The wine, the vineyard, the grapes in Sardinia

Il vino, le vigne, l’uva in Sardegna

di Charles Edwardes

La Sardegna e i sardi ⇒

traduzione di Lucio Artizzu
Nuoro, Ilisso, 2000 (Bibliotheca Sarda, 48)

[p. 52]. Diceva che non si sarebbe calmato fin quando non avessi liberato la stanza e che, intanto, avrebbe tracannato, cosa che fece senza indugio, tanto vino sardo (ad un penny la pinta) quanto sarebbero stati capaci di buttarne giù i più fieri bevitori fra i nostri scaricatori inglesi di carbone dei piroscafi del porto di Newcastle.

[p. 54]. Ma paludi e vigne non sono i soli caratteri dei dintorni di Cagliari.

[p. 63, parlando di detenuti]. Apparivano sereni e perfino allegri mentre inforcavano il fieno o bevevano del vino dalle zucche che avevano a portata di mano, liberi dalle catene del rimorso.

[p. 69, festa di Sant’Efisio]. Al mattino, il corteo si rimette in moto; si arriva alla chiesa della festa, si celebrano messe con la partecipazione di una moltitudine estatica e quindi, ancora una volta, vino e festeggiamenti pongono fine alla giornata.

[p. 72]. Volgendo lo sguardo dall’alto di mura e terrazze in direzione nord, verso il Campidano, si rimane affascinati dal paesaggio.
Vi si scorgono le monotone paludi, la campagna punteggiata da paesetti dai tetti rossastri nel mezzo di una folta vegetazione. Stagni luccicanti si scorgono nelle vicinanze.
I paesi sono circondati da vigneti. Più lontano si ripetono le stesse caratteristiche: villaggi, vigne e qui e là uno stagno, finché l’occhio si confonde. Le montagne, infine, completano il paesaggio; sono esse che custodiscono i veri Sardi della Sardegna.

[pp. 108-109]. Era stata una giornata assai calda, a Cagliari, e la polvere assai fastidiosa. Cercando rifugio dal sole e dal sudiciume, entrai in un ristorante nuovo accanto al mare, le cui stanze offrivano una gradevole frescura. Dopo aver mangiato e bevuto, ebbi una discussione col cameriere in merito al costo del vino.

[p. 110]. Alla quarta pietra miliare da Cagliari, sostammo qualche minuto nel grande paese di Quartu (così chiamato dai Romani), per bere un bicchiere di vino e ammirare con meraviglia l’aspetto africano del posto.

[p. 110]. Qui [nel cagliaritano] per tre o quattro noiosissime ore, procedemmo sferragliando attraverso vigne, alberi di ulivo e fichi.

[p. 111]. Chi viaggia in Sardegna, con l’andar del tempo, nutre una sorta di simpatia verso le tradizionali cantoniere. Esse non sono considerate vere e proprie locande; di solito, per la verità, non pare ospitino inquilini, così come non sembra possano offrire una comoda sistemazione. Capita, talvolta, di vedere un inquilino sporgersi dalla finestra del piano superiore con una sigaretta fra le labbra e l’aria della persona che sogna una vita più movimentata, annoiato – come pare – dalla vista delle vette delle montagne. Spesso, però, questi edifici costituiscono un pretesto per fermarsi e sgranchirsi le gambe. Forse hanno un qualcosa che a prima vista sfugge.
Se il viaggiatore vien sorpreso dalle tenebre, gli offriranno sempre un rifugio. Non si pretenda di poter consumare un pasto, tuttavia un bicchier di vino, una pagnotta ed una manciata di fichi è possibile trovarli e tutto questo, con un sigaro per giunta, in caso di emergenza si può pure chiamare
un pasto.

[pp. 113-14, festa di —-]. Dall’alba al tramonto le ore trascorrono fra il banchetto, il ballo e i malinconici canti sardi. E dopo che a San Priamo è stato tributato il dovuto onore, il suo eremo viene chiuso, i paesani tornano barcollando a casa, saturi di vino e di benedizioni, mentre i sacerdoti rimettono sul carro la statua del Santo e la trasportano, insieme con le preziose reliquie, al luogo dal quale le hanno prelevate. […]

La giornata inizia con le messe nelle quali i fedeli invocano il soccorso dei loro santi per i diversi bisogni (guarire dai reumatismi, cancellare la vergogna della sterilità, consentire alle loro vacche di partorire felicemente, trovare un buon mercato per il loro vino e così via).

[pp. 115]. L’intemperie (come i Sardi chiamano le febbri malariche) miete vittime in estate ed in autunno. Fra i passeggeri della nostra diligenza c’era un piccolo signore che si seppe, poi, essere il medico condotto del paese di Villaputzu, uno dei tre grandi villaggi che, nell’insieme, costituiscono il Sarrabus; gli altri due sono Muravera e San Vito dove, appunto, eravamo diretti. Il dottore non tardò a parlare della pessima fama del litorale in quel tratto. Al pari di molti altri Sardi, era convinto che il vino, che teneva nella zucca secca, fosse il miglior antidoto contro la febbre. E quando non beveva, preferiva, finché la zona peggiore non fosse stata oltrepassata, parlare il meno possibile.

[p. 126]. Altre volte capitava il momento dello stacco per il pranzo. Gli operai della miniera d’argento, situata nel versante di San Vito in posizione opposta a quella di antimonio, diretta dal mio amico, entravano con un cerimonioso «Bona dies», sedevano a mangiare un piatto di minestra, con pane e vino, sotto la veranda ricoperta di canne.

[p. 127 San Vito]. Ogni giorno, all’alba, tutti gli uomini del paese si recavano in campagna a zappare le vigne mentre le ragazze andavano silenziose su e giù per le strade, sparpagliandosi vicino alla grande fonte

[p. 130, parlando di ballo sardo a San Vito]. Non si scorgeva in loro alcun segno di stanchezza, salvo in uno dei suonatori, un vecchio reprobo canuto, di cui si diceva che avesse bevuto abbondantemente fin dal primo mattino.

[pp. 131-132, a San Vito]. Di sera, i giovani di San Vito trincarono abbondantemente dell’ottimo vino di Ogliastra e fino alle due del mattino confortarono i loro animi turbati con launeddas e fisarmonica, girando per le strade del paese, e ripetendo canzoni più tristi dell’ululato di un cane che avrebbero costretto l’infelice ascoltatore a elencare la lista dei propri peccati e farne penitenza vestito di sacco e col capo cosparso di cenere. Forse qualcuno pensa che i Sardi siano ubriaconi. In verità non lo sono. Usano bere vino generosamente e l’espressione dei loro volti rugosi si rilassa come non mai sotto il suo effetto. Certamente è gente che beve ed è cosa da biasimare. I loro vini contengono una sostanza ricca e generosa e purtroppo molti Paesi del mondo non possono smaltire l’offerta del surplus delle loro cantine e pertanto, e ciò va detto a loro giustificazione senza offesa alla natura, essi sono portati a bere più di quanto vorrebbero, cosa che non accadrebbe se i vini sardi fossero reclamizzati ogni giorno nel Times.
La Borgogna non produce un vino migliore di quello dell’Ogliastra (della quale fa parte il Sarrabus), e questa nobile e poco apprezzata bevanda vale meno di uno scellino al gallone nel pubblico mercato!
Grazie alle capacità dei viticultori sardi, i loro vini migliorano di anno in anno. Son decisi a far conoscere la loro produzione in Europa, in tutta l’Europa, non soltanto fra gli astuti mercanti di Genova e di Bordeaux che già trafficano con l’Isola per tagliare i loro vini leggeri con quelli corposi della Sardegna.
Nel 1874, l’esportazione dall’Isola non superava le tremilacinquecento botti da 105 galloni; ora si è giunti a circa quarantamila.
Per giunta, la Sardegna non ha sofferto della fillossera, sebbene le sue vigne si trovino in diverse altitudini, e vadano dal livello del mare fino a tremila piedi d’altezza.
In certi Paesi si ricorre al rimedio dello zolfo ma questo non è un metodo infallibile. In Sardegna, alla buona e con empirismo, ci si accontenta di far razzolare le galline nelle vigne infettate e si scopre che grazie all’occhio acuto del pollo si possono distruggere i distruttori.
Ho fatto in precedenza riferimento al vino quale cura tradizionale collaudata contro l’intemperie, per lo meno nella fase iniziale, ed anche alla sua funzione come antidoto alla pianta velenosa che si suppone abbia dato origine alla parola “sardonico”. Si può citare un ulteriore uso del vino.
In autunno, a Cabras, ad ovest dell’Isola, le pulci sono più fastidiose e numerose che negli altri periodi dell’anno.
Il La Marmora, che ne era ossessionato, chiese ad un prete del luogo come potesse riuscire a eliminare questo inconveniente. Il prete gli disse che bevendo generosamente la “vernaccia”,
un famoso vino bianco della zona, buono come il marsala, l’uomo finisce per diventare insensibile al morso delle pulci. Poiché La Marmora riporta questo fatto in buona fede, anch’io lo riferisco come tale.
Le altre necessità della vita quotidiana, a parte il vino, si possono soddisfare con poca spesa.

[pp. 133-134]. Stavo con i miei amici, quando la domestica annunciò che il signor Cristoforo Porcu (per dirla in inglese Mr. Cristopher Pig) stava di sotto e desiderava venir su. Fu invitato a raggiungerci. Comparve allora un uomo di robusta corporatura, dalla grigia barba ispida, occhi rossi e cisposi ed una sospetta incertezza di gambe e di parola. Il mio amico sollevò il sopracciglio e Mrs. M. sospirò. – Oh, non c’è nulla di straordinario – osservò Mr. M. mentre il visitatore accettava un bicchiere di vino fresco con vivace alacrità.
Si scoprì che questo vecchio signore aveva settantatré anni, era molto esperto di quasi tutte le contrade della Sardegna, avendo rapporti con molti paesi della Barbagia, ed era disposto a partire con me, per visitare i suoi amici, nel ruolo di guida. Per spontanea ammissione era un inveterato ubriacone, e ubriaco era ogni notte ma, essendo il vino della Sardegna genuino, ed essendo la sua costituzione robusta, al mattino era immancabilmente sobrio nonostante la baldoria notturna. Dopo qualche insistenza accettò l’incarico e, avendo brindato con un altro bicchiere al successo della nostra escursione, se ne andò barcollando a rimuginare sulla sua nuova occupazione.

[p. 140]. Qui, dunque, mangiammo del cinghiale che era stato cacciato la mattina stessa nei dintorni della miniera, arrostito dentro una buca scavata nel terreno da un cuoco sardo. In breve, con l’aggiunta di lattuga, agnello, pane, formaggio, olive, arance, vino di Tortolì, in quell’aria fine di montagna consumammo un festino degno di un nababbo.

[p. 142]. Gli altipiani contengono molte acque più o meno stagnanti, la cui fanghiglia si immette nei fiumi principali e li rende impuri. Questo è ciò che rende nocive le acque della Sardegna. Ed allora, si potrebbe chiedere, che cosa si dovrebbe fare? La risposta è pronta e gradevole: «Bere il vino anziché acqua». E a dir la verità, l’usanza è abbastanza diffusa.

[p. 48 verso il Flumendosa]. Ambedue eravamo muniti di una grande zucca a fiasco, pesante come piombo, con un quarto di gallone ed un altro terzo di vino dell’Ogliastra.

[pp. 150-51]. C’era stato, dunque, un patto fra me e la mia guida in base al quale si doveva assaggiare il vino di ogni paese nel quale saremmo passati nel corso della settimana. Non c’è dubbio che sbagliai nel fare un tale accordo ma allora ero ignaro delle conseguenze e poi mi parve cosa degna offrire ad un vecchio quelle briciole di piacere della gola che la vita ancora poteva riservargli. Fui, inoltre, indotto a farlo anche perché egli era in lutto per la morte della sorella. Per un anno nessun rasoio doveva sfiorargli il viso né le forbici molestare la sua capigliatura.

Una vedova sarda doveva indossare, senza mai lavarla finché cadeva a pezzi, la stessa sottoveste che portava alla morte del marito. Sperabile che non fosse vietato affrettarne il disfacimento con mezzi pratici ma, nel dubbio che il mio amico avesse o no possibilità di indossare una camicia pulita per tutto un anno, pensai che almeno il vino potesse fargli del bene. Il patto, di certo, lo aiutava ad avvertirmi quando ci si trovava in prossimità di un paese.

[p. 153]. L’amico di Cristoforo ci salutò cordialmente e ci condusse nel cortile recintato dove era la stanza-soggiorno nella quale fummo ricevuti. Furono sistemate in cerchio cinque sedie e nel mezzo fu piazzato un recipiente di vino. I due uomini della casa e noi occupavamo quattro sedie e la quinta era per il segretario, o funzionario comunale, il quale era stato mandato a chiamare di fretta. La massaia setacciava la farina nei crivelli di paglia adornati di nastrini, né smise di lavorare quando entrammo sebbene i suoi occhi ci osservassero con aria indagatrice per ascoltare quel che dicevamo.
Accanto a lei, stava la figlia del padrone di casa, una ragazza graziosa e aggraziata, che non smise mai di fissarci in modo incuriosito fino a quando ce ne andammo. Anche prima che il segretario giungesse, il vino era circolato abbondantemente e in fretta così che le nostre lingue erano impastoiate ma pronte a replicare per un altro sacrificio.

[p. 154]. Non incontrammo alcuno, uomo, donna o ragazzi, che andasse da un paese all’altro ma il mio uomo volle fermarsi per dire qualcosa, dopo un’abbondante sorsata dal fiasco del vino. Il vecchio mostro arrossì come una fanciulletta, cosa per la quale solitamente i contadini lo prendevano impietosamente in giro.

[p. 156]. In un cortile c’era una dozzina di accaniti giocatori di carte, seduti attorno ad un tavolo. Un gran fuoco di ceppi all’interno del portico della casa li illuminava di luce tremolante ed una lampada sistemata sulla parete dietro di loro rafforzava i bagliori della fiamma. Recipienti di vino giravano dall’uno all’altro durante il gioco. […]
Ovviamente ci venne offerto del vino.
Furono gettati sul fuoco altri ceppi e, se lo avessi voluto, avrei potuto trascorrere tutta la notte a bere con loro. Quando, una volta fuori, chiesi giustificazioni a Cristoforo per questa intromissione fra quella gente di Ballao, non mostrò alcun rimorso. – Oh, – disse – è andato tutto bene. Hanno lasciato perder le carte, è vero, ma l’hanno fatto in segno di rispetto verso di noi. In fondo, era giusto ed inoltre il vino era veramente buono.
Fummo chiamati per la cena quando erano le dieci. La degna dama, la nostra ospite, pensò di farmi l’onore di differire il pasto fino a quella terribile ora. Penso, tuttavia, che ciò abbia in certo modo influito sul nostro umore.
Cristoforo era triste perché non c’era il suo amico e la signora, pur con gran discrezione, sbadigliò per la noia. Per cena, avemmo minestra di latte, maccheroni, agnello al limone, trota fredda, formaggio e vino.
Il pasto fu eccellente e lo innaffiammo abbondantemente di vino come se non ci fosse stata alcuna donna davanti a noi.

[p. 159 a Goni]. Nel partire, rifornimmo nuovamente i fiaschi, sebbene il vino locale non fosse buono.

[p. 170]. In questo altopiano non seguimmo alcun sentiero; il nostro punto di riferimento era una sella della montagnola rossa a nord e, raggiuntala verso le cinque di sera, volgemmo ad ovest e ci dirigemmo verso un altro altopiano, nel quale, in lontananza, le vigne annunciavano che ci trovavamo in prossimità di un luogo abitato. Presto apparve una casa circondata da rupi scoscese come quelle adiacenti a Goni.

[p. 171]. La nostra serata a Nurri fu proprio degna di Bacco. Il padrone di casa, un bel tipo di campagnolo di pelle scura, dall’aspetto gradevole, fece portare tre nettari eccellenti e prima che i quarti dell’agnello (infilzati in uno spiedo, come da noi si usa fare con gli spiedini di carne e verdure, e girati abilmente a mano sulla brace) fossero portati a giusta cottura da parte delle donne di casa, abbigliate nel loro costume pittoresco ma con un’espressione triste del viso, il vino scorreva abbondantemente e pareva che ognuno volesse fare a gara col proprio commensale. […]
Vorrei, ora, ricordare qualche domanda fra le più ingenue che mi vennero poste a proposito dei maccheroni e del vino inglesi.

[p. 172]. Purtroppo non eravamo che agli inizi della serata. Quando i miei amici furono tutti piuttosto alticci (nel frattempo le donne si erano sistemate lungo le pareti della stanza, accosciate
l’una accanto all’altra, con un’espressione evidente di mesto rimprovero sui loro visi olivastri), cercarono di farmi rivelare i segreti sulle miniere. Avevo, per caso, trovato argento in qualche posto vicino a Nurri? E se sì, sarebbero venuti inglesi a vivere a Nurri per attivare la miniera? In mille modi vollero farmi bere per costringermi a parlare della faccenda e non credettero alle mie risposte quando ribadii che non andavo assolutamente in giro in cerca di miniere. Secondo loro ero un furbo matricolato, oltre al fatto che riuscissi a difendermi bene dal vino di Nurri.

[p. 173]. Al mattino, prima della partenza da Nurri, si dovette ancora sottostare al rito del bicchiere: assenzio in una casa, brandy in un’altra e vino in altre ancora.

[p. 178]. Assaggiammo il vino di Sadali che trovammo pessimo. A questa altitudine l’uva, per quanto abbondante, ha un sapore scialbo ed il vino assomiglia all’inchiostro per colore, odore e sapore. I cordiali montanari, che ci offrirono da bere, lo fecero con un sorriso sornione. Sapevano bene che soltanto le persone del luogo potevano apprezzarlo; per il resto, poco mi resta da dire in favore di Sadali.

[p. 180 a Seui]. L’erba, i ciliegi, i meli e le vigne tutte, brillavano per le gocce di pioggia.

[p. 185, sul Gennargentu]. Dopo mezz’ora di cammino, la cima brulla della montagna, desolata e battuta dal vento, si apriva in una profonda vallata nella quale erano alberi da frutto su ambedue i versanti e dove i pazienti contadini sarchiavano la fredda terra rossa attorno ai ceppi delle vigne. […]
Mentre mangiavamo, i contadini lasciarono il lavoro delle vigne per venire a chiacchierare con noi, a bere del vino, a salutare il forestiero ed a dire tutto d’un fiato: «Come state? Io bene, non mi posso lamentare».

[p. 186, a Seulo]. L’accordo raggiunto fra Cristoforo e me prevedeva che dovessimo assaggiare il vino di Seulo ed i paesani furono orgogliosi di offrircene a volontà. In tutte le case nelle quali
passammo, venne tirata fuori una bottiglia dopo l’altra, mentre vecchie dalle facce rugose facevano schermo ai loro occhi annebbiati per vederci meglio e molti uomini e donne, arzilli e cordiali, affrettarono il passo lungo le stradine dal fondo roccioso per formare un crocchio vivace e curioso, seppure discreto, attorno ai nostri cavalli. […]
Provo una certa vergogna nel fare così frequente riferimento alle nostre libagioni in Barbagia e in Ogliastra, ma in questa occasione mi pare indispensabile se non altro per giustificare i miei due eccentrici compagni e per la situazione imbarazzante nella quale venimmo a trovarci a causa della loro eccessiva indulgenza al bicchiere.

[p. 189, a Seulo]. Era la casa di un proprietario la cui ricchezza – dissero i miei amici – era favolosa. Risultò essere una costruzione modesta per una persona così facoltosa ma il valore della proprietà, che ne marcava il contrasto, si poteva cogliere dai molti contadini al lavoro nelle vigne che la circondavano.
[pp. 191-92, ad Aritzo]. A peggiorare la situazione contribuì il brindisi alla salute dei miei visitatori con un bicchiere di vino di Aritzo che, tanto Cristoforo che io, fummo concordi nel definire il peggiore liquore che mai avesse osato chiamarsi vino. Il ricordo del suo sapore mi fa rabbrividire anche mentre scrivo. Era una specie di liquido nerastro leggero, indescrivibilmente nauseante per un palato non avvezzo. …
In una casa di questo rango, mi sarei aspettato un pasto di qualche pretesa ma il mio ospite non ci offrì altro che una minestra acquosa di riso, maccheroni, pane e il suo vino infame.

[pp. 193-94, ad Aritzo]. Orbene, tutti questi cortesi inviti comportarono una conseguente sequela di brandy, rum o di vino di Aritzo che ovviamente rifiutai, salvo quello dell’ex bandito. Tutti ci avviammo a casa sua dopo che io ebbi indossato camicia e giacca.
Lungo strada, gli sussurrai all’orecchio che avevo contratto la pessima abitudine di bere brandy al mattino e che, per nulla al mondo, avrei potuto bere, a quell’ora del giorno, il vino locale. Con mia gran soddisfazione, quella degna persona accolse quanto gli avevo detto come una notizia confidenziale. Scosse il fiero capo e guardò i suoi compagni come avesse voluto dire: «Mi è stato rivelato un segreto molto importante. Ne potremo parlare in seguito, ma per ora soltanto io ne sono il depositario». E così, quando alcuni di noi si ritrovarono nel mezzo di barili di aringhe salate, forme di cacio e le botti di vino del negozio del mio amico, fu portata una caraffa di brandy e tre o quattro di noi brindarono alla reciproca salute con bicchieri lunghi e stretti come il collo di una gru.

[p. 204, a Fonni]. Entrammo nella periferia del villaggio nelle prime ore della sera, quando la terra, le vigne ed i grandi ciliegi dei suoi giardini esalavano i loro profumi.

[p. 209]. Forse la sua robusta costituzione, forse il vino o la dose da cavallo di chinino che gli avevo somministrato fra un bicchiere e l’altro, o tutte queste cose combinate insieme, fatto sta che la febbre gli era passata e mentre facevo colazione in beata tranquillità, udii di fuori la sua voce stentorea.

[p. 216]. Perdemmo circa mezz’ora in una stazione a dieci miglia da Cagliari; l’intervallo era tanto lungo che i passeggeri scendevano a bere del vino nel bar sistemato fra i fichi d’india ed i gerani, accanto alla biglietteria.

[p. 220]. La sera del Corpus Domini costituiva per Iglesias occasione di grandi divertimenti. Vagai per le straducole e, negli stanzoni simili a spelonche di molte case, notai parecchie tavolate organizzate fra vicini di casa, con grosse botti di vino e uomini che giocavano a carte gesticolando a tutto spiano. Questa era la festa per la gente di basso ceto.

[p. 225]. San Giovanni, e le diverse miniere adiacenti, appartengono alla “Società Mineraria”.

[p. 226, a Gonnesa]. Così chiamata dal nome del paese situato ai piedi della montagna principale. Qui la vettura postale si fermò per consentire al postino di acquistare salsicce, pane e vino da consumare durante il viaggio.

[p. 227 Sulcis]. È una terra infuocata, spoglia di alberi e quasi disabitata. Il terreno è fittamente ricoperto di cisto e di palmette nei punti in cui non vi sono appezzamenti coltivati a orzo inaridito e vigne.

[pp. 229-30]. La gente di Sant’Antioco è orgogliosa del vino della propria isola. La mia grande esperienza (grazie a Cristoforo) in materia di vini della terraferma, non mi consente, mi spiace dirlo, di lodarlo così entusiasticamente. Non può essere, di certo, posto sullo stesso livello dei vini dell’Ogliastra e del Sarrabus, tuttavia il vino è l’unico prodotto che essi possono esportare.

[p. 240, a Carloforte]. Furono abbattuti gli alberi in modo piuttosto sconsiderato, almeno a giudicare dalla nudità attuale dell’isola, e la terra fu lavorata per impiantarvi le vigne.

[p. 242, a Carloforte]. Dal 1803, Carloforte non ha più avuto problemi di pirateria. Oggi è una città marinara fra le più attive e sicure. Ho contato in porto cinque navi a vapore, parecchi barconi ed una flotta di barche da pesca. La sua vicinanza con Iglesias ne ha fatto il punto di imbarco per il continente e per l’Inghilterra del minerale che non viene lavorato in zona. Vanta, inoltre, un traffico attivo e autonomo con l’Africa per quanto concerne olio e vino, e soprattutto con Genova, la città madre.

[pp. 244-45, Carloforte]. Rare case bianche, con le vigne attorno, si ritrovano negli angoli riparati e sono collegate con Carloforte mediante sentieri che sembrano rampe di scale.

[p. 248, a Porto Scuso]. A Porto Scuso faceva un caldo soffocante. C’era una fontanella presso la stazione ferroviaria della linea secondaria, che da qui trasporta il minerale ad Iglesias e, durante le due ore che vi sostai, con l’ansia di andarmene al più presto, molte persone in attesa del treno vi si recavano a bere abbondantemente. Uno si lamentò di aver la febbre. – Allora bevi vino invece dell’acqua e stai all’ombra – fu il consiglio del solito Nestore che si trovava fra i suoi amici, ma quegli, con serafica indifferenza al consiglio ricevuto, continuò a bere acqua sfidando il termometro ed i suoi 135 gradi di calore.

[p. 259, Oristano]. L’atmosfera serena e fresca dell’edificio, la sua antichità, il chiostro con gli archi che si intravedevano dal portico, mi spinsero ad entrare. Lo storpio sgranocchiava pane dopo aver bevuto del vino.

[p. 285, tonnara di Stintino]. Con loro erano alcune donne che portavano i fiaschi del vino ed i fagotti del pranzo ed altre che la curiosità aveva spinto a fare da spettatrici del massacro.

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