Classi sociali, arti e mestieri

di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi

Famiglie nobili di Tempio. In altri tempi erano più numerose, dopo sono diminuite, sia per motivi naturali di procreazione, sia perché si annientarono tra loro nelle faide interne.

L’orgoglio e la superbia che i nobili esercitavano sopra i popolani portò spesso la distruzione delle loro famiglie. Alcune emigrarono.

I casati nobili sussistenti attualmente in Tempio sono una piccola parte dei Pès dei diversi rami, dei Valentino ecc. Gli antichi Sanna sono estinti. Noterò poi i Misorro, i Sardo, i Capece, i Massidda, i Garrucciu, i Cabras, i Guglielmi, i quali in diversi tempi si stabilirono a Tempio.

In generale non hanno grandi ricchezze per la poca cura che hanno del loro patrimonio. Possiedono degli ovili con vigne ed orti. Conservano ancora qualcosa della superbia aristocratica degli spagnoli, amando la supremazia e le distinzioni sugli altri per la sola ragione che essi sono di sangue nobile.

Possidenti. La gran parte delle famiglie di Tempio sono possidenti, e alcune hanno vastissimi terreni, abbondanza di greggi e armenti, boschi, terreni coltivabili, e vigneti e case.

Il vigneto di Tempio è diviso in 500 frazioni di aree disuguali, la più piccola delle quali non avrà meno di 10 mila ceppi. Queste tante vigne appartengono più o meno a 450 diverse famiglie, perché non sono molti quelli che possiedono due vigne.

Altri proprietari possiedono alcune delle 12 cascine che sono prossime alla città; altri ancora hanno degli ovili, il cui numero totale è di circa un centinaio; altri dei boschi ghiandiferi e principalmente di sughero che producono molto; altri delle case che affittano, ma con pochissimo beneficio, perché per due camere pulite in buon punto si può pagare 70 lire all’anno; per una camera a piano terra nel centro del paese, che possa servire anche per bottega, dalle 45 alle 50 lire: in altre parti non più di lire 30.

Negozianti. Alcuni comprano da privati i loro prodotti sia agricoli sia pastorali, non solo dalla Gallura ma da altre contrade, e li mandano o alla Maddalena o a Terranova per esportarli e commerciarli all’estero. I negozianti di questo tipo sono ben pochi, forse non più di 10.

Quegli stessi, ed altri, che possiamo ordinare in due gradi, i maggiori e i minori, secondo l’entità degli affari commerciali, comprano dall’estero le varie cose che mancano nel paese, e le vendono nei propri magazzini, o ne danno parte ai viandanti perché ‒ essendo le diverse regioni lontane dai porti e dalla strada centrale ‒ le vendano parte in contanti e parte a credito se si dà garanzia.

Le merci sono introdotte dalla dogana della Maddalena e da quella di Terranova; ma queste sono una piccola parte della quantità che veramente si introduce di contrabbando, cooperandovi ora i corsi, ora i genovesi.

Del primo tipo di negozianti, almeno una dozzina vanno nelle piazze del continente per fare da sé i propri affari, quasi sempre con successo.

Commercio. I galluresi fanno tutti i loro trasporti sopra i giumenti. Vendono frutti agrari, solo escluso il frumento, l’orzo e le fave, e commerciano una certa quantità di frutta, vini ed acquavite, grandi quantità di patate e aglio, molti legumi.

La cifra maggiore deriva dai prodotti pastorali, miele, cera, lane, pelli, cuoi, salati e conciati, capi vivi, formaggi, lardo, salami.

Dopo questa, è considerevole la vendita dei sugheri per turaccioli, da cui si ricavano non meno di 50.000 lire l’anno.

Seguono poi i tessuti, tele, e panno non locale (“forese”). Di tela se ne possono vendere 12.000 metri per 15.000 lire, di panno 6000 metri per 12.000 lire in totale. La provvista delle famiglie si computa 1/3 della detta somma. In totale forse non ottengono meno di 180.000 lire.

Lavori femminili. Per quanto concerne i lavori femminili (le arti donnesche) notiamo che in ogni casa c’è un telaio per la lana e il lino, e che le donne delle classi inferiori dedicano alla filatura e alla tessitura tutto il tempo che sopravanza dalle altre attività domestiche. Ad eccezione di due o tre di tipo nuovo i telai sono tutti antichi, perciò lavorano lentamente e non si possono avere larghezze superiori a 0,75 metri né per il panno, né per la tela. Anche per la filatura mancano le macchine.

Le donne di condizione superiore filano e tessono tele; alcune hanno imparato a fare ricami in lana e in seta non da molto, grazie all’insegnamento di alcune signore forestiere che restarono qualche tempo nel paese.

Il panno che si lavora è ottimo per i cappotti e se ne vende in terraferma per i gabbani. Esso respinge l’acqua anche se uno stia per molte ore sotto la pioggia.

Si fabbricano pure delle pezze di bisacce.

La tela si tesse bene e si fanno tovaglie a disegno.

Ciascuno nel passato faceva il lavoro che voleva, né c’era la proibizione in uso nelle antiche città, dove c’erano i corpi d’arte e ci si poteva opporre che chi non era di quel ceto praticasse il mestiere tipico di un altro.

I muratori sono circa 50 e lavorano anche negli altri paesi della provincia e fuori. I tagliatori di pietra sono circa 30.

I primi sono pagati nell’inverno a 2 lire per giornata, nelle altre stagioni a 2.50 lire. Essi devono poi avere alla mattina l’acquavite, alla sera il vino da chi li chiama al lavoro. I loro aiutanti o manovali hanno nell’inverno lire 1, nelle altre stagioni 1.25, e partecipano ai suddetti rinfreschi.

I secondi (i tagliapietre) spaccano coi coni i massi di granito e li dividono in cantoni di circa 0,60 metri, e per ogni cantone di granito ordinario chiedono 15 centesimi, per quelli di maggior durezza 20 centesimi.

Le tegole e i mattoni si fabbricano ad Aggius e a Calangianus, ma sono di poca consistenza; cosicché, per ben mattonare le camere, si comprano i mattoni da Livorno e da Marsiglia!

Nelle costruzioni si usa generalmente l’argilla rossa, di cui vi sono molte cave nel paese.

La calce si prende da Sedini e da Terranova. Quella di Sedini, che è di poca bontà, si compra da 3 a 4 lire la somma, che è un peso di cantara 21/2; quella di Terranova, che è molto migliore, si compra a 2.50 lire il quintale.

Le travi per la costruzione si prendono dal Limbara e da Terranova, di ginepro e pino e più spesso quercia. Per le impalcature si usano tavole delle due prime suddette specie e di castagno.

Per segare gli alberi di grosso fusto, pini, noci, castagni, in tavole, si aspettano tutti gli anni i lucchesi; i tronchi minori che servono per mobili si segano da gente del paese.

Falegnami. Quelli di arte fina, come sono chiamati gli ebanisti, non sono più di 4, tra i quali uno (di Biella) di particolare bravura che sa fare i più bei mobili per le sale signorili.

Si servono del legname del paese, olivastro, corbezzolo, noce, ciliegio.

Le prime due specie danno tavole preziose, la seconda le presenta larghe da 0,25 a 0,45 metri, e questo legno, se si lascia stagionare sotto terra o sott’acqua per un anno, diventa particolarmente resistente e si colora di corallo.

Anche il tasso del Limbara, il ginepro di Terranova e il sorbo ‒ che se è grosso si preferisce al noce ‒ vengono usati per la realizzazione di bei mobili.

Di falegnami ordinari (“d’arte grossa”) ce ne sono più di 50, e fanno tutti gli utensili purché senza pretese di bellezza artistica. Anch’essi usano legnami del paese, pino, castagno, ontano, frassino ecc.

Fra questi falegnami d’arte grossa una decina fanno pure i bottari (costruiscono le botti), quattro o cinque realizzano di ginepro e tasso le brocche che le donne portano alla fonte, di castagno i tini, e di frassino i barili per trasportare il vino.

Fabbri. Il loro numero assomma forse a 60, dei quali pochissimi applicati all’arte fina, cioè al lavoro di oggetti che richiedono particolare abilità; gli altri all’arte grossa, cioè al lavoro di oggetti grossolani: e quasi tutti questi fanno anche i maniscalchi.

Tra i ferrai di arte fina un tempo c’erano soprattutto e in gran numero gli armaruoli, prima che ai lunghi schioppi sardi di canne di Spagna si andassero sostituendo i fucili a due colpi. Gli armaruoli montavano l’arma, ricoprivano il legno, e poi il cannone, di lastre di ferro, e cesellavano queste con uno studio lungo e un’eleganza che si ammirava. L’opera del cesellatore spesso non costava meno di 250 lire. Ora di questi artisti ne restano due soli.

Orefici. Se ne contano tre, un sassarese e due tempiesi. Questi mostrano qualche abilità e hanno imparato da un esule fiorentino.

Lattai e ottonai. Non sono più di 5. Uno di essi fabbrica campane che sono pregiate per la forma e il suono.

Sarti. Poiché molti amano farsi servire dai sarti di Cagliari o di Sassari, e quindi non c’è molto lavoro, sono ben pochi che esercitano questa professione.

Sarte. Generalmente le donne tagliano e cuciono le proprie robe, cosicché i vestiti delle signore non sono alla moda. Quando occorre si servono da quelle di Sassari o di Cagliari.

Scarpari. Vi sono quelli di arte fina e di arte grossa. Questa classe di artigiani è generalmente più colta delle altre perché quasi tutti han fatto il corso delle scuole inferiori e poi, mancando di mezzi per proseguire, si applicarono a quest’arte.

Sellai. Sono 6: fanno selle civili, coperte di velluto a trapunte, e altre per trasportare carichi sul dorso delle bestie da soma. Sono però inetti nell’armatura, e però i particolari le comprano da Cagliari o da Oristano.

Conciatori. Sono così pochi (non più di 20) che possono appena preparare un trentesimo delle pelli e dei cuoi che produce la Gallura tutti gli anni. Vi sono quattro fabbriche vicine alle fonti. Usano molta calce con foglie di mirto, ma non macinate, cosicché la conciatura di Tempio è in pessima condizione. I prodotti di queste fabbriche servono per la classe più povera dei pastori, e si vendono nelle fiere della provincia di Nuoro.

Cerieri. Si hanno a Tempio sei fabbriche dove si lavora parte della molta cera che si estrae ogni anno dalle arnie sistemate nei luoghi della provincia meno freddi; il resto si manda in altre province, come anche si spediscono fuori grandi quantità della cera lavorata: un commercio però in calo, questo, per la concorrenza di altre fabbriche sorte altrove.

Torronai. Si chiamano così i fabbricatori di torroni che sono una composizione di mandorle, o noci, o nocciole, impastate col miele e le uova. Essi fanno pure l’aranciata, i rosoli, sciroppi, che portano nelle feste campestri, soprattutto dove si facciano le fiere. Tra essi vi troviamo agricoltori e pastori che primeggiano per il tipo e la quantità dei prodotti.

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