La proprietà fondiaria

di Silla Lissia

Dalla Presentazione di Guido Rombi

Il quinto capitolo, LA PROPRIETÀ FONDIARIA, ripercorre la storia della strutturazione delle terre in Gallura prima e soprattutto dopo l’abolizione del regime feudale, nel 1836. Vi troviamo quindi analizzata la formazione degli stazzi, cioè il passaggio dalla proprietà feudale a quella privata, con una vera e propria radiografia della proprietà terriera prima del 1840 e dopo il 1853, quando fu istituito il catasto (proprio avvalendosi di tabelle catastali Lissia studia la distribuzione delle terre in rapporto al numero dei proprietari e agli abitanti paese per paese).

Le previsioni che Lissia fa sull’assetto fondiario, tipiche del pensiero socialista e marxista, e che pur ebbero grande diffusione nelle regioni del centro-nord del Continente, non trovarono però realizzazione. Egli credeva che la tendenza al frazionamento della proprietà fondiaria in Gallura fosse arrivata al culmine, e che, di lì a non molto, sarebbe stata sostituita dall’accentramento collettivo nelle forme del cooperativismo agricolo, non in reazione al capitalismo ma come unico mezzo a disposizione dei proprietari per sottrarsi alla grave situazione economica in cui versavano.

Quando venne fuori il decreto di Carlo Alberto, che aboliva i feudi e che avrebbe dovuto segnare, con la trasformazione della costituzione fondiaria, il principio di una nuova era di civiltà per la Sardegna, le terre erano divise in feudali, comunali e private.

Le feudali, ed erano la grande maggioranza, comprendevano tutte le terre soggette al dominio diretto del feudatario e su le quali il signore del luogo percepiva le imposte feudali dai vassalli, che ne avevano il dominio utile.

Le comunali, che erano indipendenti dal feudatario o libere, comprendevano quelle terre il cui dominio diretto apparteneva al Comune ed il dominio utile era esercitato dai comunisti mercé tributo o gratuitamente. Le private infine, ed erano una esigua minoranza, comprendevano quelle terre delle quali tanto il dominio diretto quanto il dominio utile erano riuniti nelle stesse mani, ed erano libere. Ma perché queste terre private costituissero delle vere proprietà perfette, era necessario che fossero chiuse; altrimenti rientravano nel dominio utile comune, giacché su tutte le terre aperte gravava la comunanza dei pascoli.

Le terre aperte erano divise in prati, vidazzoni e salti.

Prati venivano chiamate quelle terre poste in vicinanza del villaggio e destinate al pascolo comune degli animali da lavoro e del bestiame domito dei paesani.

Vidazzoni quelle che temporaneamente venivano sottratte al pascolo comune e destinate alla semina. Ogni due o tre anni, secondo la durata del turno di coltivazione, queste terre venivano divise fra gli agricoltori del paese, che le lavoravano e le seminavano per conto proprio. Finito il raccolto tornavano al pascolo comune. Queste vidazzoni potevano cadere tanto su terre feudali come su comunali e private.

Salti erano chiamate tutte le restanti terre, compresi i boschi e le montagne, ed erano destinate al pascolo comune delle greggi e delle mandrie dei pastori.

L’unità amministrativa e territoriale feudale era ancora il Comune.

Ogni Comune aveva la sua zona di terre private chiuse nei dintorni del paese e coltivate a vigne, orti, frutteti, etc. Aveva il suo prato comune per il pascolo degli animali da lavoro e per il bestiame d’allevamento degli abitanti del villaggio: aveva le sue vidazzoni che erano più o meno numerose e vaste a seconda dei bisogni del Comune; aveva i suoi salti, sui quali i pastori facevano pascolare il loro gregge ed i paesani vi esercitavano i diritti d’ademprivio[1].

Come si vede la costituzione fondiaria del Comune sardo feudale al principio del secolo passato ricorda la costituzione di un villaggio collettivista. Come questo, il Comune sardo ha le sue terre granarie, che vengono periodicamente divise fra gli agricoltori e che dopo il raccolto tornano al pascolo comune; ed ha le terre da pascolo è da bosco, che rimangono indivise e sono godute in comune. Anzi più propriamente il Comune sardo rappresenta quella fase di trasformazione del villaggio collettivista, in cui la proprietà privata comincia a sostituirsi alla proprietà collettiva.

Nel Comune sardo veramente la proprietà privata della terra è comparsa da un pezzo, ma essa non è riuscita a sottrarsi completamente al dominio collettivo se non per quella piccola parte delle terre che sono coltivate a vigna ed orto etc. I vari editti, che concedevano ai proprietari ed ai coltivatori la facoltà di chiudere le terre destinate a speciali coltivazioni, non hanno mai trovato esecutori appunto per queste abitudini collettiviste, che anche sulle terre private riconoscevano l’antico diritto della collettività.

La costituzione fondiaria sarda è il risultato di tre civiltà che si sono sovrapposte l’una all’altra senza distruggersi. L’antico e primitivo diritto comunista sopravvive al diritto privato quiritario e su entrambi si sovrappone il diritto feudale lasciandoli però immodificati.

É perciò che accanto alla proprietà privata perfetta si trovano la proprietà privata imperfetta e la proprietà comune, sulla quale il feudatario esercita il suo diritto di ricognizione feudale.

Gli storici sardi cadono in un grosso errore, quando pretendono di far cominciare gli usi comunisti nell’isola in un’epoca relativamente recente della storia sarda. Il Manno crede di poter assegnare l’origine della comunanza delle terre al tempo delle invasioni saracene, ed il Gemelli ed il Mimaut a quello della invasione dei Vandali[2].

Ma l’abbandono delle terre litoranee, provocato dalle frequenti e ripetute invasioni dei Saraceni, non poteva, come crede il Manno, portare al comunismo. E quale ragione poi avrebbe dovuto spingere i Sardi del centro ad adottare la comunanza della terra, se quest’uso non fosse stata una loro istituzione?

Maggiore apparenza di vero potrebbe avere l’opinione del Gemelli, accettata pure dal Mimaut. I Vandali infatti, quando conquistarono la Sardegna, vivevano ancora in pieno collettivismo, e verosimilmente avrebbero potuto dare all’isola la loro costituzione. Ma i Vandali non hanno mai conquistato tutta l’isola; e però non potevano importare le loro istituzioni nelle zone non conquistate, tanto più che il loro dominio durò ab. bastanza poco. E poi Giustiniano nel prender possesso dell’isola ristabilì l’antica costituzione, restituendo le terre private agli antichi proprietari od ai loro eredi legittimi.

I Cartaginesi ed i Romani non poterono importare nella Sardegna una istituzione, che essi non avevano più. Per cui la comunanza delle terre in Sardegna non può essere che una istituzione primitiva dei popoli sardi.

Che i popoli sardi abbiano vissuto col regime comunista non può negarsi per ragioni di analogia con lo sviluppo di tutti i popoli del mondo. Tutti i popoli infatti in tutti i luoghi sotto i più diversi climi, prima di arrivare all’appropriazione privata del suolo, sono passati attraverso il comunismo. La proprietà privata si è sempre costituita sulla rovina della proprietà comune presso tutte le razze, ed oggi stesso ne abbiamo larghe sopravvivenze in Svizzera, negli Stati Danubiani, nella Russia etc.[3]

Ma fino a quando durarono i popoli sardi nel comunismo, o meglio, quando cominciò ad apparire la proprietà privata? Il Todde crede di poter ammettere l’uso privato della terra fin dall’epoca dei Fenici, perché in quest’epoca era conosciuta in Sardegna la coltivazione della vite[4]. Veramente la ragione per dover ammettere in quest’epoca stabilita la proprietà privata del suolo non è molto valida, perché il comunismo non esclude la possibilità di questa coltura. Nella zadruga slava e nella Svizzera anche oggi si coltiva la vite comunisticamente. Mi pare pertanto più prossimo al vero connettere l’introduzione della proprietà privata con la colonizzazione greca e specialmente con la conquista cartaginese. I Cartaginesi solevano far coltivare le terre dei privati cittadini di Cartagine mercé gli schiavi. Ed è naturale pensare che questo sistema abbiano essi adottato in Sardegna[5].

L’uso privato delle terre però si affermò sotto Roma. Tuttavia anche sotto il dominio romano le istituzioni comuniste dei Sardi continuarono ad aver vigore.

Roma non ha potuto mai sottomettere alcuni popoli montanari dediti alla pastorizia, quali erano gli Iliesi, i Balari ed i Corsi.

Questi popoli vivevano ed abitavano nelle spelonche, si cibavano di carne, latte e formaggio e praticavano la pastorizia. Vivevano insomma in pieno regime pastorale, vale a dire in pieno comunismo, che a testimonianza concorde di economisti e sociologi, il comunismo è l’unica forma di sfruttamento nel regime pastorale primitivo.

Che questi popoli vivessero in pieno regime pastorale, che non fossero cioè arrivati all’agricoltura, lo affermano tutti gli storici da Strabone a Fara; ma le ricerche archeologiche moderne lasciano capire invece che i costruttori dei nuraghi conoscessero già l’uso del frumento. Cosicché i popoli pastori della Sardegna, che sono gli avanzi delle antiche popolazioni che innalzarono i nuraghi e che per sfuggire alla schiavitù ripararono sulle montagne, avrebbero già praticata l’agricoltura e l’avrebbero abbandonata più tardi per le necessità della vita, cui furono obbligati sui monti.

Ad ogni modo che questi popoli fossero arrivati alla coltivazione dei campi o che fossero rimasti sempre nella semplice pastorizia, sta il fatto accertato dagli storici che all’epoca romana essi non coltivavano la terra e vivevano in regime pastorale razziando i campi dei vicini agricoltori.

Su questi popoli Roma non poté dunque estendere mai la sua conquista, anzi con essi venne a patti, secondo i quali Roma rinunciava alla loro conquista ed i popoli pastori si obbligavano a rispettare i seminati dei sudditi romani[6]. E pare anzi che i popoli pastori non rispettassero molto i patti convenuti con Roma e che continuassero sempre a razziare nei campi dei vicini, poiché Tiberio confinò in Sardegna quattromila Ebrei anche per contenere i ladronecci loro[7]. Sotto i romani quindi una gran parte del popolo sardo viveva indipendente con le proprie istituzioni comuniste.

Ma quale fu la sorte degli altri popoli soggetti a Roma? Abbandonarono essi le istituzioni comuniste per passare definitivamente a quelle quiritarie o le conservarono? Roma nella conquista armata delle provincie soleva avocare a sé la proprietà delle terre dei vinti: ma di queste terre una parte ne teneva per sé come ager pubblicus o per distribuirle ai coloni ed il resto restituiva in usufrutto ai vinti mediante il pagamento di un canone. Mommsen ci fa conoscere che in Sardegna le imposte dirette consistevano nella decima, o, se si trattava di terreno da pascolo, nel pagamento di un canone fisso che ogni comune doveva versare annualmente nelle casse dello Stato[8].

Questo sistema d’imposizione ci fa capire che le terre coltivate erano sfruttate individualmente, mentre le terre a pascolo continuavano ad essere sfruttate in comune. Parrebbe quindi che i Sardi soggetti a Roma vivessero col regime collettivista. E che la maggior parte dei villaggi sardi almeno sotto la repubblica fossero organizzati collettivisticamente si deduce anche dalla notizia tramandataci da Diodoro di Sicilia, che cioè al suo tempo (sotto il primo impero) fosse vivissima in Sardegna la tradizione della divisione periodica delle terre[9]. Questa partizione periodica delle terre parrebbe dalla stessa notizia che sotto l’impero fosse venuta a mancare, per cui nell’ultimo periodo della dominazione romana una parte delle terre sarebbe divenuta proprietà privata. E questa trasformazione deve essersi compiuta specialmente in quelle città completamente romanizzate, che avevano i dintorni coltivati a vigne ed orti.

Ad ogni modo questo pare certo che una parte della Sardegna continua a vivere in scambio con Roma, ma con le istituzioni comuniste primitive, e che l’altra parte piglia l’uso privato della terra coltivata, ma conserva sempre l’uso in comune dei pascoli e dei boschi. E questa costituzione Roma adotta per le sue colonie. Nella colonia romana infatti le terre coltive sono divise proporzionalmente e date in proprietà perfetta ad ogni colono, ma i pascoli ed i boschi sono lasciati indivisi e formano il demanio comunale, di cui i coloni usufruiscono in comune[10].

Col progredire dell’impero, come in altre regioni d’Italia, anche nella Sardegna si costituirono i latifondi sulla rovina della proprietà privata e coloniale. Ma il numero di questi latifondi non dovette essere grande, attesa la prevalenza della proprietà collettiva; ed essi dovettero essere circoscritti ai paesi completamente romanizzati. Questa trasformazione della piccola proprietà in latifondo accadde per l’abbandono dell’agricoltura cagionato dalla fiscalità imperiale e si accentuò specialmente nei secoli IV e V quando per la grande miseria i proprietari dovettero vendere i propri figli per pagare le imposte[11].

Dimodoché verso la fine del secolo V, quando la Sardegna fu conquistata dai Vandali, essa poteva esser divisa in due zone: nella romana nella quale accanto alla proprietà comune dei pascoli e dei boschi esistevano la proprietà privata ed il latifondo; e nella sarda, nella quale aveva vigore sempre la costituzione comunista.

I Vandali tolsero ai vinti tutte le terre e le divisero fra loro secondo la costituzione gentile cioè a dire che ogni gente ebbe la sua porzione di territorio, di cui le terre coltivabili furono divise a sorte fra le singole famiglie, ed i pascoli ed i boschi rimasero indivisi per l’uso comune.

Noi non siamo purtroppo in grado di sapere quale veramente era la forma di comunismo, nella quale in quest’epoca vivevano i popoli pastori della Sardegna: ma mi pare possiamo senza grande errore ritenere che essi fossero già arrivati al collettivismo più o meno puro.

Ho già ricordato che questi popoli si obbligarono con Roma a rispettare i campi coltivati dei vicini sudditi romani, per cui è legittimo pensare che a poco a poco anch’essi dovettero arrivare o tornare alla coltivazione dei campi. E naturalmente allora avranno dovuto formarsi due classi: di quelli che si occupavano della coltivazione dei campi e di quelli che continuavano ad occuparsi esclusivamente della pastorizia. Questa divisione porto naturalmente alla separazione delle terre coltivate dalle terre a pascolo. Questa nuova situazione avrà determinato anche l’incremento del villaggio e dell’artigianato per i bisogni dell’agricoltura. E poiché questi popoli vivevano in scambio con Roma, come si rileva dalle numerose strade romane che attraversano le regioni montane, per la necessità della nuova vita avranno dovuto giungere almeno possesso individuale temporaneo della terra coltivata, vale a dire al collettivismo di villaggio.

Ora i Vandali non conquistarono tutta l’isola, ma anche essi si arrestarono a quella barriera dei popoli montani, contro i quali invano aveva ripetutamente dato di cozzo Roma. Per cui i Vandali si fermarono sul territorio già romano e qui importarono il loro collettivismo. Nel secolo VI pertanto tutta la Sardegna viveva nel collettivismo.

Cacciati i Vandali e passata l’isola all’impero d’oriente, Giustiniano cancellò ogni traccia del governo vandalico e ristabilì la proprietà privata restituendo le terre private agli eredi legittimi degli antichi proprietari. Sotto l’impero bizantino si ricostituì dunque il latifondo. Il cristianesimo intanto si era largamente e solidamente affermato in Sardegna e si era formata un’altra nuova casta di privilegiati: il clero. Questo si affezionò le popolazioni con pigliarne le difese contro le malversazioni dei Presidi imperiali e quasi si sostituì a questi nel governo dell’isola. Sorgevano chiese e monasteri e conventi che venivano largamente dotati con largizioni territoriali, cosicché parallelamente all’autorità morale del clero andò crescendo quella temporale; e così si formarono quelle vaste proprietà ecclesiastiche, sulle quali lavoravano a centinaia i servi della Chiesa. Incombeva intanto il pericolo dei Mori ed il governo di Costantinopoli mostrava di aver dimenticato l’isola o forse era impotente a pensare ad un’opera di difesa. I Presidi, abbandonati a sé stessi, non poterono fare quello che altri Presidi avevano fatto nell’esarcato di Ravenna: non poterono cioè affermarsi indipendenti dal potere centrale e padroni delle province, perché col loro mal governo si avevano alienato l’appoggio delle popolazioni, le quali non avevano nessuna fiducia nella loro autorità.

In queste condizioni, per ovviare ai bisogni della difesa e mentre il pericolo incalzava, il popolo sardo cercò in sé stesso il rimedio, nominando condottieri di guerra quei cittadini che, per la loro privilegiata condizione di grandi proprietari e per l’aiuto del clero, godevano la fiducia ed il rispetto delle popolazioni. E poiché il pericolo esterno non cessava col cessare di una guerra magari fortunata, così fu necessario mantenere nelle stesse mani l’autorità militare anche in tempo di pace. Questa nuova condizione spianò la via alla conquista del potere civile, e quei condottieri di guerra si trasformarono più tardi ed a poco a poco nei Giudici re.

Sono varie le opinioni intorno alle origini dei giudicati, né qui è il luogo di discuterne. Però io credo che per comprendere il sorgere ed il mantenersi di questi giudicati sia necessario pensare a due cose: allo stato di guerra e di agitazione in cui viveva in quel tempo il popolo sardo, libero dal governo imperiale; e alla trasformazione che coi giudicati subì la proprietà fondiaria.

La conoscenza di questa trasformazione può sola darci la chiave per spiegare e comprendere l’organizzazione dei giudicati sardi, i quali rappresentano il ponte di passaggio dalla proprietà collettivista alla proprietà individuale privata. La proprietà privata era andata mano mano accentrandosi in alcuni pochi cittadini e nel clero, i quali, profittando dello stato di guerra e d’agitazione in cui viveva il popolo sardo per le invasioni saracene, conquistarono dapprima il potere militare e poi il politico, e di entrambi si valsero per demolire l’organizzazione collettivista dei villaggi. Sennonché né essi erano tanto forti da sopraffare i Comuni, né questi erano tanto deboli da lasciarsi sopraffare né tanto forti da affermarsi; cosicché venne fuori quella organizzazione politico-militare-economica dei giudicati, che è una transazione tra la proprietà collettiva impotente a sopravvivere nella sua interezza e la proprietà privata impotente a vincere la resistenza di quella.

Il giudice infatti, oltre i poteri militari e civili, assunse la proprietà di tutte le terre non private su cui però esercitava solo un controllo parziale. Egli insomma si sostituì alla collettività, di cui prese i diritti, ma non in modo assoluto: essa ne conservava ancora molti che in certo qual modo frustravano l’usurpazione monarchica. Difatti il giudice era il proprietario eminente di tutte le terre non private, solo che in principio non poteva disporne se non col consenso del popolo che ne conservava l’uso comune. Diritto che sopravvisse anche quando si affrancò dal controllo popolare cedendo e donando a suo piacimento le terre del regno; e dovette passare altro tempo prima che egli riuscisse a sottrarre, mediante un atto di imposizione politica, le terre donate a questa servitù d’uso pubblico.

Senza questa comprensione dei giudicati noi non potremmo mai spiegarci la facoltà goduta in un primo tempo dal popolo di eleggere il giudice e di controllarne e sanzionarne gli atti, così come non potremmo spiegarci il mantenimento della servitù d’uso anche sulle terre donate come seccatura de rennu, e pure non potremmo spiegarci la conservazione dell’uso comune su tutte le terre del regno da parte della collettività. Gli utenti, è vero, erano obbligati al pagamento di un certo canone in natura od in lavoro a favore del giudice, ma ciò non era che la conseguenza naturale del passaggio dei diritti dell’ente collettivo al giudice che lo rappresentava e lo sostituiva. Insomma, durante i giudicati le terre erano divise in demaniali o pubbliche o de rennu, in comunali o populares, ed in private.

Sulle terre del regno il giudice aveva il diritto eminente e ne disponeva dapprima col consenso del popolo e poi anche senza. Egli ne donava e ne regalava sia a privati (per esempio ai principi cadetti o donnicelli), sia e specialmente alle chiese ed ai conventi. Allora questi beni donati presero il nome di beni de seccatura de rennu; e la donazione poteva essere temporanea o perpetua. Sulle terre del regno tutti i cittadini avevano il diritto di seminare, pascolare, tagliar legna, far carbone ecc.[12] Questi diritti d’uso erano personali e reali o territoriali: personali, perché ogni suddito aveva il diritto di seminare, pascolare ecc. su quelle terre demaniali poste nel suo distretto: territoriali, perché certe curtes o donnicalie ne godevano come unità territoriale, come fondo rustico.

Infatti i nobili partecipavano a questi diritti comuni non individualmente ma tramite le loro curtes e le loro proprietà. E tali diritti gravavano anche sulle terre donate come seccatura de rennu, se il giudice non ne faceva espresso divieto nell’atto di donazione. La donazione infatti poteva essere, come abbiamo notato, temporanea e perpetua: nel primo caso forse non era necessario l’esonero dei diritti di servitù perché non la proprietà si donava ma le entrate che gli utenti fornivano come tributo d’uso; nel secondo caso invece, quando si voleva donare anche la proprietà, si esprimeva tassativamente il divieto della servitù d’uso[13].

Le terre comunali o populares rimasero quindi come proprietà esclusiva delle singole Comunità, sulle quali “i comunisti” esercitavano i diritti d’uso gratuitamente o mediante canone. Esse venivano divise periodicamente, ed alla divisione presiedevano il curatore che faceva la divisione, il maggiore di scolca e tutti gli abitanti del villaggio[14]. Questi beni populares, che venivano divisi periodicamente come si rileva dal condaghe di S. Pietro di Silki, corrispondevano alle vidazzoni e forse non comprendevano le altre terre a pascolo e a bosco delle comunità.

Le proprietà private poi, perché potessero essere libere dalla servitù del pascolo e avessero diritto alla protezione della legge in loro favore, dovevano essere chiuse a siepe o a muro[15].

Ogni villaggio, al tempo dei giudicati, ha le sue terre private e chiuse intorno al paese e coltivate a vigne, orti ecc.; ha il suo prato comune, sul quale pascolano legati impastoiati gli animali da lavoro ed il bestiame domito dei paesani; ha le sue vidazzoni, che vengono divise periodicamente fra gli agricoltori; ha i suoi salti, sui quali pascolano in comune le mandrie ed il gregge dei pastori[16].

La costituzione fondiaria dei giudicati è insomma quella stessa che in principio abbiamo visto essere la feudale: sostituite ai giudici un unico re, moltiplicate le loro donazioni temporanee e perpetue, ai donatari o beneficiati date il diritto giurisdizionale ed avrete bella e costituita la feudalità sarda. Questo è quanto fecero appunto largamente ed ordinariamente gli Aragonesi.

A questo punto sarebbe da porre una questione interessante: se sotto i giudicati esistesse veramente costituito nella sua interezza giuridica il feudalismo. Il Ciccaglione, il Besta ed il Mondolfo ammettono l’esistenza isolata dei vari elementi del feudo, ma negano l’esistenza del feudo nella sua interezza giuridica[17].

Veramente non manca qualche documento dal quale risulta oltre al beneficio il conferimento della giurisdizione alta e bassa, ma questo documento il Besta non lo crede autentico. Però se mancano documenti che attestino del conferimento da parte dei giudici del diritto giurisdizionale – di altri documenti attestanti il beneficium e le commendatio v’è invece abbondanza –, non mancano documenti che attestano dell’esistenza del feudo sotto i giudicati in cui il feudatario sarebbe il giudice stesso. Ora mi pare un po’ strano che mentre i giudici ricevono l’investitura feudale di parecchie terre da Genova o da Pisa, a loro volta essi non ne diano verso i loro dipendenti. È vero, il giudicato era troppo piccola estensione perché il giudice potesse permettersi di sminuire la propria autorità per cederla ai vassalli. Però i giudici, pur riservando a sé l’alto potere giurisdizionale, concedevano ai loro dipendenti il benificium ed accettavano la commendatio. Perciò mi pare più giusto dire che sotto i giudicati la figura giuridica del feudo era conosciuta ed accettata, ma non praticata nei rapporti interni, anzi che negare l’esistenza del feudo nella sua interezza giuridica.

Ad ogni modo per quello che interessa a noi, è evidente che i diritti d’ademprivio e la comunanza dei pascoli non sono un portato del feudalismo, ma una sopravvivenza delle antiche istituzioni collettiviste nelle quali per lungo tempo hanno vissuto i popoli sardi.

Quando cominciarono le pratiche per la liquidazione dei feudi, le Comunità di Gallura protestarono che tutte le terre della regione erano in possesso e dominio dei particolari, i quali ne avevano goduto e ne godevano il libero uso con l’assoluta facoltà di disporne tra vivi e per testamento. Oltre vantare titoli e documenti, le Comunità facevano notare che il feudatario di Gallura non aveva mai posseduto un palmo di terreno disponibile e che non aveva diritto di percepire alcuna prestazione reale o territoriale. Che se gli era stato accordato qualche tributo sul bestiame minuto, aggiungevano, non era stato perché avesse diritto ai pascoli, ma precisamente per aver di che far fronte alle spese di amministrazione e di giustizia[18].

Che le Comunità non avessero ragione nelle loro pretese già decise il Supremo consiglio di Sardegna e si rileva dalle varie e contradditorie decisioni dei consigli comunali di Gallura e dalle varie liti avvenute tra feudatario e pastori a proposito del diritto di sbarbagio sulle pecore, capre e porci[19]. È vero che il feudatario del luogo non percepiva in Gallura altro diritto reale che quello di sbarbagio [di pascolo]: ma è altresì vero che le terre sulle quali pascolavano le capre, le pecore ed i porci, costituivano la grande maggioranza del territorio.

Le Comunità, nel negare l’esistenza in Gallura non solo di terre feudali ma anche comunali, perseguivano un doppio scopo: di sottrarsi cioè all’onere del riscatto e di giustificare tutte le usurpazioni compiute e da compiere a danno del patrimonio comunale.

Le usurpazioni infatti non furono poche: molte ne denunciarono i consigli comunali di Aggius, Bortigiadas, Terranova e Nuchis fin dal 1832, quattro anni cioè prima del decreto d’abolizione dei feudi; e molte ne rivelò lo stesso consiglio delegato (giunta) del comune di Tempio nel 1852. Anzi vale la pena di riportare una parte di questa deliberazione per mostrare uno dei tanti mezzi ai quali si ricorreva per usurpare le terre del Comune: «…La Comune godeva il dominio di tutti i terreni che stavano intorno al paese per la distanza di 3 o 4 ore di cammino. Succeduto il benefizio delle chiudende e violato il disposto della legge che ordinava l’equo riparto di tali terre, molti cittadini, volendosi arricchire sulla proprietà comunale, si sono procurati titoli mentiti, facendosi vendere le terre da gente che non le possedeva. Con questi documenti ottenevano il dispaccio di concessione di chiudere, ed invece di un iugero se ne chiudevano dieci o quindici a rovina della proprietà comunale».

Ad ogni modo, giuste o no le pretese dei comunisti, i pastori intentarono lite al governo che era succeduto nei diritti del feudatario, pretendendo la proprietà del terreno da loro occupato in virtù del possesso ultratrentennale. Ed il tribunale di Tempio diede ragione ai pastori; i quali però, minacciati di infinite liti in petitorio, vennero col governo a transazione e dovettero contentarsi di una piccola porzione di quel terreno che essi pretendevano.

Come vennero i pastori in possesso delle terre che pretendevano proprie?

In virtù delle leggi prammaticali ogni pastore aveva il diritto di fabbricarsi una casa e di chiudersi un pezzo di terra per i bisogni agricoli e domestici della famiglia pastorale. I pastori della Gallura, a differenza degli altri del resto dell’isola, profittarono ben presto del loro diritto e si fabbricarono numerosi stazzi nelle campagne, si chiusero dei tratti di terreno costituenti le cosiddette orzalie od arvi e la pastorizia divenne fissa. È così che le terre di Gallura si abbellirono di quei numerosi fabbricati che attestano della presenza dell’uomo nelle più aride lande, ed allietano l’occhio del viandante rompendo l’uniformità dell’alpestre natura. Le terre furono divise in cussorge, in ognuna delle quali era un certo numero di stazzi, che godevano in comune di una determinata estensione di pascoli.

Ma a poco a poco il pastore finì col credersi padrone di quel pezzo di terra, che per legge aveva il diritto di chiudersi; non solo, ma anche di quel tratto adiacente alla casa, nel quale abitualmente riposava («meriggiava») il suo gregge. E di fatto, se non legittimamente, ogni pastore esercitò atti di proprietà su questo terreno. E mentre dapprima aveva riconosciuto il diritto del feudatario pagando il dovuto tributo, più tardi glielo contestò affermandosi essere egli il solo proprietario e negandogli il tributo. Sorsero allora varie liti fra pastori e feudatario alla fine del secolo XVIII ed al principio del XIX circa il pagamento del diritto di sbarbagio per il pascolo delle capre, delle pecore e dei porci. Il feudatario ebbe ragione ed i pastori furono condannati alla continuazione del pagamento della tassa.

L’usurpazione delle terre aperte, da parte dei pastori, non solo tornava di danno al feudatario, che non avrebbe più percepito le imposte, ma anche agli abitanti dei villaggi, che su quelle terre vantavano i diritti d’ademprivio e di vidazzone. Per cui le Comunità protestarono, e si venne ad un accordo per il quale i pastori permettevano l’uso degli ademprivi e promettevano di sgombrare dalle zone sulle quali sarebbe dovuta avvenire la semina.

Con tutto ciò i pastori continuarono a reputarsi sempre i padroni delle terre sulle quali pascolava il loro gregge.

Oltre ai modi di appropriazione già indicati, c’è stata un’altra forma di passaggio della proprietà feudale alla proprietà privata, il cosiddetto assindicamento[20]. Il Feudatario cioè concedeva gratuitamente o dietro compenso l’uso esclusivo di un determinato territorio a colui il quale prometteva di migliorare l’allevamento del bestiame e di rendere più razionale la pastorizia: e così il concessionario ne diveniva il proprietario. A questo modo forse si sono formate la maggior parte di quelle vaste proprietà nobiliari che comprendevano delle intere cussorge.

Furono questi i modi più comuni di passaggio dalla proprietà feudale alla proprietà privata in Gallura. In altre parti dell’isola molte terre comunali sono state divise fra gli abitanti poveri del comune, ma in Gallura questa divisione non avvenne, perché le poche terre comunali rimaste furono in gran parte divise per lotti e vendute.

Nel 1840, prima che fosse ordinato il nuovo catasto parcellare, che tanti errori ha legalizzato e tante liti ha fomentato, le terre di Gallura erano così possedute: 40.058 ettari dal demanio, 94.910 dai Comuni e 68.603 dai privati (in questo calcolo sono comprese anche le isole).

Ed alla costituzione del catasto nel 1853 si ebbero invece 8850 ettari di terre demaniali, 7116 di terre comunali, 2584 di terre ecclesiastiche e 176.446 di terre private (in questo calcolo non sono comprese le isole).

Le terre private erano possedute da 5989 proprietari e si avevano 22,3 proprietari per ogni cento abitanti:

CATASTO 1853

 

                                             PROPRIETARI DI TERRE

 

 

 

 

meno di 1

1-2

2-5

5-10

10-30

30-50

50-100

100-200

oltre 200

PAESI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aggius

184

110

201

299

335

118

74

47

13

Bortigiadas

42

53

105

78

109

39

25

11

2

Calangianus

171

57

68

73

195

82

81

46

13

Luras

214

39

44

47

69

26

36

14

4

Nuchis

131

22

19

21

53

71

45

13

4

S. Teresa

22

21

25

44

62

42

41

21

4

Tempio

173

189

230

204

351

197

229

132

69

Terranova

8

25

59

68

102

50

58

32

28

Aggius ha per ogni cento abitanti 60 proprietari, Bortigiadas ne ha 27, Calangianus 36, Luras 27, Nuchis 40, Tempio 18,5, Terranova 21,4, S. Teresa 20. Il numero dei proprietari per ogni paese è in rapporto all’estensione territoriale di esso, cioè alla densità della sua popolazione.

Dove è maggiore la densità è minore il numero dei proprietari. Così Aggius, che ha una densità in quest’epoca di 8 abitanti per ogni 100 ettari di estensione, ha 60 proprietari per ogni 100 abitanti, Bortigiadas con una densità di 20 ha 27 proprietari, Calangianus con una densità di 7,8 ne ha 36, Luras con una densità di 20 ne ha 27, Nuchis con una densità di 8,8 ne ha 40. Tempio con una densità di 12,5 ne ha 18,5, S. Teresa con una densità di 13 ne ha 20 e Terranova con una densità di 8 ne ha 21,4.

La ragione per cui Aggius, Calangianus, Nuchis e Terranova, che hanno una densità presso che uguale, non hanno lo stesso numero di proprietari dipende dalla proporzione in cui si trovano grandi e piccoli proprietari: Terranova con una densità uguale a quella di Aggius ha 28 grandi proprietari oltre i 200 ettari ed appena 32 piccoli proprietari, mentre Aggius ha soli 13 grandi proprietari ed invece 495 piccoli proprietari.

Ma ciò che più colpisce nella distribuzione della proprietà gallurese, è il numero grandissimo dei piccoli e piccolissimi proprietari, cioè il grande frazionamento della terra. Questo grande numero di piccoli proprietari è costituito specialmente dai proprietari di vigne che, piccole ma frequenti e numerose, rendono belli ed attraenti i dintorni di ogni paese, se si fa eccezione di Terranova. Questo frazionamento della terra va crescendo rapidamente col tempo, ed oggi il numero totale dei proprietari si è quasi raddoppiato: infatti quello dei piccolissimi proprietari, di quelli cioè che possiedono meno di un ettaro, si è quasi triplicato da 945 a 2492, e quello dei piccoli, di quelli cioè che possiedono da 1 fino a 5 ettari, si è quasi raddoppiato da 1267 a 2627 in soli cinquant’anni.

Ecco specificamente per ogni paese come si è verificato questo aumento:

CATASTO 1901

PROPRIETARI DI TERRE

 

 

 

 

 

 

 

meno di 1

1-2

2-5

5-10

10-30

30-50

50-100

100-200

oltre 200

PAESI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aggius

442

314

361

364

340

94

59

27

10

Bortigiadas

257

107

152

87

110

27

14

3

1

Calangianus

528

201

237

291

309

102

69

32

14

Luras

515

84

101

94

140

34

29

9

3

Nuchis

130

65

67

55

83

21

18

5

1

S. Teresa

83

21

54

82

93

35

19

11

5

Tempio

525

304

546

418

884

234

222

123

46

Terranova

63

38

127

87

174

67

64

30

12

La media dei proprietari sale da 22,3 a 31 per ogni cento abitanti. Mentre la popolazione nell’intervallo ha aumentato del 37 per cento, il numero dei proprietari ha aumentato del 72 %. Ecco quale è il nuovo rapporto fra la densità della popolazione di ogni singolo paese ed il numero dei proprietari. Aggius vede portata la sua densità per ogni 100 ettari, da 8 a 10,8 ed il numero dei proprietari per ogni 100 abitanti da 60 a 64; Bortigiadas la densità da 20 a 13,2 ed il numero dei proprietari da 27 a 66,7: Calangianus la densità da 7,8 a 13,8, ed il numero dei proprietari da 36 a 46,7; Luras la densità da 20 a 27,5 ed il numero dei proprietari da 27 a 72; Nuchis la densità da 8,8 a 12 ed il numero dei proprietari da 18,5 a 34; S. Teresa la densità da 13 a 23 ed il numero dei proprietari da 20 a 17,3; Tempio la densità da 12,5 a 17,9 ed il numero dei proprietari da 18,5 a 22,6; Terranova la densità da 8 a 17,7 ed il numero dei proprietari da 21,8 a 15,2.

Come si vede non vi ha proporzione tra l’aumento della densità e l’aumento del numero dei proprietari. In generale il numero dei proprietari aumenta in maggiore proporzione che la densità; ma in Terranova e S. Teresa, i due porti di mare della regione, nonostante l’aumento della densità della popolazione il numero percentuale dei proprietari diminuisce rilevantemente; ad Aggius l’aumento dei proprietari è minimo di fronte all’aumento della densità, mentre a Bortigiadas diminuisce la densità e cresce enormemente il numero dei proprietari.

L’aumento del numero dei proprietari è dovuto al moltiplicarsi dei piccoli e piccolissimi proprietari, cioè al cresciuto frazionamento della già frazionata proprietà. La tendenza quindi della proprietà fondiaria in Gallura è sempre il frazionamento. Né è a meravigliare se, contrariamente alla legge generale d’evoluzione della proprietà capitalistica, la proprietà in Gallura tende al frazionamento: essa ha appena cinquant’anni di vita e si trova perciò a seguire ancora la linea ascendente della parabola proprietaria. Però, come si rileva da molti sintomi, essa è già arrivata al culmine della parabola, cioè al grado massimo di frazionamento, e non può tardare a prendere la via dell’accentramento. E la discesa della parabola, cioè l’accentramento, sarà accelerata quando l’industria capitalistica verrà finalmente a piantare le sue tende anche in Gallura. La proprietà gallurese infatti versa in non liete condizioni.

Con un reddito catastale totale di meno di mezzo milione (474.770) di lire deve pagare circa 170.000 lire d’imposte dirette, ed oltre 360.000 lire di interessi per il debito ipotecario che ascende a cinque milioni. E che la proprietà gallurese non basti a sé stessa si rileva anche dal numero delle devoluzioni demaniali compiute per debito di imposte; il fisco possiede oggi 13.376 ettari di terreno devoluto per debito d’imposte, rappresentate da numerosi piccoli appezzamenti disseminati per le vaste estensioni della Gallura. È ben vero, come mi faceva notare un ricevitore del registro, che per alcuni proprietari l’espropriazione demaniale è una fortuna che viene cercata ed un ripiego per godere della terra senza pagarne le imposte. Ma oltre che molto pochi sono questi tali proprietari, il fatto stesso non è se non indice e riprova ad un tempo del malessere della proprietà. Il proprietario è sempre disposto a pagare le imposte per non perdere la proprietà, e se si espone a questa eventualità è segno che non può fare diversamente.

Ma come avverrà questo accentramento? Sarà individualistico o collettivistico; avverrà cioè per l’industrializzazione capitalistica della produzione agraria o per lo sviluppo del cooperativismo agricolo? Nel campo della produzione agricola stanno di fronte oggi due tendenze: la capitalistica e la cooperativistica.

In Gallura mancano completamente e l’una l’altra. Pero se è lecito derivare qualche conclusione dallo stato presente della proprietà fondiaria gallurese, io credo che il cooperativismo agricolo precederà di gran lunga il capitalismo; e forse l’industria agraria non si esplicherà in Gallura se non con la cooperazione. Il cooperativismo non vi sorgerà quindi come un antidoto e come una reazione di difesa contro il capitalismo industriale assorbente ed accentrante, ma vi dovrà sorgere come l’unico mezzo a disposizione dei proprietari per sottrarsi alla grave situazione nella quale versano.

I piccoli e medi proprietari non hanno, isolatamente presi, i mezzi sufficienti per arrivare alla produzione agricola industriale, non hanno cioè i mezzi di poter utilizzare tutti i progressi compiuti dalla tecnica agricola. E poiché la produzione patriarcale non basterebbe più a sollevare i proprietari dai debiti ai quali oggi devono andare incontro per far fronte ai bisogni della vita e della produzione, così essi devono, pena la morte, cercare nell’aumento della produzione il mezzo di redenzione. Ma le loro forze isolate non bastano a raggiungere questo aumento di produzione, e d’altra parte manca il capitalismo industriale che li tolga, espropriandoli, alla stretta in cui languono, quindi non vi è altra via di uscita che o l’espropriazione negativa, dannosa ed improduttiva del fisco, o la cooperazione agricola, capace di dare nuova vigoria all’esausta piccola proprietà.

Questa fino al 1890 aveva resistito mediante la produzione patriarcale, producendo cioè a preferenza il vino, ma chiedendo in pari tempo alla terra la produzione delle derrate necessarie alla vita di famiglia e servendosi dell’eccesso del vino per acquistare tutti gli altri oggetti. Ma oggi che la fillossera ha distrutto le vigne, sono venute meno le risorse principali dei piccoli proprietari, i quali non hanno i mezzi per ripiantare le vigne. E quando più o meno presto – per mezzo del denaro preso a prestito dagli usurai, perché mancano le banche di credito e le cooperative di credito –, le vigne saranno ricostituite, il prodotto servirà ad estinguere in parte il debito, se già gli interessi degli anni non produttivi e l’avidità dei creditori non avranno assorbito tutta la proprietà.

Quindi a salvare la piccola proprietà dalle grinfie dell’usura non vi è altra via che l’associazione cooperativa di credito e di produzione. Potendo avere il danaro a mite interesse dalle casse cooperative e potendo avere un maggior reddito dalla propria terra grazie alle cantine sociali, i piccoli proprietari si metteranno in condizione di liberarsi dai creditori usurai ed espropriatori. E così la cooperazione salverà la piccola proprietà ed anche la media, e l’accentramento sarà collettivistico cioè cooperativistico.

[1] Erano chiamati ademprivi i diritti d’uso che i paesani esercitavano su alcune determinate zone di terreni e che consistovano nella facoltà di tagliar legaa per ardere e per far carbone, di tagliare pali per le vigne, manici per gli attrezzi agricoli e travi per le costruzioni murario, raccogliere ghiande etc. etc.

[2] Giuseppe Manno, Storia della Sardegna, 4 v., Torino, Alliana-Paravia, 1825-1827; Francesco Gemelli: Del rifiorimento della Sardegna; Jean-François Mimaut, Histoire de Sardaigne, Paris, J.-J. Blaise, 1825.

[3] De Laveleye: De is proprieté; Friedrich Engel, L’origine della proprietà, della famiglia,1884; Giuseppe Todde, voce Ademprivio, in «Enciclopedia giuridica italiana», vol. I, parte II, sez. I, Vallardi, Milano, 1892, pp. 73-162

[4] Giuseppe Todde, Ademprivio cit.

[5] Ettore Pais, La Sardegna prima del dominio romano cit..

[6] Giuseppe Salvioli, Le lotte fra pastori ed agricoltori, «Rivista Italiana di Sociologia», gennaio 1898, «Rivista italiana di Sociologia».

[7] Tacito: Annali, p. II, 85.

[8] Theodor Mommsen, Storia di Roma, Lipsia, Reimer & Hirsel, 1855, vol. II. pag. 306. (3 v. 1854-1856).

[9] Emile De Laveleye, De la proprieté et de ses formes primitives, Paris, Félix Alcan editeur, 1874 (4. ed. 1891), pag. 379.

[10] G. Salvioli, Sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia al tempo dell’impero romano in «Archivio Giuridico», vol. 12, 1899, p. 223-224.

[11] Giuseppe Salvioli, Sullo Stato e la popolazione d’Italia prima e dopo le invasioni barbariche, Palermo, Tip. F. Barravecchia, 1899.

[12] Pasquale Tola, Codex diplomaticus Sardiniae, I-II, Torino, 1861- 1868; Giuliano Bonazzi (a cura di), Il condaghe di San Pietro di Silki: testo logudorese inedito dei secoli XI-XIII, Sassari-Cagliari, G. Dessì, 1900.

[13] Pasquale Tola, Codex diplomaticus Sardiniae cit., tomo I (si vedano i Documenti del secolo XI-XIII).

[14] G. Bonazzi (a cura di), Il condaghe di San Pietro di Silki cit.

[15] Carta de logu – Statuti di Castelsardo.

[16] Pasquale Tola, Codex diplomaticus Sardiniae cit.; Giuseppe Todde: voce Ademprivio cit.

[17] Federico Ciccaglione, voce «Feudalità, feudo», in Enciclopedia giuridica italiana, Milano 1884, pp. 1-538; Enrico Besta, Sardegna feudale, in Annuario dell’Università di Sassari, 1899-1900; Id. Il diritto Sardo nel medio evo, Loescher, 1899; Ugo Guido Mandolfo, Gli elementi del feudo in Sardegna prima della conquista aragonese, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», XXXII, 1902, pp. l-52; Gli elementi del feudo in Sardegna (recensione), «Bollettino bibliografico Sardo»,

[18] Dai documenti della liquidazione dei feudi.

[19] Il diritto di sbarbagio consisteva al momento della consegna dei feudi nel diritto da parte del feudatario di avere una pecora pregna a scelta per ogni segno di pecore di qualunque numero, per ogni segno di porci maggiore di venti ne minore di dieci lire due e per ogni seguo di capre una capra oppure in danaro lire 1,50. Questo diritto era primitivamente più grave ed andò mano mano attenuandosi per la resistenza ostinata opposta dai pastori. Verso la seconda metà del secolo XVIII, era, come si rileva dai fragmenti di una lite fra pastori e feudatari, di una pecora con la sua prole per ogni segno di 40 pecore di madrigadu sino al numero di quattro pecore per ciascun segno, nou pagando di più qualunque fosse il numero del segno oltre i 160; di una turiccia di fuoco per ogni segno di capre purchè non sieno meno di dieci; di otto reali (2 lire) per ciascun segno di porci, ancorché di due soli di madrigadu. I diritti del feudatario in Gallura, a differenza delle altre regioni sarde, erano molto limitati.

Ecco quali risultano dalla denunzia fatta nel 1840 dal podatario generale: Diritti reali: diritto di sbarbagio diritto di mosto, che consisteva in mezzo reale (0,25) per botte, fino a + botti e oltrepassando questo numero in 10 soldi (1 lira).

Diritti personali: di feudo lire 1; paglia, 0,50, di scaffa 0,25; di boia due denari; di carceriere un soldo a testa.

[20] Domenico Melis, Discorso del deputato barone sui Diritti di proprietà territoriale della Sardegna contro le pretensioni del demanio nel progetto di legge sugli ademprivii (tornata 17 febbraio 1858), Torino, Tipografia Eredi Botta, 1858.

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