Presentazione

di Guido Rombi

Un’opera di pregio, ancora poco diffusa e poco conosciuta

Tradizioni popolari della Gallura. Dalla culla alla tomba (Roma, Edizioni Italiane, 1943) di Maria Azara è certamente l’opera più rilevante concernente gli studi folcloristici della Gallura.

Prima di questa, sull’argomento vi erano state altre due pubblicazioni, uscite una a ridosso dell’altra: Le tradizioni popolari della Gallura, 1899, di Francesco De Rosa, e Per il folk-lore della Gallura. Ninne nanne, filastrocche, giuochi, indovinelli, proverbi ecc., 1900, di Giovanni Mari. Erano ormai trascorsi ben 43 anni. E ad essi, e più a quello di Mari – altro rilevantissimo lavoro cui si è provveduto a dargli in questo sito Gallura Tour nuova dignità e la meritata importanza e visibilità –, l’Azara fa spesso ampio riferimento.

Il libro fu dato alle stampe nel gennaio del 1943 per volontà di Paolo Toschi ad inaugurare la collana «Studi e testi di tradizioni popolari», sotto gli auspici della Regia Università di Roma e del Regio museo di etnografia italiana»[1]. (Si trattava sostanzialmente della tesi di laurea discussa dall’autrice nel 1940 alla Facoltà di lettere della R. Università di Roma per il corso di «Letteratura delle tradizioni popolari» tenuto dall’illustre professore).

Vide quindi la luce durante la seconda guerra mondiale, in un momento molto critico per il nostro Paese. Correva il gennaio 1943, e già dall’estate 1942 la Sardegna cominciava ad essere sempre più isolata dal Continente: fu a causa di queste condizioni di guerra che il libro non poté essere chiuso con un più opportuno corredo documentale fotografico. Così al riguardo Toschi nella prefazione: le «eccezionali condizioni determinate dallo stato di guerra ci hanno tolte la possibilità di dotare il volume di una compiuta illustrazione documentaria, eseguita in loco, sì che per una parte delle fotografie abbiamo dovuto accontentarci di scene analoghe, anche se relative ad altri luoghi delle Sardegna. Ne chiediamo venia ai lettori»: cosicché questo libro tutto dedicato alla Gallura usciva con quattordici immagini di altri paesi della Sardegna (prevalentemente di Desulo) e solo cinque di Tempio e Gallura.

Seguirono altri drammatici anni (lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre, il governo del re al Sud e la Repubblica sociale di Salò al nord, la fratricida guerra civile, i convulsi anni del dopoguerra e della ricostruzione) che praticamente ne impedirono non solo la diffusione – che si può dire praticamente non ne ebbe alcuna, visto che le poche copie stampate andarono presto esaurite a beneficio principale degli studiosi – (sarebbe interessante sapere quante copie furono pubblicate, e quante di esse, e quando, raggiunsero la Sardegna, anzi meglio la Gallura: davvero presumiamo siano state poche unità, la biblioteca di Tempio Pausania ne possiede una delle poche), ma anche la semplice conoscenza ai sardi e ai galluresi in particolare.

Si consideri poi, che di lì a qualche anno – nel 1946, a soli 26 anni (mancavano quattro mesi a compierne 27) – Maria Azara inaspettatamente morì, a Roma. E non c’è alcun dubbio che anche la sua prematura morte molto contribuì alla successiva mancata diffusione dell’opera.

E come passò quasi inosservata la sua pubblicazione così a Tempio lo fu praticamente anche la sua scomparsa in quegli anni convulsi dell’immediato dopoguerra. Un silenzio che è arrivato sostanzialmente fino ad oggi.

Infatti – nonostante alcuni successivi e anche molto significativi momenti di apprezzamento e ricordo della studiosa e della sua opera da parte di nomi tra i più illustri del folclore italiano (oltre a Toschi, spiccano Giuseppe Cocchiara, Ernesto De Martino, Giovanni B. Bronzini, Francesco Alziator), e nonostante il suo maestro già nel decennale della morte ne auspicasse la ristampa –, si è dovuto attendere al 2005 per avere una ristampa anastatica di Arnaldo Forni editore di Bologna, specializzato in questo genere, promossa dall’etno-antropologo Andrea Mulas, (Peraltro mi onoro dire che intorno al 2002 avevo segnalato io stesso ad un noto editore sardo l’opportunità di provvedere alla sua ristampa, insieme ad altre due).

E tuttavia è forte impressione del sottoscritto autore di questa presentazione che nemmeno questa ristampa abbia colmato il troppo silenzio accumulato negli anni.

Pertanto, con questa pubblicazione digitale di Gallura Tour nel web, si spera di recuperare ora un po’ del tempo perduto, permettendo a tutti – a partire dalla gente di Gallura – di goderne, e insieme di tributare il migliore onore e omaggio alla memoria della sua autrice che immortalò in questo libro la terra natale dei genitori, della quale – lo si percepisce chiaramente – sentiva con forza pulsare l’antica linfa vitale nella sua anima.

Profilo biografico di Maria Azara

Pari sorte di ignoranza, collegata alla poca diffusione e circolazione del libro, ha avuto la figura della sua bravissima autrice. (Prima di questo mio approfondimento, nemmeno si sapevano le date di nascita e di morte).

Eppure proveniva da una delle famiglie più in vista di Tempio: figlia del celebre giurista tempiese Antonio Azara[2] e di Anna Maria Bassu, nacque a Roma il 23 maggio 1919, e sempre a Roma morì il 30 gennaio 1946, probabilmente di polmonite.

Aveva due fratelli, Alberto, più grande di lei di due anni, e Corrado (morto in tenera età).

Quel poco che possiamo aggiungere di Mariella (come era familiarmente chiamata) lo possiamo desumere solo e soltanto dalle pagine di questo suo libro, tra le righe della presentazione di Toschi e da certi passaggi autobiografici sparsi nel testo.

Vediamo cosa dice Toschi: innanzitutto che era figlia di un alto magistrato, dal quale «certamente» aveva preso «quel particolar senso giuridico per cui le cose sono vedute e rese con un loro ordine progressivo e sistematico e la materia viene quasi per natural moto a disporsi con quella organicità logica e ferrea con cui si susseguono, nel codice, articoli e commi». L’alto magistrato in questione era appunto il tempiese Antonio Azara: sebbene diversi avrebbero potuto immaginare, Toschi non dice il nome, un modo raffinato per non fare velo ai meriti e alla bravura della ragazza e non dare ai lettori l’impressione di una “favorita”.

E poi Toschi ci regala di lei una pennellata personale e intima: Maria si distingueva «per una serietà timida e chiusa e un nativo candore».

Leggendo invece le pagine scritte dalla giovane studiosa, si coglie con chiarezza che ella, pur vivendo a Roma, conosceva e frequentava da piccola Tempio e la Gallura dove veniva perlopiù in vacanza al seguito dei suoi genitori che vi avevano familiari e parenti vari. Ed è molto probabile che l’interesse anche scientifico per le tradizioni popolari sia stato determinato dalle sue personali esperienze ed emozioni in loco.

Ci sono più passaggi al riguardo nel libro: li raccogliamo tutti insieme perché, non avendo molte notizie di lei non resta che spremere quel poco che abbiamo a disposizione.

Innanzitutto nella introduzione:

«Ricordo, infatti, quando ancora bambina recandomi a passare le vacanze in Sardegna presso i nonni partecipavo ai giochi delle mie coetanee; quando ascoltavo con avidità le favole di fate e di orchi e quelle che, con carattere di leggende locali, illustravano le lotte fra gli spiriti del bene e quelli del male; quando i nostri vecchi contadini parlavano fra loro dei tempi della loro prima giovinezza tanto migliori dei presenti, essi dicevano e delle feste e dei costumi e dei fatti straordinari, avvenuti in epoche anteriori, tramandati ad essi dai loro antenati, ma sulla cui autenticità non ammettevano dubbio».

«Non ho potuto, per esempio, mai più dimenticare la favola del “pundaccju di setti barretti” (l’incubo) che le domestiche mi raccontavano, quando, non volendo addormentarmi, facevo perdere loro il tempo e la pazienza. “Ricordati”, mi ammonivano, “se non ti addormenti subito tranquilla, verrà lui sul tuo petto e ti farà stare ben ferma!”. Era tanta l’impressione che ne subivo, che non soltanto l’incubo mi opprimeva talvolta nel sogno, ma interrogavo le mie piccole compagne per sapere come esse facessero».

«Un po’ cresciuta negli anni, mi piaceva molto ascoltare le poesie improvvisate, specialmente nel periodo della vendemmia, piene di grazia, ma talvolta anche pungenti, che spesso mi accadeva di udire, fra un canto e l’altro scambiate fra vendemmiatrici e portatori d’uva, di rado anche fra vendemmiatori di vigne vicine separate da un muricciolo a secco o da bassa siepe».

«Una gita nei dintorni di Tempio, specialmente se si dovesse assistere a qualche festa in uno stazzo, era per me una grande gioia. Restano indimenticabili (e spero di riprenderle presto quando la vittoria avrà coronato le armi dei nostri prodi soldati) le gite ad Aggius, il grazioso villaggio dove ancora si conservano più tenacemente che altrove i bei costumi e le antiche tradizioni».

E queste le testimonianze sparse nel testo della sua personale confidenza con le tradizioni popolari della terra dei genitori, anche la sua terra.

Sulla nascita: «Di quest’ultima forma di presagio ho sentito parlare da qualcuno anche a Tempio».

Così parlando dei moniti contro il maligno che tentasse di far male al bambino appena nato: «Le più efficaci sembrano essere queste che ho sentite ripetere molto spesso in simili occasioni: “colpu di badda” oppure a “colpu di pilotta” (colpo di palla); “fusilata” (fucilata), “alchibusata” (archibugiata), “staccata” (stoccata); pugnalata (idem); “mòlti mala” (cattiva morte); “mala Pasca” (cattiva Pasqua) e simili».

E così a proposito degli scongiuri: «Qualche volta la parola di scongiuro è alterata, perché in forma aspra dell’imprecazione ripugna a chi deve pronunziarla. Ho sentito dire per esempio “alchiminata” (che non ha significato) invece di “alchibusata” e così “mala padda” (cattiva paglia) invece di “mala Pasca” ecc.».

Sulle donne guaritrici del malocchio: «A Tempio l’ho sentita chiamare “la femina di l’occj”».

E delle “punghe”, oggetti contro il malocchio: «Da qualcuno ho sentito affermare che queste punghe, per essere particolarmente efficaci, devono essere messe indosso in giorni e ore determinate».

E dell’ “azziziata”, il suono caratteristico che si emette sia quando si coccola un bambino, sia quando il cavaliere lancia il cavallo al galoppo: «La parola deve avere un significato di più ampia portata, nel senso generico di incitamento, perché ho sentito, talvolta, fare dal cavaliere lo stesso rumore quando vuol lanciare il cavallo al galoppo».

O dei modi di dire riguardo al battesimo: «Ad altri ho sentito dire: “fétimi cristianu chistu morareddu (fatemi cristiano questo piccolo moro) oppure… “chista resaredda” (questa bestiola) sempre con lo stesso sottinteso, che vi è la vita animale nel bambino, finché non è battezzato, ma non vi è l’anima vera e propria».

O sui giochi, per esempio “A li carruleddi” (ai carretti): «I ragazzi costruiscono essi stessi, ma più spesso si fanno costruire dai genitori o da fratelli o parenti, carri in miniatura. Qualche volta ho visto far funzionare come ruote del “carruccio” perfino torsi di pannocchie di granturco, collegati da un bastoncello». […]. Ho visto, poi, spesso giocare con un carrettino caratteristico formato da una o due tavole piatte».

O sulle gare poetiche: «Mi duole di non essere in grado di riprodurre alcune di queste “disputti”. Assistei ad una di esse quando non pensavo di compiere questo lavoro e non ho potuto finora ottenerne dai miei gentili informatori».

O sulla vendemmia: «Una volta la pigiatura dell’uva era fatta dentro una larga cassetta sospesa sulla vasca (“lu laccu”) con molti fori nel fondo, da uno o due pigiatori […]. Oggi in tutte le campagne si usano pigiatrici meccaniche; ma se a queste capita un guasto, la vecchia pigiatura torna in onore. Ho avuto occasione qualche anno fa di assistere alla graziosa scenetta».

E per finire sulle corse dei cavalli: «Dopo l’abbeverata i cavalli sono lanciati al galoppo e spesso a corsa sfrenata in gara fra essi. È superfluo dire che l’abbeverata serve, spesso, soltanto di pretesto ai ragazzi per fare la cavalcata. Ne ho visto nelle campagne di Tempio montare il cavallo a dorso nudo e guidarlo con una semplice cordicella al collo, passante per la bocca dell’animale e tenuta per un solo capo dal piccolo cavaliere».

Dal saggio vengono fuori altre notizie biografiche familiari, per esempio che la famiglia Azara aveva terreni e vigne nei pressi di Tempio.

Maria Azara attendeva «col più vivo desiderio» il giorno di un suo ritorno in Sardegna, per «approfondire, con ulteriori indagini personali, sui luoghi», lo studio delle tradizioni dei galluresi.

Sperava di farlo appena finita la guerra (conflitto che, al momento della laurea e forse anche della pubblicazione, viveva con sentimenti ancora pervasi di ardente patriottismo che – come per la gran parte della sua generazione – coincideva inevitabilmente, ancora, con la patria fascista).

Invece non ci fu nessun ritorno nell’amata Gallura dei padri. Morì – come detto in esordio – ad appena 26 anni, un anno dopo la fine della guerra, nel pieno della temperie della nuova Italia repubblicana, nella quale il padre Antonio – dopo essere stato prosciolto dai procedimenti di epurazione per i suoi uffici di primo piano espletati nella magistratura durante il ventennio – veniva ad avere un ruolo da protagonista, eletto senatore della Democrazia cristiana per più legislature proprio nel collegio di Tempio, divenendo finanche ministro della giustizia nel 1953-54.

Concludiamo questo ricordo della autrice con la testimonianza del nipote Antonio Azara – noto Antonello – (anche lui giudice, come giudice e giurista fu il padre Alberto e oggi da giurista studia il figlio Alberto).

Salve dott. Rombi,

ricordo che mio padre mi riferì che sua sorella (la mia zia Mariella, in famiglia era così chiamata) morì di polmonite.

La malattia fu alquanto breve: le cure a quei tempi (fine della seconda guerra mondiale) non erano, poi, certo, molto efficienti…

Credo, comunque, che zia Mariella non fosse una ragazza che godesse di ottima salute.

I genitori di Mariella (mio nonno Antonio e mia nonna Maria), così come suo fratello (mio padre), furono colpiti da un dolore atroce: mio nonno e mio padre – forse anche per cercare di lenire l’angoscia – ripresero subito i loro rispettivi lavori e le loro relazioni sociali; mia nonna, invece, si chiuse in casa nella più profonda sofferenza.

Io ero un bambino (avevo 7 anni, quando mia nonna morì) e la ricordo sempre vestita di nero e triste.

Le notizie sopra riferite possono essere riportate nei suoi scritti, senza alcun problema di privacy.

Se dovessi reperire ulteriori informazioni, sarà mia cura comunicarglieLe.

Saluti cordiali.

Antonello Azara

La rilevanza culturale del libro

I meriti della giovane studiosa Maria Azara

Come scrisse Paolo Toschi – uno dei padri delle scienze folcloriche – in principio e in conclusione della sua prefazione, a cui è d’obbligo far rimando, Tradizioni popolari della Gallura. Dalla culla alla tomba è un’opera «organica, completa, condotta secondo i più severi, moderni metodi di ricerca»; inoltre «Il presente volume può piacere moltissimo anche a un lettore non specialista, che possegga quella illuminata curiosità da cui la vera cultura si alimenta».

Queste due considerazioni credo dicano tutto del suo indiscusso valore culturale. Ma niente altro si sapeva, o meglio era giunto fino ai nostri giorni, di questo libro e del suo valore e dei meriti della giovane autrice. A riscattare l’inspiegabile oblio che troppo a lungo ha avvolto una simile opera di valore, di seguito sarà allegata una rassegna di fruttuose e inedite ricerche che ne confermano il giudizio.

Tra gli altri meriti scientifici dello studio dell’Azara se ne sarebbe negli anni aggiunto un altro di non poco conto, riguardante il «Questionario» da lei redatto sul modello di quello del celebre folclorista francese Arnold Van Gennep (si vedano la prefazione e l’introduzione).

Ecco, è di grande interesse che proprio a questo “adattamento” effettuato dalla ricercatrice romana-tempiese avrebbero attinto negli anni avvenire vari altri studiosi delle tradizioni popolari italiane, a partire dal giovane (ma già tra i migliori) Giovanni Battista Bronzini fino a – niente di meno – Ernesto De Martino. Un merito davvero notevole.

E vediamo ora le citazioni e la considerazione del libro e della Autrice nel panorama degli studi folclorici italiani

1943. Gennaio.

In una lettera a Giuseppe Cocchiara del 30 gennaio 1943, Toschi rivela notizie interessanti della collezione «Studi e Testi» di cui era responsabile e dice che i due [primi] volumi «non attendono che le copertine: sarai tra i primi a riceverli». Oltre a quello della Azara il secondo libro previsto era quello di Bianca Maria Galanti, La danza della spada in Italia.

(Si veda Alessandro D’Amato, Giuseppe cocchiara e «Lares». Dal carteggio di Paolo Toschi, «Lares», vol. 72, n. 2 (maggio-agosto 2006), p. 551, dove sono riportati i primi 12 volumi della collezione: il proposito era di pubblicarne quattro per anno. https://www.jstor.org/stable/26233947

1943. Febbraio.

La prima informazione del libro è sulla rivista «Lares» del febbraio 1943, n. 1, vol. 14, pp. 3-9). https://www.jstor.org/stable/26238290

Paolo Toschi vi pubblica infatti integralmente in anteprima la sua prefazione.

1946. Il primo a ricordare la giovane studiosa – e come vedremo non fu l’unica volta – fu il suo maestro Paolo Toschi. E lo farà nel luogo più autorevole, al Palazzo Firenze di Roma, sede della Società di etnografia italiana, probabilmente poco dopo la morte. Ce n’è traccia su «Lares», vol. 15, n. 1/4 (1949), Atti della società di etnografia italiana, «Commemorazione di soci e studiosi», pp. 133-135 in una sorta di sunto della ripresa delle attività dal 1946. (La rivista non riporta il testo della commemorazione).  https://www.jstor.org/stable/26238888

1947. Nei volumi 7-8 di «Studi sardi», del 1947, a pagina 319 (sezione «Notiziario Bibliografico Sardo 1940-1946»), si dà notizia della pubblicazione e della scomparsa della ragazza. Il pezzo è firmato da Luisa Fratta, giovanissima letterata (classe 1920) in seguito – dagli anni Cinquanta – firma dei servizi culturali su l’«Unione Sarda», amica e lettrice e recensore di Dessí:

«Accompagnato da una molta lusinghiera prefazione di Paolo Toschi, il volume dell’Azara sulle tradizioni con la sua ottima veste tipografica, nitida e accurata nel testo e nelle illustrazioni [sic.! questo no!], ci rivela, anche nella sua apparenza esteriore, lo spirito con cui è stato condotto il lavoro.

C’è in esso tutta l’amorosa, vigile, direi quasi ansiosa diligenza con cui una giovane e seria studiosa, qual’è l’autrice, compone la sua tesi di laurea (ché tale è questo studio) la quale, in questo caso, pare che veramente venga a colmare una lacuna nel campo delle tradizioni popolari sarde se, a quel che dice il Toschi nella prefazione, questa è la prima opera veramente organica e completa per quel che riguarda le tradizioni popolari della Gallura.

Abbiamo dunque uno studio chiaro e nitido, assai (perfino troppo, forse) particolareggiato, condotto col sistema del questionario secondo il metodo del Van Gennep, corredato da note esplicative molto numerose e esaurienti.

E poi nella successiva pagina 320: «Dopo che queste righe di recensione erano state scritte e date alla stampa ci è giunta notizia della morte della giovane studiosa Signorina M. Azara.

Quello che abbiamo letto nel suo bel volume ci appare ora velato dalla commozione e dal rimpianto che questa perdita immatura suscita in quanti lo leggano. Con tale sentimento quest’opera ci appare documento tanto più prezioso in quanto, ormai senza seguito, rimane a testimoniare agli studiosi di cose sarde, della intelligenza e della sensibilità della studiosa scomparsa che, ancora alle soglie della giovinezza, prometteva già tanto bene di sè».

1947. Forse collegato alle righe appena sopra riferite è l’articolo firmato da Salvator Ruju, poeta, scrittore e giornalista sassarese, sulla «Nuova Sardegna» il 29 maggio 1947 (già citato da Mulas nella presentazione alla ristampa anastatica del 2005):

È passata quasi inosservata nella stampa isolana una monografia di Maria Azara dal titolo Tradizioni popolari di Gallura che ha, possiamo ben dirlo, carattere definitivo [….] pregevole volume di bella e nitida stampa, ricchissimo di bibliografia corrente e retrospettiva, di note e commenti che ha una prefazione di Paolo Toschi e interessa vivamente non soltanto la cultura generica dei sardi ma anche la scienza, e, in modo particolare, la demopsicologia.

Siamo davanti a un lavoro organico, condotto con rigoroso metodo scientifico e che, pure essendo di una giovanissima (una sua tesi di laurea) ci appare degno della maturità e della consumata perizia di un dotto.

E a noi che non l’abbiamo conosciuta è grande dolore il pensiero che questa studiosa sia mancata tanto giovine all’affetto dei suoi cari, alla scienza. Certo, ella, sconfinando da quelle del folklore nelle regioni dell’arte, avrebbe potuto affermarsi potentemente nella letteratura narrativa o poetica e aggiungere gloria alla terra già da lei, con questi difficili studi, onorata».

1953. Giovanni B. Bronzini, nell’introduzione alla sua prima importante opera, Tradizioni popolari in Lucania, Matera, Montemurro, 1953, scrivendo a De Martino «dice di essersi servito per la raccolta del materiale di “un questionario che Maria Azara ha redatto sul modello del Van Gennep”, il quale modello – scrive Annamaria Fantauzzi in un saggio sui rapporti fra i due etno-antropologi – fu, anche per De Martino, un modello di riferimento sia nel rilevamento del materiale etnografico sia nelle ricostruzioni posteriori, pur integrato con altri temi di carattere più sociologico ed antropologico assenti nell’inchiesta di Bronzini e di altri storici delle tradizioni popolari». Infatti, in un appunto dattiloscritto, De Martino enumera, in un primo paragrafo, le località e gli informatori “dai quali si sono avute risposte esaurienti al questionario dell’Azara”, in quindici punti», con modifiche e aggiunte.

Si veda al riguardo Annamaria Fantauzzi, A distanza ravvicinata: Ernesto de Martino e Giovanni B. Bronzini nella Lucania degli anni ’50, in «Lares», vol. 69, n. 2 (Maggio-Agosto 2003). https://fareantropologia.cfs.unipi.it/media/pdf/lares-2003-2-fantauzzi.pdf.

https://www.jstor.org/stable/26233987

1956. Nel decennale della scomparsa sarà di nuovo Paolo Toschi a ricordarla con una nota densa di commozione, nell’articolo Per lo studio delle tradizioni popolari della Sardegna, «Lares», vol. 22 (1956), p. 57: https://www.jstor.org/stable/26239675?seq=2

«E prima di tutto voglio ricordare – né il ricordo ritorna senza suscitarmi nell’animo la più viva commozione – l’opera della mia bravissima, molto amata e sempre rimpianta allieva Maria Azara su «Le tradizioni popolari della Gallura»; opera che già vide la luce nel periodo cruciale della guerra e che non poté avere quella piena risonanza di apprezzamenti e di effetti pratici che avrebbe certo suscitato, anche perché presto l’edizione si esaurì ed è ora divenuta introvabile. Il ristamparla sarà, dunque, non solo un atto di reverente omaggio alla memoria di una giovane studiosa sarda che si sarebbe certamente fatta molto onore nel campo scientifico illustrando, col suo nome e col suo lavoro, la sua isola nativa, ma sarà anche un servigio reso ai nostri studi».

1956. E sullo stesso numero di «Lares», a p. 48 https://www.jstor.org/stable/26239673 – nell’articolo Storiografia delle tradizioni popolari di Sardegna –, figura un altrettanto commossa lode di Francesco Alziator:

«Da oltre un ventennio ormai alla scuola romana di Paolo Toschi, un altro degli uomini al quale tanto devono gli studiosi sardi, si vanno formando le nuove leve degli studi folkloristici, leve ricche di esperienze e di speranze, dalle quali già emergono promettenti nomi ed alle quali apparteneva una studiosa che tutti già sembrava precederli e superare per altezza d’ingegno: Maria Azara, stroncata da un’impietosa morte mentre tutto sembrava spalancarsi l’avvenire. Quell’avvenire che fallì alla giovane gallurese, quelle mete che essa sognava, possiamo, Dio lo voglia, raggiungerle noi, la nostra «compagnia picciola» di studiosi che varca il mare «dei remi facendo ale a un folle solo».

1970. Toschi cita l’opera e la sua prefazione in una replica critica a Enrica Delitala (Gli studi sulla narrativa popolare sarda. Profilo critico e bibliografia analitica, «Lares», vol. 36, n. 3/4 (Luglio-Dicembre 1970), p. https://www.jstor.org/stable/26240939

[…] un mio articolo su Le tradizioni popolari della Gallura», prefazione al volume della mia allieva Maria Azara, tesi di laurea discussa con me alla Facoltà di Lettere di Roma».

1981. Giuseppe Cocchiara, Storia del folklore in Italia, Milano, Sellerio, 1981.

«Dobbiamo ad un’allieva del Toschi, Maria Azara, un bel lavoro, Tradizioni popolari della Gallura, Roma 1943 (che va segnalato non soltanto per la solida impostazione, gli elementi materiali (riti, oggetti ecc.), ma anche i fatti demopsicologici (superstizioni ecc.). Perché se è vero che senza uno sguardo alle sequenze non si può spiegare il meccanismo dei riti, come dimostra il Van Gennep, non è men vero che senza conoscere le credenze non solo non si può vedere il carattere degli oggetti, necessari ora per la forma speciale, ora …

2004. Antonella Caforio, La lotta per la sposa. qualche riflessione su alcuni riti di passaggio, «Studi di Sociologia, Anno 42, Fasc. 4 (Ottobre-Dicembre 2004), pp. 465-477, che a pagine 468-469, riporta tutto il racconto della Pricunta come in Maria Azara (pp. 181-182 dell’originale).

Nuove illustrazioni (work in progress)

L’opera – lo si è accennato sopra – presentava una solo ma evidente lacuna/incongruenza, dovuta non già ad imperizia dell’autrice e del curatore ma al peculiare momento storico in cui fu stampata (il gennaio 1943) che vedeva la Sardegna pressoché isolata dal Continente per la quasi completa interruzione dei collegamenti civili.

Ed ecco che questa incongruenza sarà ora colmata. Obiettivo primario sarà di illustrare ogni pagina con molte belle e appropriate immagini di Tempio e della Gallura e disegni di autore a raffigurare i giochi di bambini e ragazzi e altri momenti di vita quotidiana delle genti di Gallura. (Si tratta infatti di un’opera che si presta in modo direi immediatamente naturale ad essere illustrata, considerando Che la sua “destinazione d’uso” – «Dalla culla alla tomba» – usando le parole del complemento del titolo, si volge assai bene anche ad una platea di giovani lettori).

È oltre modo gradita la collaborazione di quanti vorranno contribuire alla illustrazione.

AVVERTENZA

Si è creduto poi opportuno procedere ad altri interventi per contribuire a rendere questo brillante saggio ancora più organico nella forma ed essere più facilmente letto e goduto.

Il più importante è stato di spostare nel corpo del testo molte note diciamo di contenuto (la gran parte), prima poste a piè pagina, che ben integrano e ben si amalgamo con la narrazione “principale”, lasciando invece a piè pagina quelle bibliografiche.

Il testo è stato poi sottoposto ad un profondo editing sia per attualizzarlo alla lingua italiana corrente eliminando altresì qualche refuso, sia soprattutto sui tanti brani in gallurese.

Se sotto il primo aspetto non sono molti gli interventi effettuati, perché la scrittura dell’originale è perlopiù semplice e il lessico simile al presente[3], al contrario è stato svolto un profondo intervento di revisione e uniformazione linguistica sulle tante pagine di scritti in gallurese e sulle molte parole in lingua disseminate dal principio alla fine del testo, per coniugare esigenze di tradizione e di modernità e insieme di correttezza linguistica/fonetica. (Si tratta infatti di scritti pensati perlopiù ad uso locale, destinati ai conterranei che non avevano certo bisogno di particolari “segni” grafici per sapere come esattamente pronunciarli; e l’aspetto linguistico ovviamente esulava dagli scopi dell’autrice, cui interessava essenzialmente dare testimonianza delle tradizioni popolari dalla nascita alla morte attraverso i testi popolari, riportandoli come li riceveva, comunque opportunamente tradotti in italiano).

La revisione linguistica ha però posto tutta una serie di problemi in un campo scivoloso se non divisivo come quello della migliore ortografia convenzionale per il gallurese (che ancora ne è priva, anche se dei tentativi sono in corso tra gli inevitabili dissensi).

Poiché però scopo di questa riedizione è che anche i non galluresi abbiano la possibilità di conoscere/scrutare/capire meglio l’idioma locale, si è deciso di uniformare tutti i testi in lingua allo standard ortografico suggerito da Leonardo Gana per il suo vocabolario gallurese (il primo ad essere pubblicato nel 1970 con l’apporto dei più valenti intellettuali locali del tempo tra cui Bernardo Sansan), i cui criteri, dopo alcune personali ricognizioni documentali sui testi galluresi del ‘700 e ‘800 e fino alla svolta degli anni ’80 del canzoniere curato da Giulio Cossu, erano già apparsi a chi scrive i migliori considerando le esigenze di tradizione e modernità linguistica e insieme di fonetica, soprattutto in riferimento all’annosa discussione di come trascrivere i tre ormai “famosi” fonemi /kç/ ɡʝ/ ɖɖ/ (mai nei testi del passato figura il trigramma ddh e solo raramente chj – cchj  e ghj).

Dopo aver poi constatato che questa “impressione” di novizio (ma non di metodo di studi) della disciplina aveva corrispondenza nei pareri invece esperti e referenziati linguisti di ambito universitario, ecco che ogni riserva sui criteri di revisione linguistica è stata completamente sciolta.

In questa revisione si seguiranno pertanto i criteri Gana – Mura[4] che trascrivono i “famosi” fonemi /kç/ ɡʝ/ ɖɖ/ cj /gj/ dd, ritenendo la loro proposta assolutamente sufficiente a caratterizzarli foneticamente (senza bisogno insomma di introdurre la h e scrivere chj / ghj / ddh che renderebbe i testi inutilmente ridondanti di una h non necessaria linguisticamente e nemmeno presente nella tradizione storico-linguistica del gallurese); in più evidenziando nel testo in neretto, come aggiuntivo e forse non necessario elemento di sussidio fonetico, il digramma dd quando corrispondente alla cacuminale o retroflessa.

La ricerca dei lemmi, pur espunta delle h, non è peraltro difficile nei vari vocabolari che pur hanno ritenuto di inserirla (su tutti Francesco Rosso e Salvatore Brandanu).

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[1] Che il libro fosse il primo di una collana di studi e testi di tradizioni popolari lo dice Paolo Toschi nella sua presentazione.

[2] Sul web sono diverse le voci che riguardano l’insigne giurista tempiese Antonio Azara.

La tradizione e la vocazione della magistratura si sono mantenute nel tempo in capo all’asse genealogico maschile del primogenito: Alberto fu anche lui valente giurista, il figlio Antonio (noto Antonello), oggi in pensione, è stato alla fine della sua carriera di magistrato presidente della terza e della quarta sezione civile della Corte d’Appello di Roma, mentre avvocato e dottore di ricerca è al momento il giovane erede Alberto Azara.

[3] Ecco un esempio di parole modificate: «guisa, donde, ubbriaco, fascie, treccie, goccie, diecina, intiere, elittica, riddano, eseguisce, empiastri, ombellico, divozione, poledri, giovine, giovinotti, bocciuolo, muricciuolo, nocciuole, fagiuoli. sopratutto, lanuggine».

[4] Di Riccardo Mura si veda l’esaustivo saggio sugli usi linguistici nella scrittura gallurese (Il gallurese e la sua grafia. Da ‘lingua argine’ a ‘lingua ponte’  (in Daniela Marzo – Simone Pisano – Maurizio Virdis, a cura di, Per una pianificazione del plurilinguismo in Sardegna, Cagliari, Condaghes, 2022) – in cui, dopo aver fatto il punto in modo comparato e circostanziato degli usi ortografici dei più noti autori di linguistica gallurese, avanza una proposta di scrittura non dissimile da quella già di Leonardo Gana (e di fatto non contrario su basi linguistiche è stato anche Mauro Maxia, nonostante la sua scelta di inserire la h nella recente curatela di testi galluresi per il suo La letteratura gallurese dal 1600 a Fabrizio De André, Nor, 2023).

Si veda QUI l’ottimo saggio di Riccardo Mura

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