LA SARDEGNA

COSTUME E ARTE POPOLARE

di GIKA BOBICH

in

LE VIE D’ITALIA

Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒

Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche

Agosto 1947

(pp. 713 – 719)

Non esiste forse in Italia una regione che, su un territorio così ristretto, riunisca tanti aspetti diversi, come la Sardegna. L’isola è passata attraverso undici dominazioni: fenici, cartaginesi, romani, vandali, bizantini, goti, pisani, genovesi, aragonesi, spagnoli, austriaci, piemontesi si sono avvicendati, in un carosello storico, sul suo territorio.

Ma dopo tanti secoli di dominazioni, di lotte, di invasioni, la vita popolare non vi ha subito sensibili mutamenti. Quello che i sardi erano nei tempi antichi lo sono ancor oggi. Lo si sente subito non appena si lascia Cagliari, con le sue belle marine e le sue festose architetture spagnole, e ci si inoltra nel paese aspro e selvaggio, dove le borgate e i villaggi sono rari e lontani uno dall’altro, e molte volte si viaggia ancora a cavallo e a piedi. Quei piccoli uomini bruni, che camminano tutta la notte per andare da un mercato all’altro, e lavorano i campi sotto un sole cocente che fa ammutolire perfino le cicale. sono parchi di parole, ma ricchi di pensiero.

Il senso dell’onore è fortissimo, senza portare tuttavia manifestazioni di suscettibilità esasperata, e l’ospitalità è considerata come un dovere. L’ospite col quale si è diviso il pane è sacro. Questo piccolo mondo sperduto deve al suo distacco dalla penisola la caratteristica, inconfondibile fisionomia, che non assomiglia a quella di nessuna altra regione d’Italia.

Tutto, dal mare che batte minaccioso sulle coste inospitali, alle montagne ferrigne, dai preistorici nuraghe che dominano i vasti altopiani, alle torri pisane che guardano ancora le deserte solitudini, tutto sembra concorrere a mantenere immutato il volto degli uomini e il loro primitivo ed enigmatico aspetto.

Lontano dalle città della costa, in mezzo a una natura severa, sorgono i villaggi dove si vive ancora la vita di un sorprendente medioevo, piene di patriarcale austerità. La Sardegna possiede le più interessanti architetture rustiche, e basterà ricordare le case della pianura di Cagliari e di Oristano, basse, a recinto chiuso, quasi monastiche nell’aspetto, tutte eguali nel colore perché fatte di uno stesso materiale: il mattone crudo misto a paglia triturata.

Il portico, che si apre sul davanti della casa, è di legno talvolta dipinto, e i tre o quattro vani di abitazione sono disposti sullo stesso piano.

Fuori della casa c’è il caratteristico forno a palla, il pozzo e un’unica apertura al centro dell’alto muro di cinta, di fronte al portico.

Queste sono le linee tipiche dell’austera casa campidanese, chiusa agli sguardi degli estranei e alle tentazioni della vita esterna, e in cui la curiosità dei passanti non può penetrare mai. Ma questa reclusione della famiglia. dal resto del mondo non ha nulla di orientale: è invece tipicamente latina, piena di quella severità che modellava l’anima dei romani al principio della loro storia. Naturalmente nelle montagne le case, invece di svilupparsi in larghezza, si accumulano in altezza senza più regole di simmetria: Fonni, Desulo e tante altre borgate sono masse bizzarre senza elementi architettonici definiti, ma formano sempre un insieme molto pittoresco.

Anche qui, come in Sicilia, l’austerità della vita semplice è, non solo nella famiglia, ma in tutto ciò che completa la casa, in cui tutto è utile e nulla superfluo. L’unico contrasto con la semplicità della casa sono i letti, carichi di merletti, che raggiungono in alcune borgate della provincia di Sassari altezze paradossali, tanto che per salirvi occorrono le scale. Nessuno ha saputo dirmi i motivi di questa grande altezza dei letti sardi. La cosa si spiega invece nei paesi nordici, dove è necessario evitare l’umidità dei pavimenti e avvicinarsi al soffitto per godere del maggior tepore dell’aria.

Il letto è un elemento di primaria importanza anche nelle case povere, in Sardegna. Immediatamente dopo viene, come interesse, il cassone nuziale che contiene tutto l’abbigliamento di cui la vita di quella gente ha bisogno. Il sardo non ha spirito nomade e ama piuttosto la vita sedentaria, per cui nei famosi cassoni nuziali erano e sono ancora concentrate delle ricchezze immense.

Ho visto mobili del genere presso tutti i popoli primitivi, ma il cassone sardo si differenzia da tutti per le sue leggere applicazioni simboliche e la sobrietà del disegno, oltre che per la qualità del legno. Mentre le altre casse nuziali italiane, in Abruzzo, Sicilia, Toscana, sono quasi sempre lunghe e basse come cassapanche, quelle che ho visto in Sardegna sono quasi sempre alte e rettangolari, decorate con intagli e incisioni semplicissime. Le cassapanche continentali sono piene di altorilievi di grande effetto, figure, cariatidi, guerrieri, angeli, che mancano completamente in quelle sarde. Un tempo era la Barbagia che produceva i mobili più tipici e singolari di tutta l’Isola, ma ormai il classico cassone nuziale, che potrebbe essere una fonte continua di ispirazione per l’artigianato, viene eseguito un po’ dappertutto, in massa e senza eccessiva accuratezza.

Ma anche se i famosi cassoni e altri pochi mobili caratteristici vengono un po’ deformati per l’eccessiva domanda che ne vien fatta, l’arte primitiva, l’arte degli uomini solitari e ispirati, non è spenta.

I pastori nei lunghi ozi producono ancora gli accessori più importanti della casa, intagliati, incisi, decorati a vivaci colori nel legno di noce, di nocciolo, di ciliegio o nel sughero. Questi uomini sanno fare ancora conocchie graziosissime, così come una grande varietà di cucchiai, forchette e bicchieri vengono tratti dal corno, arabescati a punta di coltello e poi ripassati col sangue di agnello.

Vi si possono ammirare scene pastorali e bibliche, cacce, fiori, cavalcate e motivi religiosi. Sono ancora in uso recipienti di sughero e zucchette fantasticamente decorate, chiamate barrilofas come in Spagna. Le cucine sono ancora piene di ceramiche e di cestini che, appesi in gran numero alle pareti, formano una decorazione variopinta e attraente.

Vecchio di Fordongianus

Sono quasi tutti prodotti nella cittadella medievale di Castelsardo, nota in tutta Europa per la varietà dei suoi cestini, ma il troppo successo ha fatto diventare convenzionale anche questa produzione. A onta di ciò, molti elementi decorativi delle trine e dei tappeti continuano ad apparire in essi, in una sola tonalità bruna: sono mostri alati, uccelli, draghi, espressione dell’amore dei sardi verso il loro passato feudale.

L’abbondanza delle erbe palustri di ogni sorta, in Sardegna, lungo le dune marittime e i terreni acquitrinosi, sulle sponde dei fiumi e dei ruscelli, offre abbondante materia all’industria rustica dei panieri. A Castelsardo si fanno, inoltre, piccoli capolavori di scatoline, portasigarette, tavolini da tè, oltre alla solita produzione di uso casalingo, canestri per granaglie, cestelli leggeri di fieno secco o di mirto per la ricotta, che sono tipici, stuoie per pastori e mille altre cose utili e graziose.

Come cambiano l’aspetto e l’intonazione di tutti i prodotti dell’arte popolare quando si vedono nel loro ambiente naturale! Avevo visto cestini sardi in negozi della capitale, insieme con coperte della Ciociaria e borse dell’Umbria, ma ben altra impressione essi mi fecero quando li vidi nascere dalle mani leggere delle ragazze di Castelsardo, o li vidi sulle ginocchia delle donne intente a pulire il grano davanti al portico della loro casa, o appesi alle pareti delle cucine.

E così anche i tappeti, che pur sono molto più appariscenti: io incominciai ad apprezzarli veramente solo dopo aver visitato l’isola, dove essi non sono elementi puramente ornamentali, ma servono ancora all’uso per il quale furono ideati. Benché le particolarità della tecnica siano diverse da regione a regione, e anche la struttura del tessuto e del disegno, dei motivi e dei colori produca sensibili differenze fra paese e paese, c’è qualche cosa che rende il tappeto sardo tipico e unico.

La ricchezza di motivi è davvero straordinaria: vasi, palme e fiori di tutte le specie, tralci di vite, animali veri e leggendari, figure ieratiche di angeli, uomini e donne, e una profusione incredibile di animali, di vegetali, di motivi geometrici. Anche nella tecnica e nella struttura ci sono le stesse varietà di interpretazione, tanto che ogni borgata, si può dire, ha un’espressione diversa e originale.

I tappeti di Morgongiori hanno un aspetto guerriero con aquile e cervi, castelli e torri e chiese fusi in una bella armonia di colori; in quelli di Mogoro sono spesso fughe di cavalli fortemente stilizzati in tinte contrastanti; in quelli di Isili, uccelli stilizzati, cavalcate di sposi e danze, 1 tappeti della Barbagia sono quasi sempre con ornati geometrici, mentre quelli di Ilbono mostrano giardini smaltati di garofani rossi e quelli di Terralba piogge di rose di confondibile, ma, a mio vedere, Morgongiori e Santa Giusta offrono quello che di più tipico esiste in Sardegna come colore e come composizione.

Il rosso bruno e poche sfumature di turchino si mescolano sapientemente col nero e col giallo, e qualche discreto tocco d’oro e d’argento ravviva la composizione.

Gli unici motivi di origine orientale sono anche qui, come nel resto dell’Europa, gli animali disposti l’uno di fronte all’altro, separati da un motivo vegetale, o gli uccelli simmetrici, messi dentro moti vi ornamentali; ma il clima e l’ambiente particolari della Sardegna hanno dato anche a questi motivi esotici un’impronta originale. Nei tappeti antichi i soli colori dominanti sono il rosso-bruno il ruggine, il nero, l’indaco, il giallo e alcune pallide tinte di sorprendente effetto e durata. Talvolta questi tappeti sembrano a prima vista lavorati a rilievo, come un ricamo sovrapposto, e invece sfondo e disegno vengono creati contemporaneamente.

La tecnica della tessitura differisce secondo le varie regioni, e oltre al comune tappeto a superficie uniforme, tessuto e disegnato a un tempo, si ha quello con fondo a rete di lino tessuta a disegno con altorilievo a granelli (pibioni) di lana a più colori, e un altro tipo simile detto a fioccu con variopinti fiocchetti o ciuffi di vari colori, che sottolineano il disegno principale svolto sulla rete di lino. Questi sistemi si applicano soprattutto alle bisacce, ai coprimàdia e alle coperte per cassapanche.

La scala cromatica dei tappeti e delle coperte sarde è di una varietà grandissima. La specialità caratteristica dei tessuti rustici sardi è l’uso frequente di eseguire disegni nel campo principale in tinte cupe quasi eguali di tono, mentre improvvisamente dalle bande trasversali sfolgorano tinte vivaci. Il bianco, quasi sempre preferito per il fondo, accentua ancor più quel carattere irrequieto che caratterizza la colorazione della maggior parte dei tappeti sardi.

costume di Iglesias, disegno di Filippo Figari

Ma il quadro più tipico, e forse l’espressione più interessante di tutta l’etnografia mediterranea, sono i costumi sardi. Antichi e noti, taluni elementi fissi del costume maschile: i calzari di orbace, le larghe brache di tela bianca, il corpetto nero (era una volta scarlatto) con doppi bottoni d’argento, la corta giacca, l’immancabile mastrucca di pelo, che i sardi portano in ogni stagione, e il classico berretto frigio che ha qualche affinità con quello di Rodi. L’unico elemento non mediterraneo, ma piuttosto balcanico, nel loro costume, è un lungo gabbano di lana di pecora bruna coi risvolti di panno rosso, che esiste anche in Dalmazia e dà agli uomini che lo portano un’aria di patriarchi biblici.

L’orbace sardo viene prodotto con la lana delle pecore e tessuto un po’ dappertutto, ma specie nelle montagne, con gli antichi sistemi rudimentali. La lana viene immersa dapprima nell’acqua calda, poi lavata accuratamente nell’acqua corrente e asciugata al sole. Essa viene poi sfioccata e pettinata con pettini e chiodi, dopo di che si procede alla cernita delle fibre più lunghe, che servono per l’ordito, mentre le altre vengono usate per la trama.

Ciò che dà al tessuto grande resistenza è la filatura, che viene fatta sempre in famiglia, dalle donne, col fuso e la conocchia. Anche la tessitura viene fatta in casa, su telai rudimentali di piccole proporzioni. Appena uscito dal telaio, il tessuto viene follato pazientemente per un giorno intero con due magli di legno che battono alternativamente l’orbace, tenuto costantemente bagnato. Dopo alcuni giorni, esso viene immerso nell’infusione di una pianta chiamata truiscu, che gli dà un color giallo, e finalmente fatto bollire in una infusione di corteccia d’albero del campeggio (insieme con vetriolo, che fa da mordente) per dargli il caratteristico color nero. Viene ancora lavato nell’acqua dei torrenti, asciugato all’ombra e poi arrotolato sul telaio per una specie di stiratura rudimentale. Questo tipico tessuto di Sardegna, che per le sue doti di resistenza e di impermeabilità viene usato anche fuori della regione, ad esempio per i gabbani dei marinai, viene prodotto anche in altri colori che non siano il nero, quali il bigio naturale, il rosso granata o scuro, nonché a righe diagonali e a semplici disegni.

La semplicità di linee e di colori nel costume virile sardo contrasta fortemente con la varietà, la bellezza e la fantasia del costume femminile, rivelante ispirazioni ed eredità diverse.

Sono evidenti, in questi costumi di Sardegna, tracce fenici e cartaginesi stilizzate e trasformate dalle dominazioni greche e romane, arricchite dagli approdi commerciali dei genovesi e dei pisani, mentre alcune linee dei giubbetti ci riportano a Rodi e alcune linee delle scollature ancor più lontano, fino a Creta, di cui ricordano le statuine di terracotta variopinta.

Nelle cittadine della costa il gusto moderno ha alterato la purezza dei costumi antichi ma, nei villaggi dell’interno, tra le popolazioni montanare, essi vigono tuttora, tramandati quasi intatti da molte generazioni.

Anche in questi costumi, come nei tappeti, quale varietà, pur nella apparente uniformità di stile e di linee! La cuffietta rossa e azzurra di Desulo e lo stile geometrico del costume fanno contrasto con quello di Fonni, sugli altopiani del Gennargentu, dove le donne portano due o tre gonne di color rosso cupo a fittissime pieghe e un giubbetto attillato molto elegante. Singolarissimo il costume del Goceano, col suo corpetto di velluto nero ampiamente scollato e le maniche aperte, dalle quali escono gli sbuffi candidi della camicia con i bottoni di filigrana, che sono una caratteristica della oreficeria sarda. Bellissimi anche i grembiuli, per quanto non sempre di linea classica.

Nei villaggi dell’interno, soprattutto la domenica all’ora della messa, è possibile vedere ancora oggi sete, ricami, pizzi, veli trapunti e gioielli di filigrana profusi largamente nei costumi delle donne, che li portano con la disinvoltura di una tradizione fortemente radicata.

Immense sono le risorse dell’oreficeria sarda. Se gli argentieri non lavorano più nel carrer de los plateros a loro destinato nel castello di Cagliari all’epoca aragonese, non sono per questo meno rinomati e attivi, e producono ancora oggi, nei laboratori di oreficeria di Cagliari, Iglesias, Nuoro e Sassari, cose stupende. La forte richiesta dei forestieri non è ancora riuscita a falsare il gusto antico delle composizioni, ed essi creano ancora orecchini, spille, pendagli, ornamenti religiosi, aggraziati da coralli, agate, ametiste e topazi. La maggior produzione è data dai bottoni, intagliati o incisi, di svariatissime fogge e dimensioni.

Dopo aver visitato la Sardegna non è più possibile pensare che l’arte popolare italiana. sia morta. E certo che l’industria casalinga non sempre ha potuto sostenere la lotta con la produzione a buon mercato, ma se il cattivo gusto e la banalità dei prodotti fatti in serie è penetrato anche nell’interno dell’isola, non è tuttavia spezzata la tradizione di quest’arte di popolo, alla quale potrebbe attingere utili ispirazioni la stessa arte applicata moderna.

NOTA su Gika (o Gica) Bobich ⇒​

Prima donna laureata a Zara, esule dopo la guerra negli Stati Uniti.

Sin dall’aprile del 1948, e per un intero anno, la giornalista di origini dalmate Gica Bobich fu scelta come delegata dell’Ande [Associazione nazionale donne elettrici] e inviata oltreoceano. Alle numerose tappe del soggiorno statunitense di Bobich, Giuseppe Prezzolini, che in quel periodo viveva a New York, dedicò un denso articolo. Il noto italianista raccontava delle buone doti della giovane rappresentate dell’Ande simpatica, intelligente, coraggiosa, con un fluido inglese – e delle diverse porte che riuscì a farsi aprire, in un periodo in cui era molto difficile che ciò accadesse. Pare, secondo Prezzolini, che godesse di buoni appoggi dall’ambasciata americana a Roma. Il compito affidato dall’Ande alla giornalista dalmata era quello di veicolare negli ambienti culturali statunitensi il messaggio di un’Italia nuova e democratica, e nello stesso tempo di fare tesoro di quanto appreso negli Usa al fine di «ispirare programmi e obiettivi che l’Ande avrebbe potuto realizzare anche in Italia. A voler leggere più a fondo l’esperienza di Gica Bobich, che al ritorno tenne diverse conferenze per raccontare quanto appreso nel viaggio statunitense, pare potersi affermare che l’Ande, prima ancora che la cortina di ferro calasse definitivamente sull’Europa, avesse già deciso e senza indugio alcuno da quale parte stare e da quale modello di donna lasciarsi ispirare. A quanti, poi, avrebbero sostenuto che il modello americano strideva con l’ideale di famiglia cristiana – che l’Ande da statuto si era impegnata a difendere poneva riparo già Prezzolini, che nel suo articolo, sosteneva come Gica Bobich non avesse trovato negli Usa «quella decadenza della famiglia» di cui spesso si parlava in Europa, «soltanto la donna americana non prende le vicende familiari così tragicamente come accade alla italiana» e ciò perché era meglio informata e preparata «alle avversità e fa fronte ad esse con maggiore sicurezza di giudizio».

Al rientro in Italia Bobich avviò l’attività di conferenziera, per conto del Piano Marshall. Dal 1952 al 1956, invece, lavorerà per la Cassa del Mezzogiorno, come esperta in problemi economici e sociali, per poi tornare negli Usa e risiedervi stabilmente.

Negli anni Settanta e Ottanta fu segretaria scientifica della Società Dalmata.

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