ha una mentalità propria fissa ed immutabile come i caratteri anatomici della razza cui appartiene. Questa mentalità è la così detta anima di razza o carattere di razza. E ogni popolo ha una misura fissa di sviluppo determinata dalla sua razza, per cui la vita sociale di esso è quella voluta dall’anima sua di razza[4].

Questa dottrina è basata su un grande equivoco: sullo scambio volontario di significato tra razza e popolo. Razza è l’insieme di tutti gli individui aventi comuni determinati caratteri anatomici; e popolo è invece un insieme di individui appartenenti anche a diverse razze.

Ora i sostenitori dell’anima di razza descrivono come carattere di razza il carattere del popolo. E a giustificare questo equivoco, sul quale hanno innalzato l’edificio della loro dottrina, dichiarano che il popolo non è se non una razza storica, una razza nuova artificiale formatasi attraverso le lotte, le conquiste, le mutazioni politiche e gli incrociamenti avvenuti nei tempi storici[5]. Il concetto di razza storica è frattanto la stessa della dottrina che si vuole creare, perché la razza storica è una contraddizione in termini.

Se i caratteri psichici della razza sono immutabili come i caratteri anatomici, e questo è il perno della dottrina, in qual modo può essere avvenuta la formazione di una nuova razza dalla fusione di razze diverse? Tre condizioni sono necessarie, risponde il Le Bon, perché razze diverse possano fondersi insieme a costituire una nuova razza: che le razze che s’incrociano non siano troppo diverse per indole, che non siano troppo disuguali per numero, che siano sottoposte per un lungo periodo di tempo alle medesime condizioni d’ambiente. La conseguenza di questo incrociamento, dice sempre Le Bon, è la mutazione ad un tempo dei caratteri fisici e dei caratteri mentali delle varie razze incrociatesi, la distruzione cioè dell’anima di razza[6].

Non si potrebbe fare una più bella confutazione della teoria di razza di quella che in questi pochi periodi ci dà uno dei suoi migliori sostenitori.

Ma non solo quest’autore ci dimostra che l’anima di razza non è affatto immutabile ma ci dimostra ancora che è l’ambiente che crea i caratteri di razza nuovi. Les croisements, en detruisent des caratères psychologiques ancestraux, creent une sorte de table rase sur laquelle l’action des milieux, continue pendant des siecles, arrive à edifier et puis à fixer des caracteres psychologiques nouveaux. Alors, et seulement alors, une nouvelle race historique est formée[7].

Quando dunque i sostenitori della dottrina della razza parlano di “anima di razza”, parlano di un’anima che è di popolo, di un carattere che non è di razza ma nazionale. Ma il carattere nazionale, che è un prodotto, una risultante di tanti secoli di vita storica comune, non può essere elevato a fattore determinante di evoluzione e di civiltà come carattere di razza. Perché solo questo, che è primitivo ed anteriore alla civiltà, avrebbe il diritto di poter essere considerato come fattore condizionante di una forma anzi che di un’altra di civiltà. E questo carattere di razza primitivo non esiste più presso un popolo che è costituito di individui appartenenti a diverse razze combinatesi su un medesimo territorio.

Il carattere o la mentalità di razza concorre a determinare la forma primitiva della civiltà specialmente presso quei popoli che per ragioni topografiche o storiche hanno potuto mantenersi isolati, perché in principio la civiltà è il prodotto della popolazione e del territorio. In prosieguo col contatto dei popoli, con lo scambio dei prodotti e delle idee, con la comunicazione e con la diffusione delle scoperte e degli studi, nuovi fattori si aggiungono, e la civiltà non è più il prodotto soltanto dell’anima di razza e del suolo. E quando più razze si sono incontrate sul medesimo territorio, hanno fatto lì vita comune, si sono date leggi ed istituzioni comuni, hanno insomma costituito un popolo solo, non si può più allora parlare di un’anima di razza, ma di un’anima di popolo. Ed anzi è più accettabile l’altra opinione, per la quale la civiltà di un popolo sarebbe la risultante dell’incontrarsi sul medesimo territorio di varie razze.

Ecco ad ogni modo sorgere la necessità dell’equivoco, ecco la necessità di un termine nuovo col quale verbalisticamente creare e giustificare una nuova dottrina. L’assimilazione del carattere nazionale al carattere di razza non è infatti se non una finzione verbale per aver modo di innalzare quell’edificio di carta che è la teoria della razza.

Affermare l’immutabilità del carattere nazionale è tale assurdità da spiegare quelle marchiane contraddizioni che si trovano nel libro citato del Le Bon. Questi infatti mentre pone come fondamento della teoria l’inimmutabilità del carattere di razza, che è come abbiamo visto il carattere nazionale, più tardi è costretto riconoscere che l’anima di razza francese ha impiegato a formarsi più di mille anni e che anzi non è formata ancora per la diversità delle razze che costituiscono il popolo francese. Quell’anima di razza fissa ed immutabile, che avrebbe dovuto fatalmente determinare l’evoluzione storica della Francia, non è ancora formata!

E con questa dottrina si vorrebbe spiegare tutto l’andamento della storia dei popoli e se ne vorrebbe predeterminare l’avvenire! Ma prescindendo da questo gioco di bussolotti, che non dovrebbe mai trovarsi in un libro di scienza, vediamo se la dottrina di razza intrinsecamente considerata abbia ragione di essere: vediamo cioè se quest’anima di razza, intesa la razza antropologicamente, esiste, e se, esistendo, è immutabile.

Alcuni antropologi e sociologi, andando un poco oltre i risultati positivi delle nostre conoscenze, hanno affermato che la diversità della forma del cranio porta con sé od è espressione di una diversità funzionale del cervello e quindi del modo di pensare e di sentire. Epperò l’esistenza di razze a cranio diversamente conformato porterebbe a dover ammettere un modo di pensare e di sentire diverso per ciascuna razza, ad ammettere cioè l’esistenza di una mentalità, di un’anima di razza.

Non ripeterò qui i vari argomenti messi innanzi da antropologi e sociologi per negare qualunque influenza della forma del cranio sulla capacità funzionale e psichica del cervello. Basterà ricordare che le medesime forme craniche possono contenere un cervello ad alta funzionalità come un cervello a bassa funzionalità: che un cranio ad es. dolicocefalo può contenere il cervello evoluto del più insigne anglosassone come il cervello primitivo del più basso australiano, il cervello di un genio come il cervello di un cretino. La capacità intellettuale e morale è così diversa nelle classi di una medesima popolazione che alcuni sociologi, col consenso degli antroposociologi, hanno potuto paragonare lo stato di inferiorità delle classi infime di un popolo civile alla inferiorità delle razze primitive. È pur vero che lo sforzo di alcuni antroposociologi ha cercato di giustificare queste differenze precisamente in nome della razza, ma è sempre vero però che le illazioni supposte non sono le illazioni di osservazioni positive.

Se noi potessimo sapere, scrive l’antropologo Sergi, perché il cervello ha preso e prende forme differenti, potremmo forse sapere, mentre l’ignoriamo assolutamente, quali sarebbero i caratteri funzionali e specialmente psichici che vanno uniti alle forme cerebrali, che ci vengono rivelate dalle forme craniche[8]. E per sapere poi, scrive il Novicow, se la forma del cranio può avere qualche influenza sull’intelletto, bisognerebbe sapere da che cosa è prodotta la mentalità del cervello umano. Ma per nostra disgrazia la psicologia sperimentale è ancora bambina e nulla sappiamo intorno al perché un cervello produce il genio ed un altro il cretino[9]. La misura della forza delle qualità mentali ad ogni modo non si può mai dedurre dagli indici cranici perché le più diverse mentalità si riscontrano in popoli aventi gli stessi indici cranici, come uguali mentalità si riscontrano in popoli ad indici cranici diversi[10]. E ciò senza ricordare anche che gli indici cranici non possono valere a differenziare sostanzialmente una razza da un’altra e quindi non possono essere elevati a criterio di classificazione, nonostante i più degli antropologi abbiano fin oggi accettata la classificazione delle razze basata sul valore degli indici cranici.

I caratteri fisici di una varietà umana non possono servire ad altro se non a distinguerla da un’altra varietà, così come si distinguono due specie di uccelli e di formiche. Essi non possono mai darci le differenze intellettuali e quelle dell’attività che si trovano nei popoli e nelle razze, dato che di queste se ne potessero trovare delle pure[11].

Non si può negare però che ogni unità di popolo ha un modo particolare di pensare e di sentire, che in certo qual modo la distingue da un’altra; ma questa particolarità non è di razza, non deriva cioè da una particolare disposizione anatomica e più precisamente del cranio della razza. Essa è piuttosto la conseguenza della vita di un popolo su un dato territorio, la conseguenza delle varie cause che influiscono sulla psiche in formazione, perché l’anima di un popolo è una formazione a cui contribuiscono molteplici cause e non una sola.

Quindi non si può ammettere l’esistenza di un’anima di razza che fatalmente ed invariabilmente determini lo sviluppo storico e civile di un popolo, perché quest’anima di razza è la conseguenza dello svolgimento stesso della vita di esso popolo.

E poi una conseguenza sociologica evidente di questa dottrina della razza dovrebbe essere questa: che tutti i gruppi di popoli appartenenti alla medesima razza dovrebbero avere comune l’anima di razza e conseguentemente raggiungere uno sviluppo sociale e morale presso che uguale.

Ora, a voler restringere il nostro esame, basta fermarsi a considerare lo sviluppo storico e sociale dei diversi gruppi, che costituiscono la razza mediterranea del Sergi, per vedere quanto insussistente ed inconcludente sia la teoria dell’anima di razza. Gli Egiziani, i Greci ed i Romani appartengono tutti alla razza mediterranea e formano una unità antropologica: ma il carattere morale, sociale e politico, le istituzioni, le scienze e le arti furono così diverse in questi tre popoli che non è possibile riconoscervi una comune anima di razza.

Se d’altra parte quest’anima di razza esistesse, non dovremmo notare il fatto che di gruppi appartenenti ad una medesima razza alcuni raggiungono il più alto grado di civiltà, altri si fermano a mezzo, ed altri infine non escono dalla barbarie. Mentre i Greci ed i Romani toccano il fastigio della civiltà antica, i Libici, i Liguri e gli Iberi si fermano a mezza via ed i Baschi non riescono nemmeno ad uscire dalla primitività. Eppure tutti appartengono ad una sola e nobile razza, la mediterranea.

Dove è dunque quest’anima di razza comune e primitiva, se a diversi gruppi di una stessa razza conseguono manifestazioni e produzioni così diverse e disformi tra loro?

Ma anche ammessa l’esistenza di quest’anima di razza, sarebbe poi essa immutabile? Già abbiamo visto come gli stessi antropo-sociologi ci abbiano dato loro stessi la più bella smentita a questa pretesa immutabilità. Le verità di fatto si impongono anche a coloro che non ne vogliono tener conto.

Intanto è concepibile la vita di una nazione o popolo in quanto le varie anime di razza che concorrono a formare la nazione od il popolo possono fondersi, assimilarsi e dar luogo ad una nuova anima, che è un poco l’anima di ogni vario gruppo ma che non è più l’anima di uno o dell’altro. Per ammettere l’immutabilità bisognerebbe disconoscere i principi più positivi di tutte le nostre conoscenze generali e della psicologia, bisognerebbe infine distruggere la storia. Questa ci dimostra con numerosi esempi che il carattere di un popolo è sempre mutato in rapporto alle condizioni di vita nelle quali esso si è trovato, e che la razza si modifica in rapporto all’ambiente.

Il carattere presente degli italiani non è quello degli italiani del medio evo come questo non è più quello degli antichi romani. Il carattere greco odierno è molto diverso da quello degli antichi greci, nonostante il rancidume di una retorica stantia voglia affermare il contrario. Gli Ebrei sono diventati pastori od agricoltori, commercianti o guerrieri a seconda dell’ambiente nel quale le necessità della vita li hanno messi. Gli Zingari, vagabondi ed oziosi per lo più, si sono dati all’agricoltura ed hanno dato luogo alla formazione di un popolo pacifico in Ungheria e nella Romania. I Cinesi d’oggi hanno perduto, dopo secoli di un governo addormentatore e asservitore, quello spirito di energia e di reazione proprio della razza mongola e che ancor oggi si conserva presso i Giapponesi. Il mongolo in Cina è divenuto codardo e servile, mentre nel Giappone ha conservato l’energia primitiva. Gli Irlandesi onesti e rispettosi della proprietà in casa propria, diventano ladri in Inghilterra. Gli Scozzesi, ladri e briganti alcuni secoli fa, oggi sono un modello di onestà e di prudenza[12].

Il carattere di razza quindi muta con il mutarsi delle condizioni sociali.

E poi per poter affermare l’immutabilità del carattere di razza bisognerebbe non limitare l’osservazione ai tempi storici, ma risalire agli esordi della razza: perché la vita storica di un popolo non è la vita della razza. E noi non siamo in grado di poter sicuramente affermare le qualità del carattere di razza nei più lontani tempi.

La miglior riprova di quanto affermo si trova nella disparità di opinione sul carattere delle antiche razze ariana e mediterranea. Mentre il Sergi, il Fouillée ed altri trovano oggi come carattere peculiare dei latini l’individualismo e degli anglo-sassoni l’associazionismo, il Lapouge, l’Ammon, il Le Bon ecc. attribuiscono l’individualismo agli ariani anglosassoni ed il gregarismo ai latini mediterranei. Il carattere nazionale, che non è carattere di razza, offre, è vero, una volta formato, una certa stabilità ed una certa resistenza ad essere mutato; ma ciò dipende dal fatto che tutte le generazioni sono sottoposte alla medesima educazione, all’educazione nazionale. La questione dell’immutabilità del carattere di razza è intimamente legata alla questione dell’eredità, anzi si può dire che quella non è se non la conseguenza teorica di questa. E più avanti tratterò della questione dell’eredità, perché su di essa il Niceforo si basa per negare al popolo sardo la possibilità del progresso morale.

Avrei potuto, come pregiudiziale dirimente contro la teoria della razza, premettere la non esistenza oggi di razze pure e quindi la non applicabilità della teoria almeno ai popoli presenti e futuri. Ma ho voluto esaminare rapidamente e sommariamente i vari elementi di essa per meglio mostrarne l’inconsistenza. E così mi pare superfluo ripetere gli argomenti svolti da tanti illustri sociologi dal Labriola al Novicow e recentissimamente riassunti dal Colaianni, per dimostrare che la civiltà non è privilegio di alcuna razza e che un popolo ritardatario può sempre riprendere la via del progresso se maturano le condizioni necessarie.

La tendenza della civiltà umana è d’internazionalizzare tutto e di eliminare ogni differenza artificiale tra i popoli, e di sopprimere precisamente quel pregiudizio di razza che fa credere ad alcuni destinata la supremazia civile ed il dominio dei popoli. E questa tendenza trova la sua ragione di essere nella plasticità della psiche umana, la quale più o meno presto e più o meno direttamente raggiunge gli stessi fini, perché ha le medesime potenzialità presso tutti i popoli.

Nessun psicologo e nessun antropo-sociologo ha finora dimostrato che le facoltà fondamentali della psiche non siano le stesse presso tutti i popoli e tutte le razze; e per conseguenza non si può contestare che la psiche non debba giungere ai medesimi risultati presso tutte le razze. Sarà questione di tempo e di modo, ma il fatto fondamentale rimane sempre questo: che il progresso umano non può essere contestato a nessuna razza a priori ed in nome di una legge sociale di evoluzione non esistente.

Credo pertanto di aver dimostrato che il carattere di razza non deve essere confuso col carattere nazionale; che un carattere di razza immanente e condizionante di civiltà non esiste e che, anche esistendo, non è immutabile. La teoria della razza non è quindi accettabile come metodo di interpretazione della vita storica e sociale e non può autorizzare in alcun modo a formulare giudizi sull’avvenire dei popoli. Né in nome di essa si può perciò negare al popolo sardo la capacità di progredire e di rinnovarsi.

Ma il Niceforo trova nella legge dell’eredità un’altra ragione per sostenere che il popolo sardo è irriducibile a civiltà. «L’ereditarietà psichica, egli dice, è un fatto ben saldo e bene organizzato che non sparisce di fronte all’imitazione ed all’educazione. E la psiche che si trasmette di padre in figlio fatalmente con tutto il cumulo dei suoi difetti»[13]. Quindi la conseguenza assurda che il popolo sardo non potrà uscire dallo stato morale presente per ragioni di eredità, perché la psiche si trasmetterà sempre con tutti i suoi difetti di padre in figlio nonostante qualunque educazione. Vediamo ora se veramente l’eredità psichica è immodificabile e se l’educazione e l’imitazione non hanno alcuna influenza su di essa.

Dopo la scoperta delle leggi sull’eredità e specialmente dell’eredità nei delinquenti, alcuni sociologi sono arrivati alla conclusione che l’eredità segna fatalmente ed invariabilmente il destino degli individui e dei popoli. Tanto questi che quelli sarebbero le vittime innocenti del fardello ereditario, che in retaggio hanno loro legato i progenitori, senza che essi abbiano mezzo alcuno di portarvi rimedio.

E come alla fine del secolo XVIII si pensava l’uomo venir al mondo vergine di ogni impressione e disposto a ricevere quelle che l’ambiente e l’educazione potevano dargli, così alla fine del secolo XIX si è caduto nell’eccesso contrario, pensando che l’uomo venga al mondo con un certo corredo di disposizioni ereditarie immutabili ed inaccessibili all’azione dell’educazione e dell’ambiente. Allora all’educazione si attribuiva una potenza rinnovatrice e riformatrice superiore, una capacità di foggiare gli spiriti a piacere; oggi all’educazione si nega qualunque azione modificatrice ed innovatrice sulla costituzione psichica ereditaria. Si nasce onesti o delinquenti, buoni o cattivi, morali od immorali, e tali si rimane per tutta la durata della vita nonostante e contro qualsiasi educazione. E questa credenza ha trovato il suo appoggio in una dottrina esplicativa dell’ereditarietà, nella teoria di Weismann, di cui naturalmente porta tutti i difetti di un’allucinazione metafisica. A spiegare i fatti dell’eredità il Weismann ammette nell’organismo individuale un plasma somatico, proprio dell’individuo, ed un plasma germinativo trasmessogli dal progenitore. Questo plasma germinativo è quello per il quale avviene la trasmissione delle proprietà ereditarie dall’ascendente al discendente, ed è immortale, immodificabile e fuori dell’influenza dell’ambiente. L’ambiente esercita la sua azione solamente sul plasma somatico, producendo così le varietà individuali, ma fascia immodificato il plasma germinativo; per cui i caratteri acquisiti non sono trasmissibili per eredità. E poiché il plasma germinativo è immodificabile e non influenzabile dall’ambiente ed i caratteri acquisiti dall’individuo non sono trasmissibili, così è evidente che l’educazione non può esercitare alcuna azione modificatrice sull’eredità. L’educazione esercita la sua azione sull’individuo, ma gli effetti di essa non sono trasmissibili perché non intaccano il fondo ereditario.

Una serie di osservazioni inoppugnabili dimostra però che i caratteri acquisiti sono trasmissibili per eredità; ed in grazia di questa proprietà della materia organizzata gli allevatori possono perpetuare razze e varietà nuove accidentalmente o artificialmente prodotte.

Se il plasma germinativo fosse immodificabile, bisognerebbe sempre dimostrare come è che si sono formate e perpetuate le varietà e le specie nuove, come è che da uno stato di inferiorità si è passato ad uno stato di superiorità organica. Ciò che il Weismann non ha potuto dimostrare: perché l’incrocio sessuale e la selezione se spiegano la formazione delle varietà individuali non spiegano certamente il perpetuarsi di queste varietà. Il plasma germinativo è immortale ed immodificabile, dunque esso è sempre il medesimo fin dal primo momento della vita; epperò l’unione di varie particelle di un medesimo plasma non può aver dato luogo a variazione. A meno che non si voglia ammettere la creazione primordiale di tanti plasmi germinativi fondamentali diversi, la cui varia unione abbia potuto produrre tutte le specie e le varietà presenti passate e future. Ma per evitare di cadere in un creazionismo di nuovo stampo, il Weismann con un atto di libero arbitrio si permette di scindere l’unità e continuità della legge evolutiva e di ammettere l’azione dell’ambiente sul plasma germinativo nel regno protozoario e di negarla nel mondo metazoario. E pur ammettendo questo atto di una nuova forza esterna e superiore, per cui si sarebbero formate nel regno protozoario per azione dell’ambiente tutte quelle varietà di plasma germinativo, le quali avrebbero poi grazie agli incroci sessuali e la selezione dato luogo alle varietà e specie successive all’infuori dell’ambiente, che cosa rappresenterebbe questa selezione? La selezione non è una forza astratta e misteriosa a sè, ma è una funzione in rapporto all’ambiente. Ora come potrebbe accadere questa selezione se non dovendo rispondere ai bisogni dell’ambiente e degli organismi rispetto all’ambiente? E se il plasma germinativo, il solo capace di trasmissioni ereditarie, è sottratto all’azione dell’ambiente, come può sentire questi bisogni e come vi può rispondere?

È un fatto che non si ereditano gli organi, ma l’energia potenziale di poter raggiungere lo sviluppo similare dell’organismo produttore. Ora perché questa energia potenziale possa svolgersi fino a riprodurre tipicamente organismo generatore, è necessario che il germe trovi nel suo mezzo interno ed esterno le condizioni favorevoli al suo normale sviluppo. Ma l’ovulo, come dimostra il Le Dantec[14], può trovarsi in due condizioni diverse: l’una favorevole e necessaria al suo completo sviluppo, e l’altra sfavorevole più o meno a seconda che può interamente o parzialmente impedire l’evoluzione normale del plastide. In questo secondo caso una volta si avrà la distruzione del germe, e l’altra volta invece un adattamento ed una variazione corrispondente nello sviluppo dell’organismo. E questa variazione sviluppatasi nell’individuo tende a ripetersi se condizioni analoghe si ripetono e si mantengono. Quindi è sempre l’ambiente quello che condiziona il formarsi ed il mantenersi delle variazioni; ed il plasma germinativo può essere influenzato dall’ambiente.

L’ereditarietà psichica è una legge, senza la quale non sapremmo spiegarci il processo continuativo della mente e della vita sociale. Ma affermare la verità della legge non è affermare l’immodificabilità della psiche ereditata. La legge dell’eredità senza la legge della variabilità e dell’adattamento è un non senso, in quanto che la prima non consentirebbe che una uniforme e monotona ripetizione di un medesimo stato.

Negare alla psiche ereditaria la capacità di mutarsi, di trasformarsi è negare la storia, negare la civiltà, negare la vita stessa. Mettete l’eredità senza la variabilità, scrive il Ribot, e non avrete che conservazione indefinita ed incredibilmente monotona dei medesimi tipi fissati una volta per sempre. I caratteri psichici, gli istinti, le facoltà intellettuali e morali sarebbero trasmesse senza modificazione. Mettete invece la variabilità e la vita diventa possibile[15].

La psiche non è che un prodotto dei rapporti tra l’individuo e l’ambiente, tra il me ed il mondo fisico-sociale. Come l’uomo somatico o l’organismo, scrive l’Ardigo, è quello che risultò dallo sviluppo dell’ovo influenzato dalla natura del mezzo nel quale si svolge e che funziona secondo le leggi fisiologiche, così la psiche è ancora ciò che risultò analogamente e che analogamente funziona secondo le leggi psicologiche[16]. É nei rapporti tra l’uomo ed il mondo che lo circonda, è nei rapporti tra uomo e uomo che essa si forma e si sviluppa.

Negare pertanto alla psiche la capacità di cambiare in rapporto all’ambiente naturale e all’ambiente sociale, significa affermare che i rapporti dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo sono rimasti sempre gli stessi; il che è assurdo. La psiche cambia e si migliora nei rinnovati rapporti con gli uomini e con le cose. E come un uomo non è mai completamente lo stesso di quelli che l’hanno generato, pur riportandone per eredità la maggior parte, così la sua psiche è la psiche generante più qualche altra cosa che le apportano le condizioni speciali nelle quali si forma. Naturalmente questo qualche cosa non si aggiunge indifferente alla psiche ereditata, ma attivo e produttore di nuove modificazioni conforme a nuovi bisogni e a nuove condizioni. Queste piccole modificazioni individuali poi, scrive il Letourneau, prodotte dall’ambiente sociale, addizionandosi e totalizzandosi nel tempo riescono a trasformare il carattere di un popolo.

Per cui continuità psichica non vuol dire immodificabilità: le psiche successive si trasmettono l’una all’altra tendenze ed acquisizioni, ma la psiche successiva è sempre qualche cosa di più e di diverso della antecedente. La psiche successiva elabora il patrimonio psichico ereditato per adattarlo ai nuovi bisogni ed alle diverse condizioni, e quindi essa è il prodotto della psiche antecedente e delle nuove condizioni.

Ma e l’atavismo non è la riprova della variabilità della psiche? Come potrebbe un organismo psichico riprodurne un altro da più o meno lungo tempo oltrepassato, se non ammettendo che la psiche, che fa il ritorno atavico, è il prodotto di una psiche già diversa?

Ed una volta che non si può negare la variabilità della psiche, non vedo quanto seriamente possa negarsi all’educazione ed all’imitazione la capacità di poter modificare le qualità psichiche ereditarie. L’individuo è un prodotto sociale e l’azione della società su di lui si esercita con l’educazione, di cui l’imitazione non è che un grande coefficiente. L’influenza dell’ambiente sociale (che comprende l’educazione, l’imitazione, la suggestione, etc.) è troppo manifesta perché possa essere negata in nome di un principio o di una tesi. L’educazione, specialmente nell’ordine morale, è di una importanza enorme. Si può nascere con una certa tendenza ereditaria alla bontà o alla violenza, alla virtù od al vizio, ma questa tendenza non è ancora la moralità. Questa è figlia della coscienza che concepisce il meglio e lo pone a sé stessa come scopo ideale, come dovere[17].

E la tendenza non diventerà fatto, non diventerà funzione se nella coscienza sociale, se nell’ambiente non troverà le condizioni favorevoli a questa trasformazione. Ma l’educazione bisogna intenderla in un senso molto largo e non limitarla a quella che si può impartire dalla cattedra di una scuola. L’educazione ha un’azione continua e si manifesta in tutti i momenti della vita, nel giornale e nella scuola, nella tribuna parlamentare e nel pulpito, nelle farmacie e nei caffè, nei tribunali e nelle piazze. Ed in tutti questi momenti l’educazione si vale dell’imitazione e della suggestione come di due mezzi potentissimi di trasformazione morale. Le scoperte moderne sulla suggestione ci dimostrano poi col fatto la possibilità di creare sempre, in qualunque periodo d’evoluzione, nell’anima dell’individuo un istinto artificiale capace di neutralizzare per più o meno lungo tempo le tendenze preesistenti. Or quello che fa l’uomo di scienza, il medico nel suo gabinetto ed in breve tempo, lo fa l’ambiente più lentamente ma più durevolmente, lo fa l’educazione, che in fondo non è se non un insieme di suggestioni coordinate e ragionate[18].

La psiche non sorge nell’uomo bella e formata, ma diventa a poco a poco nella successione del tempo e dello spazio. Essa primitivamente è quasi soltanto il prodotto dell’ambiente naturale, nel quale l’uomo ha vissuto; ma l’azione dell’ambiente naturale va sempre più attenuandosi mano a mano che l’uomo si svolge sopra un terreno artificiale. Allora prevale l’azione dell’ambiente sociale e la psiche diventa sempre più un prodotto sociale, sempre più un prodotto dell’educazione. Non tutti gli individui sentono ugualmente l’azione delle condizioni materiali di vita; alcuni più intelligenti e più forti sanno trovarsi prima un modo di vivere migliore, e gli altri li seguono per imitazione, per interesse e per suggestione. Questi esseri più fortunati insegnano alla propria gente ed impongono ai deboli il loro modo di vita e fanno sempre opera di educazione, qualunque sia il modo e lo scopo.

L’educazione pertanto è alla base della vita sociale ed essa si esplica specialmente con l’imitazione con la suggestione, perché l’uomo è animale gregario e fa quello che gli altri fanno per imitazione e per suggestione. E mediante l’imitazione che in ogni società si propagano le idee, i sentimenti, le scoperte, costumi, tutto insomma quell’insieme di caratteri che contraddistinguono un popolo[19].

Se dunque la psiche è primitivamente un prodotto dell’imitazione e dell’educazione, lo è sempre e maggiormente anche dopo, quando l’educazione diventa un mezzo cosciente di trasformazione morale.

È un fatto che l’uomo civile d’oggi non è allo stesso livello morale e sociale dell’uomo primitivo; e poiché l’uomo ha progredito da uno stato di selvatichezza allo stato di civiltà è segno che l’eredità non lo ha impedito. Nel periodo selvaggio l’uomo è dominato dai sentimenti egoistici: vittima della lotta per la vita, resa più aspra dalla scarsezza degli alimenti, egli non ha alcun sentimento altruista, non pensa che a sé stesso e non ha scrupoli di mangiare il suo simile.

Oggi invece i sentimenti altruisti consigliano ed impongono all’uomo una condotta più benevola verso l’altro uomo, una condotta di aiuto e di interessamento filantropico ed impongono il rispetto della vita umana. E tutto ciò nonostante che l’eredità tendesse a mantenere nell’animo dell’uomo i più bassi sentimenti dell’egoismo e dell’antropofagia.

E come sarebbe arrivato l’uomo al grado di moralità attuale se la sua psiche non avesse la capacità di trasformare i sentimenti ereditari, se non avesse potuto liberarsi da quella camicia di Nesso[20] che si vuole divenga l’eredità? Gli uomini nei quali cominciano a svilupparsi i sentimenti morali sono dapprima una esigua minoranza; ed è sommamente dubbio, scrive il Darwin, che i figli dei genitori egoisti e malvagi siano superati in numero dai figli dei genitori morali. Anzi gli uomini più coraggiosi e più morali sono esposti di più ai pericoli e devono quindi perire più facilmente, mentre i figli dei degenerati e degli irrequieti vanno facendosi più numerosi[21]. Dapprima quindi abbiamo la prevalenza dei meno buoni, e l’eredità avrebbe dovuto portare ad un peggioramento sempre maggiore della società. Tuttavia la società si è fatta più civile e più morale; ciò che vuol dire che non solo l’eredità è stata modificata ma addirittura superata dalle necessità dell’ambiente sociale.

Gli è che educazione ed eredità non sono due forze antagoniste, ma due forze che si integrano reciprocamente per il miglioramento progressivo dell’uomo. Negare l’una per affermare l’altra è cadere nel paradosso. L’eredità conserva tutte le qualità, buone o cattive, e le trasmette; l’educazione invece tende a conservare quelle buone ed a far perdere le cattive, perché l’eredità è una forza conservatrice e l’educazione una forza innovatrice. L’eredità non fa che mantenere e trasmettere le qualità che in qualunque modo la psiche ha acquistato; implicitamente quindi nel parlare di eredità si ammette la precedenza dell’acquisizione alla trasmissione. Epperò una forza innovatrice precede alla conservatrice, perché la psiche non è rimasta sempre la stessa; e questa forza innovatrice è l’ambiente, è l’educazione.

Ecco perché l’uomo è il risultato medio dell’eredità e dell’educazione, ed a seconda delle circostanze prende più dell’una o dell’altra.

Abbiamo già detto che, sebbene le facoltà ereditate si mantengano nell’organismo mentale, tuttavia l’individuo altre ne aggiunge che con quelle concorrono a formare una nuova personalità. E questa nuova personalità avrà più dell’eredità o dell’educazione a seconda che l’individuo fa i suoi acquisti in un ambiente simile o diverso.

Se l’individuo infatti si svolge in un ambiente simile a quello, nel quale si sono formate le qualità ereditate, è chiaro che il suo patrimonio intellettuale rimarrà presso a poco quale l’eredità lo aveva formato; ma se l’ambiente e diverso, è evidente che egli per adattamento e per necessità di vita dovrà fare acquisizioni nuove e diverse che daranno una impronta nuova alla sua personalità.

E quando questo adattamento non avviene allora sorgono i casi d’atavismo, di follia morale, di delinquenza e di deviazione patologica. La variabilità naturale da insomma alla psiche la capacità di adattarsi e di mutarsi in rapporto all’ambiente, e l’eredità fissa trasmette le modificazioni portate dall’ambiente. Vale a dire che l’immutabilità dell’eredità è una funzione dell’ambiente: l’eredità rimarrà immodificata se immodificato rimane questo.

Nelle popolazioni sarde hanno potuto mantenersi immutate certe tendenze e certe qualità ereditarie semplicemente perché l’ambiente, nel quale vivono, da secoli si è mantenuto presso che immutato. L’eredità e la variabilità sono due forze cospiranti all’integrazione dell’individuo ed alla conservazione sociale; ma mentre l’eredità è sempre presente, è una forza immanente della materia vivente, l’ambiente è suscettibile di stagnamento. Dimodoché in alcuni momenti della vita sociale può accadere che, cessando l’azione modificatrice dell’ambiente, prevalga l’azione dell’eredità e la psiche individuale e collettiva rimanga immutata.

E così che si spiegano i cosiddetti arresti di sviluppo, i ristagni cioè nell’evoluzione civile di un popolo.

Nel popolo sardo, mentre l’eredità ha potuto trasmettere di padre in figlio e per parecchie generazioni di seguito tutte quelle perniciose tendenze che si riassumono nella delinquenza, è mancata completamente l’azione innovatrice e modificatrice dell’ambiente sociale, dell’educazione. Dai Giudici in poi il sistema fondamentale di vita, l’ordinamento economico-sociale fu sempre lo stesso. Quest’ordinamento virtualmente fu abolito col decreto reale del 1836 che aboliva i feudi; ma, per il modo in cui la trasformazione accadde, le abitudini, i costumi, la morale insomma, che quest’ordinamento aveva per tanti secoli consolidata, continuò a rimanere la stessa.

Ordinariamente il passaggio da una forma di civiltà ad un’altra avviene gradualmente per evoluzione più o meno lenta, e la trasformazione delle abitudini, dei costumi e delle idee ha il tempo di maturarsi. In Sardegna il potere politico ebbe la illusione di poter subito trasformare la morale del popolo sardo con l’improvviso mutamento dell’ordinamento economico, della costituzione giuridica della proprietà e del diritto.

Quando venne il decreto reale, che istituiva in Sardegna un nuovo ordine di cose, mancavano le condizioni che questo ordine nuovo giustificassero e determinassero. Non si era ancora formata e forse non vi era nemmeno l’accenno alla formazione di quella classe di borghesia industriale e commerciale, che negli ordinamenti feudali trovasse un ostacolo al proprio sviluppo e ne volesse l’abolizione. Il traffico esterno era limitato da un sistema doganale che lo isolava – perfino quello col Piemonte fu solo reso libero dopo il 1848! –, e quello interno era invece reso difficile dalla mancanza di vie e di ponti e dalle barriere dei privilegi cittadini. Le condizioni agricole e pastorali rimanevano da secoli le medesime per mancanza di stimoli modificatori, e l’istruzione elementare era scarsa o nulla. Aboliti i feudi, quali altri provvedimenti si sono presi per favorire l’industrializzazione delle provincie, per incoraggiare il commercio e per trasformare l’economia agraria?

Dopo aver speculato sul riscatto dei feudi, il governo ha concesso tardi e malamente a spese degli enti locali la costruzione di quelle strade che avrebbero dovuto invitare la popolazione al commercio ed all’attività; e la costruzione di strade e di porti era motivo di depressione per quel commercio che si voleva facilitare e rinvigorire. Fu fatto l’accatastamento («cadastrazione»), furono abolite le decime e fu stabilito il sistema di imposizione parcellare, fu soppresso il pascolo comune, ma non si pensò ad aprire strade, a stabilire banche di credito. Dimodoché dopo l’abolizione dei feudi non si ottenne altro che l’aumento del numero dei privati proprietari. Si continuava nello stesso metodo di allevamento del bestiame e di coltivazione della terra, e dove la legge aveva abolito il pascolo comune ve lo rimetteva l’accordo dei vicini: l’industria si ostinava a non voler sorgere nonostante alcuni esempi prima voluti e poi dopo combattuti, ed il commercio languiva per mancanza di comodità e di facilità di trasporto. Il decreto reale non aveva avuto la virtù di determinare quelle condizioni che lo avrebbero dovuto precedere.

Né vale il dire che i Sardi avevano già tentato di scuotere il giogo feudale e che perciò le condizioni generali per una trasformazione sociale erano mature. Il movimento angioino fu un movimento fittizio che non trovava riscontro nelle mutate forme di produzione e nei nuovi bisogni giuridici e morali; fu un movimento ideologico riflesso, un riverbero. Ed i paesani non seguirono, perché non lo capirono, il movimento antifeudale di Giovanni Maria Angioi.

La predicazione contro i feudatari, il miraggio di libertà fatto balenare innanzi agli occhi dei contadini e dei pastori li lasciava freddi ed indifferenti. Che cosa loro si prometteva economicamente? L’abolizione della proprietà feudale per sostituirvi quella privata: vale a dire la soppressione del pascolo libero, delle vidazzoni, dei diritti d’ademprivio.

Ed i pastori ed i contadini non potevano interessarsi a queste riforme, alle quali mancavano le condizioni determinanti. E dall’altra parte dove erano gli industriali, dove i capitalisti, dove i grandi commercianti, interessati alla libertà del commercio e della produzione, alla forma privata della proprietà, che incuorassero e sostenessero il movimento? Il movimento era sostenuto invece da giuristi e da professionisti, da gente mossa da un interesse sentimentale ed ideale di giustizia e di rivendicazione, anzi che da un reale bisogno economico.

Lo scarso seguito avuto da Angioi, il suo abbandono nel momento decisivo, i tentativi sempre falliti di Sanna e Cilocco, erano la conseguenza naturale e logica dello stato sociale e morale del popolo sardo. Epperò l’abolizione dei feudi avvenuta alcuni lustri più tardi non sortì l’effetto di rinnovare la vita economica e morale dei sardi.

Il popolo sardo è un popolo ritardatario ed aveva bisogno di essere avviato lentamente e con istituti intermedi alla nuova forma di civiltà moderna. La crisi di trasformazione non poteva perciò non esercitare una perniciosa influenza su quelle menti rozze che non conoscevano altro che il loro gregge e le loro montagne. I pastori continuarono a mantenere le loro antiche abitudini, reagendo con la violenza contro coloro che, in nome di un nuovo diritto, pretendevano l’uso esclusivo degli antichi pascoli comuni ed abbattendo quei muri e quelle siepi che furono l’unico effetto del l’abolizione dei feudi.

La psiche del popolo sardo è rimasta la stessa; e le mutate condizioni giuridiche non hanno fatto che aggravare la situazione e buttare quel popolo in una lotta alla quale non era assolutamente preparato. Sono queste le ragioni vere per le quali la morale del popolo sardo è in contrasto con le leggi e con la morale della società borghese e per cui il popolo tutto sembra arrestato nel suo sviluppo.

Improvvisamente i sardi si trovarono sbalzati da uno ad altro stato di cose senza aver avuto il tempo di prepararsi, e sempre per opera di un governo esterno: da qui un contrasto tra lo stato giuridico e lo stato morale, tra le abitudini antiche ed i bisogni nuovi. Ma il popolo delle città più evoluto già si adatta alla nuova vita e diventa sempre più morale e meno delinquente. Aspettate dunque che l’equilibrio tra il vecchio ed il nuovo si compia, aspettate che il nuovo ordine di cose sviluppi la sua morale corrispondente e vedrete allora il popolo sardo rientrare nell’orbita dei popoli più civili e riprendere la via ascensionale del progresso. Tanto più se è vero ciò che afferma Guglielmo Ferrero[22], che l’essere stato lungamente indietro può essere per un popolo causa di avanzare velocissimo più tardi.

Non è pertanto il caso di gridare né all’arresto di sviluppo né alla irriducibilità del popolo sardo. Ed io posso tranquillamente studiare le condizioni sociali della Gallura e consigliare quei rimedi che crederò opportuni, senza paura della pregiudiziale Niceforo.

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[1] Attilio Niceforo, La delinquenza in Sardegna. Note di sociologia criminale (con prefazione di Enrico Ferri), Palermo, R. Sandron, 1897, pag. 205.

[2] Attilio Niceforo, Una nuova cura delle malattie morali, «Rivista popolare», 1908, n. 6.

[3] Attilio Niceforo, La delinquenza in Sardegna cit., pag. 50.

[4] Gustave Le Bon, Les lois psichologiques de l’evolution des peuples, Paris, Félix Alcan, 1895; cfr. anche le figure di De Lapouge e Ammon in Fausto Squillace, Le dottrine sociologiche, Roma, C. Colombo, 1902.

(Georges Vacher de Lapouge, 1854-1936, fu un antropologo francese, teorico dell’eugenetica […]. Convinto dell’importanza del fattore razziale nell’evoluzione della civilizzazione, insisteva sul rischio dell’estinzione della razza rappresentato dagli incroci tra le diverse razze umane; Otto Georg Ammon, 1842-1916, antropologo tedesco, scrisse Selezione naturale tra gli umani (1893).

[5] Gustave Le Bon, Les lois psichologiques cit. pag. 4.

[6] Ivi, capit. V.

[7] Ivi, pag. 47.

[8] Giuseppe Sergi, Specie e varietà umane. Saggio di una sistematica antropologica, Roma-Torino 1900.

[9] Giacomo Novicow, La Mission d’Italia, Milano, Treves, 1901, pag. 61.

[10] Napoleone Colaianni, Razze inferiori e razze superiori o Latini e Anglo-sassoni (prefazione di Giacomo Novicow), Roma, La Rivista popolare illustrata, 1903, pag. 15.

[11] Giuseppe Sergi, Decadenza delle nazioni Latine, Torino-Milano-Roma, Fratelli Bocca, 1900, pag. 227.

[12] Napoleone Colaianni, Razze inferiori e Razze superiori cit.; Charles Letourneau, La Sociologie d’apres l’etnographie, Paris, C. Reinwald & C., 1892.

[13] Attilio Niceforo, La delinquenza in Sardegna cit., pag. 68.

[14] Felix Le Dantec, Evolution et hérédité: théorie de la variation quantitative, Paris, Félix Alcan, 1898.

[15] Théodule Ribot, L’Hérédité psychologique, Paris, Librairie Germer Baillière et. C., pag. 327.

[16] Roberto Ardigò, La formazione naturale e la dinamica della psiche, «Rivista di Filosofia e Scienze affini», vol, 11, 1903.

[17] M. Guyan, Éducation et hérédité: étude sociologique, Paris, Félix Alcan, 1889, pag. 78.

[18] Jean-Marie M. Guyau, Education et hèrèdité, étude sociologique , Paris, Félix Alcan, 1889 (si veda introduzione).

[19] Enrico Morselli, Antropologia generale. Lezioni su l’uomo secondo la teoria dell’evoluzione, Torino, Utet, 1889-90, pag. 487.

[20] Nella mitologia greca la “Tunica di Nesso” fu la tunica avvelenata che portò Ercole alla morte.

[21] Charles Darwin, L’origine dell’uomo, pag. 122.

[22] Guglielmo Ferrero, L’Europa Giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord, Milano, Treves, 1897, pag. 300.

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