Prefazione di Paolo Toschi

Non senza uno scopo questa collana di Studi e testi di tradizioni popolari, sorta sotto gli auspici della R. Università di Roma e del R. Museo di etnografia italiana, si apre con un volume dedicato alla forte e fedele gente sarda.

Moltissimo s’è scritto, fin dai primi dell’Ottocento, sugli usi e costumi della Sardegna, la generosa isola dove, per ragioni geografiche ed etniche, le principali forme di vita del popolo si sono conservate intatte attraverso i secoli, con il loro significato originario, i loro aspetti pittoreschi, la loro intima poesia.

Ma se andiamo a fare la cernita, lasciando da parte i molti bozzetti romantici, e libri di colore e appunti di viaggio e articoli turistici e pagine regionali e monografie di erudizione bizzarra, per cercare dati concreti e studi organici sulle tradizioni popolari sarde, il mucchio della carta stampata si assottiglia di molto.

Scarseggiano specialmente i lavori condotti con metodo, con la necessaria preparazione storico-critica, con la precisa coscienza delle necessità che una ricerca sistematica impone, e della natura e portata dei problemi che si devono affrontare.

Le opere buone e solide che finora possediamo ci provengono, in gran parte, dai vicini campi della filologia, per i molti punti d’incontro ch’essa ha con la nostra scienza, specie in quel settore dove si studiano insieme parole e cose.

Per quel che riguarda in particolare la Gallura, regione ove l’antico genuino spirito isolano sopravvive nella sua integrità e schiettezza, ci dovevamo finora accontentare dei lavori di Andrea Pirodda, di Giovanni Mari e specialmente di Francesco de Rosa, modesto ma paziente e accurato ricercatore delle tradizioni della sua terra natale (1) ma si tratta di articoli comparsi in vecchie riviste, ormai introvabili, o di pubblicazioni rimaste nell’ombra, entro il breve cerchio degli interessi culturali del luogo: un’opera organica, completa, condotta secondo i più severi, moderni metodi di ricerca, mancava: ora invece col volume che qui ci dà Maria Azara, un’opera di tal genere c’è, almeno per quella parte della vita tradizionale che si usa comprendere nella formula Dalla culla alla tomba.

Presentata nel 1940 come tesi di laurea alla Facoltà di lettere della R. Università di Roma per il corso di letteratura delle tradizioni popolari, quest’opera è dunque la prima grande fatica di una giovanissima studiosa, che ha lavorato, sotto una sicura guida, con tutto l’impegno e con quella serietà innata che è propria della sua razza isolana.

Figlia di un alto magistrato, essa certamente ha preso dal padre quel particolar senso giuridico per cui le cose sono vedute e rese con un loro ordine progressivo e sistematico e la materia viene quasi per natural moto a disporsi con quella organicità logica e ferrea con cui si susseguono, nel codice, articoli e commi.

Credo che sia questo il primo caso in cui una ricerca esclusivamente demologica in Sardegna sia stata condotta con una precisa delimitazione dell’area d’indagine, e con la sistematica e ampia diffusione di un questionario appositamente redatto, che ha permesso una raccolta organica ed esauriente dei materiali di studio, grazie anche alla cortesia e alla pronta comprensione con cui molte persone del luogo hanno riposto all’inchiesta.

Per compilare tale questionario, l’Azara ha tenuto sott’occhio, opportunamente adattandolo, quello del Van Gennep, l’illustre studioso specializzatosi in questo sistema di ricerca e le cui monografie regionali possono considerarsi come modelli del genere,

Del resto, un questionario non basta redigerlo: l’importante è sapere adoperarlo, e trarne il massimo rendimento. L’Azara questo ha fatto: e i risultati positivi da essa ottenuti confermano la bontà del metodo.

Abbiamo così un volume che soddisfa a tutte, o almeno alle principali esigenze della ricerca scientifica, quale ora, nel campo dei nostri studi, si concepisce e si attua. Sarebbe stato facile suggerire all’Azara qualche ritocco, inteso a sfrondare, specie nella prima parte, qualche pagina o a condurre qua e là l’espressione verso una forma più togata. Abbiamo preferito lasciare al lavoro il suo carattere di opera giovanile, rispecchiante il temperamento dell’autrice, che si distingue per una serietà timida e chiusa e un nativo candore.

Così com’è, il libro si fa leggere col più grande interesse, tanto dallo studioso specialista, quanto dall’uomo di comune cultura; l’uno vi troverà notizie e dati, talora di eccezionale importanza, per le sue ricerche comparative; l’altro sentirà vibrare, nelle nitide pagine documentarie, una vita ricca di elementi poetici, di significati profondi, e dei più nobili valori umani. È la patriarcale vita dei pastori sardi, trascorrente negli stazzi montani secondo regole e forme tramandatesi attraverso i millenni.

Valga qualche esempio. Per quel che interessa gli studi comparativi, basti ricordare il modo particolarissimo con cui in Gallura si svolge la cerimonia del fidanzamento, e in ispecie il primo atto di essa, la pricunta, cioè la richiesta della ragazza da parte del giovane. Vediamo la scena con le parole stesse dell’Azara.

Nel giorno stabilito gli amici della famiglia della fidanzata, che costituiscono la palti di la fèmina (la parte della donna) convengono per tempo in casa di questa. A una certa ora il giovinetto, messo di guardia su un pino o su un altro albero, annunzia che la palti di l’ómu (parenti e amici del fidanzato) è in vista. Le donne immediatamente rientrano nello stazzo, di cui sono chiuse porte e finestre. Fuori restano gli uomini; il padre della fidanzata, col poeta a fianco, se egli stesso non sa poetare, sta presso la porta: gli altri fingono di stare a guardia delle finestre.

Ben presto arriva il corteo del fidanzato, a galoppo sfrenato fra gli spari delle fucilate, che devono simboleggiare quasi l’assalto a una fortezza. Sullo spiazzo, innanzi alla casa, i cavalli sono frenati; tutti, uomini e smontano, ma si fermano a una certa distanza dalla porta. A questa si avvicinano soltanto lo sposo, il padre e il poeta (l’ómu di la pricunta) (l’uomo della domanda) e si inizia, appunto, la pricunta. Se non si hanno due improvvisatori di grande valentia, e non si trovano facilmente, la pricunta si svolge in prosa e consiste in un dialogo, che comincia molto alla larga. Il padre della fidanzata, o chi per lui, mostra grande meraviglia nel vedere tanta gente e nel sentire tanto strepito nel suo stazzo e chiede quale ne sia il motivo. Il contradittore, prima ancora di dare risposta al riguardo, avvertendo che egli ed i suoi sono là pa bisògnu bònu (per bisogno buono), si informa sullo stato di salute della famiglia e si compiace di saperlo ottimo. Dopo uno scambio di frasi su questo argomento, si decide finalmente a far conoscere il motivo della sua scorreria.

Dal suo stazzo è mancata una colomba, o un’agnellina, o una capretta o una vitellina (a tutte viene attribuito il colore bianco, simbolo di virtù), che aveva tutte le più belle qualità che Dio possa donare a così cara bestiola. Nello stazzo non si vive più se questa non si ritrova, perché chi più profondamente ne è colpito è il giovane (fidanzato) anche lui ricolmo di ogni più eletta qualità. Si è avuta notizia che la capretta è stata vista nei dintorni dello stazzo e tutti si sono precipitati là per farne ricerca. Se si fosse rifugiata nello stazzo e se venisse restituita, si ridarebbe la pace al giovine, gli si offrirebbe la più grande felicità del mondo.

L’altro risponde che non ha visto alcuna capretta estranea al suo stazzo.

La schermaglia dialogata continua a lungo e nessuno si dà pensiero se il sole dardeggia oppure se d’inverno il vento gelido penetra nelle ossa.

Alla fine il rappresentante di la palti di la fèmina, ammette che è possibile che, senza che alcuno se ne sia accorto, la capretta possa essersi confusa con quelle dell’ovile, e, poiché sa che ha da fare con gente onorata, ordina che si apra la porta di casa e che gli ospiti possano personalmente vedere se, per caso, fra le altre non si trovi la loro capretta.

Egli presenta una ad una tutte le donne di casa. Ad ognuna l’ómu di la pricunta rivolge qualche parola gentile o di sarcasmo e ottiene adeguate risposte. Finalmente, ultima, è presentata la fidanzata, che è riconosciuta come la ricercata. Si chiede al fidanzato se sia sicuro che è proprio questa che gli ha ferito così profondamente il cuore, ed egli, risponde affermativamente con frasi sonanti, le salta vicino e l’abbraccia mentre tutti innalzano grida di gioia e quelli che sono all’esterno sparano nuove fucilate.

Scena originale, è vero?, svolgentesi tutta a battute di dialogo che, se pure improvvisate secondo la circostanza, seguono una specie di schema tradizionale. Si direbbe un’usanza fra le più tipiche della Gallura. Invece, la stessa cerimonia, con la stessa scena dialogata e la stessa finta ricerca della pecorella (o della capretta, o della colomba o d’altra figurazione simbolica della fidanzata), e con un procedimento e un finale in tutto simile a quello ora descritto, la troviamo in Lettonia, sulle rive del Baltico presso un popolo che, com’è noto, conserva ancora, nella lingua e nei costumi, i caratteri delle primitive genti indoeuropee (2).

La sostanziale identità fra le due usanze, in paesi separati da tanto spazio di monti e di mari ci costringe ad ammettere che la pricunta, nel particolare modo drammatico con cui si svolge, risalga ad un’epoca antichissima e riproduca una cerimonia che, migliaia d’anni or sono, doveva esser diffusa per una vastissima aerea, presso le più diverse genti. Comunque ─ questa è la ragione per cui l’abbiamo qui ricordata ─ e questa graziosa cerimonia prenuziale è uno dei tanti elementi, di cui ancora è ricca la tradizione popolare della Gallura, che si rivelano preziosi per la ricerca etnografica e gli studi comparativi.

Ma, com’ho detto prima, il presente volume può piacere moltissimo anche a un lettore non specialista, che possegga quella illuminata curiosità da cui la vera cultura si alimenta,

C’è tanta poesia in questa semplice vita di pastori! La gioia per la nascita di un bimbo, ad esempio, si concreta in forme tradizionali d’augurio che hanno sapore di semplicità agreste e una vibrazione di toccante umanità. Appena il bimbo è nato, il padre lo solleva sulle sue braccia e, dopo aver per tre volte alitato sul suo volto, e dopo averlo baciato, lo depone sopra una soffice pelle di capra. Quando poi l’infante vien portato per la prima volta in casa dei padrini o di amici, questi sono tenuti a regalare un piccolo oggetto, che dev’essere di color bianco, una moneta d’argento, un uovo, un asciugamano, e pronunciano brevi versi di augurio:

Com’è biancu chistu dònu

Vènghia biancu lu tó capu,

Veccju mannu, bònu bònu (2).

Com’è bianco questo dono

divenga bianco il capo.

Vecchio grande, buono buono.

La mamma Gallurese nel cullare il suo bambino trova immagini delicate, metafore arditissime, accenti di vivo sentimento:

Dròmmi chi sei di mamma rósa

di mamma rósa fiurita lu cori méu e la mé ’ita…

lu mé bèddu russignólu

lu chi canta cun dulciura…

Dròmmi lu mé cunsólu…

Sangu lu mé latti sia

chi alimenti li tò ’eni.

Dormi che sei rósa di mamma,

di mamma rósa fiorita, mio cuore mia vita.

Il mio bello usignolo,

che canta con dolcezza.

Dormi mia consolazione.

Sangue il mio latte sia,

che alimenti le tue vene.

Tra le ninne-nanne qui per la prima volta edite dall’Azara ce ne sono alcune che vengono a porsi per valore di poesia accanto alle più felici espressioni dell’amore materno.

Così, tutto il festoso rito con cui ancora si attua il matrimonio in Gallura assurge a un vero e proprio spettacolo, con una somma di genuini valori estetici che ci permette di considerarlo e valutarlo anche come opera d’arte. E chi vuole comprendere l’arte popolare nel segreto della sua natura e della sua forza espressiva non deve accontentarsi di cercarla nelle vetrine dei musei, ma deve osservarla in queste manifestazioni collettive ove i diversi elementi si compongono e si fondono in un tutto che raggiunge il valore assoluto della poesia.

Il mattino delle nozze ha luogo lu jocu oppure la currita di la rucca, una specie di palio tra i partecipanti al corteo.

«Ai cavalieri di la palti di l’ómu che, nella vigilia hanno fatto la cavalcata di assalto allo stazzo, si uniscono quelli di la palti di la femmina, onde la cavalcata diventa molto più numerosa e il colpo d’occhio che essa offre è veramente magnifico. Alla varietà dei vivaci colori dei costumi, si unisce la irrequietezza dei cavalli che devono, necessariamente, scalpitare, anche se sono molto mansueti, per effetto degli strappi di briglia e dei colpi di sperone regalati loro dai cavalieri, i quali dimostrano la propria vivacità con grida di gioia e con motteggi reciproci, ai quali partecipano le donne che, per lo più, stanno a gruppéra sui ricchi striglioni, ma qualche volta cavalcano anche baldanzosamente da sole. La sposa è a gruppèra sul cavallo guidato dal padre, mentre lo sposo cavalca a fianco. La cavalcata a un certo punto della strada si arresta e sono scelti i due migliori cavalieri, uno in rappresentanza dello sposo e l’altro in rappresentanza della sposa, Questa, col padre, procede innanzi per il tratto di strada prestabilito, e il padre volta il cavallo traversalmente sul ciglio della strada, in modo che la sposa possa sporgere su questa, col braccio allungato, la rucca, cioè una conocchia nuovissima non ancora usata, ornata di cinque nastri dai vistosi colori (rosso, bianco, verde, giallo, celeste).

Appena si accertano che la sposa ha steso il braccio, partono contemporaneamente i due cavalieri. Chi, primo fra essi, prende, passando, la rucca vince, per la propria parte, la gara…

«Quando gli sposi giungono innanzi alla loro casa sono accolti da una pioggia di fiori e una delle madri, oppure, se partecipano entrambe al corteo, una parente getta sugli sposi il grano e il sale contenuto in un piatto, che viene frantumato a pochissima distanza dai piedi degli sposi, in segno di allegria o quale auspicio di matrimonio fecondo e felice.

Il gettito del grano e la rottura del piatto sono accompagnati da una frase di buon augurio, come in bòna fultuna sia; Déu vi dia la bòna sòlti; bòna fultuna v’acco[u]mpàgnia; in ora bòna entriti in casa; filizitai vi dia Déu; fiddóli masci e dinà a calasci (a cassetti) e simili».

Ma chi vuol avere il quadro completo di questa festa, la quale per il popolo, è, insieme, rito, opera d’arte e solenne momento della vita individuale e sociale, cerchi le nitide e precise pagine dell’Azara.

Noi abbiamo voluto soltanto additare alcuni degli aspetti e motivi che rendono il libro utile agli studiosi, interessante e piacevole per una vastissima cerchia di lettori.

Il fatto che questa collana di studi e testi di tradizioni popolari si inizi con l’opera di un giovane ingegno, dedicata a illustrare la sana vita agreste di una gente eroica e fedele, ci sembra racchiudere un suo profondo significato e costituire il più arridente auspicio.

Le eccezionali condizioni determinate dallo stato di guerra ci hanno tolte la possibilità di dotare il volume di una compiuta illustrazione documentaria, eseguita in loco, sì che per una parte delle fotografie abbiamo dovuto accontentarci di scene analoghe, anche se relative ad altri luoghi delle Sardegna. Ne chiediamo venia si lettori.

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