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Nel porto dell’Asinara, 1 novembre 1873.

Qui siamo nella ridicola posizione di essere in quarantena; all’ancora in una baia dell’isola dell’Asinara, privato di ogni comunicazione con la terraferma e senza sapere cosa succede nel mondo. Fino a Livorno ho fatto un viaggio veloce e buono; ma l’altro ieri mattina, il tempo non era molto rassicurante in vista di una partenza via mare: cielo grigio, fulmini, acquazzoni torrenziali e nuvole che volteggiavano davanti a un vento violento; però verso mezzogiorno il vento maestro spazzava il cielo e tutto assumeva subito un aspetto migliore. Così alle tre ci imbarcammo a bordo dell’Umbria, un piccolo ma buon piroscafo a ruote.

Si corre tutta la sera nel canale tra la Corsica e l’Elba, puntando dritti con un forte vento maestro, cioè puntando appena a sud. Nella notte abbiamo avvertito qualche raffica di vento abbastanza forte, ma solo ieri mattina, verso le nove, la situazione ha preso una brutta piega. Eravamo allora al traverso di Porto Vecchio, in Corsica, e tre o quattro leghe al largo; il vento stava diventando sempre più freddo e fresco. Se non ci fosse stata la quarantena da fare, il capitano sarebbe uscito al Porto Vecchio, ma aveva fretta di arrivare per presentarsi davanti a Porto Torres e contare il suo tempo prima di venerdì sera; decise quindi di tentare il passaggio delle Bocche di Bonifacio, anche a costo di fare dietrofront e correre contro vento fino a Liscia in Sardegna, se fosse diventato impossibile attraversare lo stretto.

Camminiamo lentamente e faticosamente con tutta la pressione di cui è capace la caldaia e, poco a poco, usciamo dal rifugio della Corsica. Doppiando il Capo di Bonifacio, incontrammo un mare enorme proveniente dalle immense distese oltre lo stretto, ma dopo alcune ore di lotta, raggiungemmo le acque calme del golfo e verso le cinque ormeggiammo alla boa di fronte. Porto Torres; un attimo dopo ci dirigiamo verso l’Asinara, che è un’isola a nord del golfo, a quindici miglia da Porto Torres.

Qui siamo sequestrati, ridotti alle nostre sole risorse e questo per tre lunghi giorni di ventiquattr’ore; per fortuna a bordo c’è piacevole compagnia e poco spazio: solo sei passeggeri di prima classe.

Ma in una situazione del genere ci annoiamo parecchio e per passare il tempo ci inventiamo di tutto: pesca, giochi da tavolo, gite in barca intorno alla nave; ma l’evento più importante della giornata sono, per noi come per i malati, i pasti; con quale piacere sentiamo suonare il pranzo e la cena! Inoltre a bordo siamo nutriti perfettamente, ma dormiamo solo male, perché i letti hanno tre grossi difetti: sono corti, stretti e duri.

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Sassari, 4 novembre 1873.

Sbarcati ieri sera all’imbrunire a Porto Torres, che è un porto di mare assai insignificante, siamo arrivati ​​qui alle sette in treno; è una distanza di venti chilometri.

Sassari è un comune di 35.000 abitanti, situato su un altopiano, a 200 metri sul livello del mare, e circondato da mirabili uliveti che si estendono per cinque o sei chilometri intorno, e formano una sorta di oasi nel deserto sardo.

Sassari è, senza dubbio, la cittadina più bella dell’isola; ci si potrebbe credere sul continente, se non fosse per gli strani costumi dei contadini che arrivano dall’interno, tutti montati sui loro graziosi cavallini, i cani senza padrone che vanno in branco per le strade, gli asinelli della grandezza di cani di grossa taglia che trasportano l’acqua ai piani alti delle case e altri usi del tutto locali.

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Abbasanta, 6 novembre 1873.

Chi non è mai stato in Sardegna, anche chi ha letto tutto quello che è stato scritto sull’isola, non può avere una giusta idea della bellezza di tutto ciò che è opera della natura all’interno, né della bruttezza di tutto ciò che è quello dell’uomo. Paesaggi ammirevoli, montagne tagliate in modo più fantastico di qualsiasi cosa abbia mai visto nel continente, e un clima insulare, con aria mite e umida, che, combinato con un sole più meridionale di quello di Napoli, produce una vegetazione splendida e rigogliosa di cui l’Italia offre solo una vaga idea.

Qui non ci sono rocce nude, tranne le ultime scarpate delle alte montagne; ovunque un verde che colpisce il viaggiatore forse più di ogni altra particolarità del paese.

Sono partito da Sassari l’altro ieri in una piccola carrozza scoperta, e per due giorni ho percorso una brughiera assolutamente incolta e deserta, ma verde come un prato. Pianure a perdita d’occhio, colline tagliate da deliziosi burroni e guarnite di ciuffi d’alberi; sembrava di essere in un parco all’inglese. Di qua e di là, una stamberga abitata da pastori, e che pittoreschi selvaggi! Ma non un campo coltivato, fatta eccezione per pochi appezzamenti intorno a Bonnanaro, Torralba, Macomer, gli unici tre borghi o incontri di poche case che troviamo lungo questo vasto percorso.

La Sardegna ha una superficie di 2 milioni e 407 mila ettari, che costituisce un Paese grande quanto l’Olanda e quasi uguale alla Svizzera. La sua popolazione, che nell’antichità era di due milioni, oggi supera appena i cinquecentomila. Ad ogni passo incontriamo i resti della prosperità di un tempo. Nessun paese è più ricco di rovine preistoriche.

Uscendo da Sassari passiamo accanto ad un vasto cimitero di origine sconosciuta, si tratta di grandi tombe scavate nella roccia viva, un tufo bianco, molto facile da lavorare.

Più avanti, tutte le alture sono coronate dai Nuraghi, costruzioni ciclopiche in pietra a secco, presenti a migliaia su tutta la superficie dell’isola.

Sono costituiti da un muro di cinta di forma ovale e da una torre centrale con all’interno alcuni ambienti, tutti lunghi dai dieci ai trenta metri e alti dai tre ai venti. Alcune delle pietre utilizzate nei muri misurano fino a quattro metri. In questi ruderi furono rinvenute monete e immagini cartaginesi a cui fu attribuita un’origine fenicia, che ne farebbe datare l’abbandono ad un’epoca anteriore alla dominazione romana, iniziata sotto Scipione, nell’anno 259 a.C.

Torralba è il primo borgo sardo che ho visto da vicino. Immaginate case distanziate tra loro, costruite in modo irregolare, senza allineamenti, tutte solo al piano terra e formanti un unico ambiente. Queste capanne sono tutte imbiancate in modo molto pulito, ma davanti alle porte c’è una profondità sconosciuta di sporcizia senza nome. All’interno regna una confusione impossibile da descrivere, uomini, donne, bambini, cani, galline, maiali, tutto convive, notte e giorno.

Da Torralba a Macomer, stesso paese e stesso deserto; ma a Macomer il panorama cambia. Questo paese si trova al limite della catena collinare, o di terreno più o meno aspro, che riunisce i monti della Nurra e della Gallura, vale a dire i due promontori a nord dell’Isola, a ovest e a est dell’Isola il Golfo dell’Asinara; Da Macomer il paese scende bruscamente per circa duecento metri, e il viaggiatore ha davanti a sé la pianura a perdita d’occhio che si estende senza interruzione fino a Oristano e Cagliari. Niente colpisce di più di questo scorcio di campagna abbandonata, di questo prato verde e naturale che si perde nell’orizzonte verso Sud, delimitato a Est dalle mirabili scarpate della Barbagia, dell’Ogliastra, del Gennargentu.

È proprio la Sardegna Ferax che cantava Orazio, che un tempo fu il granaio di Roma, e che aspetta solo di tornarlo ad essere con le armi e le bonifica.

Abba Santa è un miserabile borgo in mezzo alla pianura paludosa. Le case sono costruite disordinatamente a destra e a sinistra, l’acqua resta in pozzanghere davanti alle porte, e gli abitanti quasi tutti portano il segno della febbre della palude, il flagello della Sardegna. I bambini sardi sono magnifici, rosa e paffuti fino all’età di sette o otto anni, ma poi diventano magri e gialli, segnati dal segno della malaria e una proporzione spaventosa di loro muore.

Qui lasceremo la strada principale ed entreremo in montagna, nella regione dove non ci sono più alberghi e dove pernotteremo al primo che arriva; è il modo vero per conoscere un paese e i suoi abitanti.

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Sorgono, 8 novembre 1873.

Eccomi in viaggio a cavallo attraverso campi o meglio attraverso pendii incolti, ma riccamente boscosi di lentischi, corbezzoli e mirti. Questo è il momento di parlare dei costumi e della lingua del paese. Parliamo oggi di linguaggio, domani di morale.

In Sardegna, come ovunque, la lingua è frutto della storia del Paese e ne porta l’impronta. Tuttavia, sono pochissimi i paesi al mondo che sono appartenuti a così tanti maestri diversi. Cinquecento anni prima di Cristo, i Cartaginesi respinsero gli indigeni verso l’interno e si stabilirono sulle coste; trecento anni dopo, i Romani ricambiarono il favore ai Cartaginesi; nel VII secolo il cristianesimo penetrò nell’isola e la sovranità fu rivendicata dai papi. Ma arabi e saraceni devastarono la costa e perseguitarono gli abitanti a tal punto che Giovanni XVIII predicò una crociata contro di loro, nell’anno 1004, e offrì il possesso dell’isola a chi fosse riuscito a scacciare gli infedeli. Le repubbliche di Genova e Pisa accettarono l’incarico, annientarono i Mori e si fecero guerra tra loro per vedere a chi sarebbe spettato il bottino. I pisani vinsero e la Sardegna divenne una dipendenza della Repubblica di Pisa. Ma la curia romana, che non aveva mai avuto intenzione di rinunciare seriamente alla sovranità dell’isola, si scontrò con Pisa, nel 1320, sotto il pontificato di Giovanni XXII, e si affrettò a donare la Sardegna alla corona d’Aragona.

Ciò portò naturalmente ad una lunga e sanguinosa guerra tra Pisa e la Spagna; ma venne definitivamente deciso, nel 1481, che la Sardegna sarebbe entrata a far parte del regno d’Aragona e di Spagna. In seguito alla guerra di successione tra Austria e Spagna, dopo la morte di Carlo II, la Sardegna venne assegnata all’Austria con il Trattato di Utrecht del 1714. Infine, nel 1720, l’imperatore Carlo VI la scambiò con la Sicilia con Vittorio Amedeo II di Savoia, che prese poi il titolo di Re di Sardegna.

Questa successione di bandiere diverse, ciascuna portatrice di una nuova lingua ufficiale; questi continui cambiamenti nell’indirizzo della cosa pubblica non potevano non lasciare tracce nei costumi e nella lingua degli abitanti, paralizzando allo stesso tempo ogni progresso materiale o morale, e ho fatto di un paese ricco e fertile il paese deserto e infelice che attraverso.

Il fatto è che i governi che governarono la Sardegna nel passato non la considerarono mai come una parte della nazione che era loro dovere sviluppare e coltivare, ma piuttosto come un possedimento straniero che apparteneva loro solo per essere sfruttato. Nel secolo e mezzo che l’isola è stata sotto lo scettro di Casa Savoia, negli ultimi anni non si è visto che un notevole miglioramento nella direzione delle cose. Nel 1848, la promulgazione dello Statuto negli ex Stati Sardi portò la libertà in Sardegna con la libertà di stampa e il governo rappresentativo, unici veri interpreti delle esigenze di un Paese. Ma dal 1848 al 1870 l’Italia aveva troppo da fare sul continente per prendersi cura di un’isola al centro del Mediterraneo, la cui esistenza era stata quasi dimenticata; e quando un abitante di quest’isola osava far sentire la sua voce per esigere l’attenzione e la benevolenza del governo, c’era sempre un’altra provincia più influente e meglio conosciuta che aveva gli stessi bisogni e che li otteneva al posto della Sardegna. La Sardegna aveva bisogno di strade; e le province napoletane? La Sardegna non aveva un chilometro di ferrovia; e la Sicilia, questa figlia viziata dei governanti? La Sardegna aveva pianure malsane che necessitavano di essere bonificate; e le Maremma toscane? e le paludi pontine? altrimenti era importante.

La Sardegna aveva bisogno di una buona legge forestale che impedisse l’eccessiva deforestazione; ma le Province continentali non avevano bisogno di una revisione delle loro diverse legislazioni al riguardo? E i sardi aspettano ancora che i continentali si mettano d’accordo tra loro.

Tuttavia, la commissione d’inchiesta inviata nell’isola dalla Camera dei Deputati nel 1868 fu di grande utilità per richiamare l’attenzione, attraverso pubblicità e discussioni, sullo stato di abbandono del paese e sulla ricchezza che vi poteva svilupparsi. Oggi la rete delle principali strade di prim’ordine è quasi completa; più di cento chilometri di ferrovia sono aperti al pubblico e ce ne sono altrettanti in costruzione, cosa che un’altra isola, sorella della Sardegna, non ha, pur essendo da sempre la preferita di un governo che non ha mai esitato a proclamarsi superiore a tutti gli altri. L’istruzione pubblica fa progressi, le scuole si moltiplicano e sono ben frequentate; tuttavia esiste ancora un numero preoccupante di analfabeti; ci sono molti posti nell’entroterra dove è difficile trovare un uomo che sappia scrivere il suo nome per farlo diventare sindaco del villaggio. Ma torniamo al dialetto.

Ad eccezione di Alghero, porto occidentale la cui lingua è ancora lo spagnolo, in tutta la Sardegna si parla un “patois” che è una singolare mescolanza di latino e spagnolo con alcuni elementi indigeni.

Questo dialetto, che si modifica leggermente da regione a regione, è forse, soprattutto al Sud e sui monti che circondano Gennargentu, la lingua moderna che più si avvicina al latino.

È anche possibile formare intere frasi completamente latine; quindi: Nos zumus in domu, Deus est in chelu, non hanno bisogno di traduzione per chi conosce il latino.

Le parole latine che iniziano con la c seguita da un dittongo, assumono in sardo il suono duro. Forse lì c’è traccia dell’antica pronuncia. Così cælum diventa chelu, pronunciato: kèlou.

Un poeta sardo, padre Madao, scriveva versi utilizzando esclusivamente parole ed espressioni che appartengono allo stesso tempo al sardo e al latino. La sua poesia Divina Providentia è quindi scritta in entrambe le lingue contemporaneamente. Ecco un esempio: è più curioso che bello:

«O fragiles creaturas, et errantes! O tempus breve! o humanas mutationes! Bene et male operamus inconstantes, Ruimus, et vitamus occasiones; Teneros nos sentimus, et amantes Duros etiam, ingratos. O passiones ! Libera nos, o Deus, cum clementia, Et clamores intende cum patientia».

Ma la lingua è meno latina finché non si tenta deliberatamente di latinizzarla. La lingua ordinaria ha anche un forte tocco di spagnolo, testimoniano questi due proverbi:

Z’homine de paga impita, abbaidadilu a caddu, il che significa che l’uomo di poco valore si riconosce a cavallo.

Cum Deus et cum zu Re, pagas paraulas, avec Dieu et avec le roi, peu de paroles.

Infine, ecco un frammento di una canzone popolare che è una preghiera per l’acqua in tempi di siccità. Qualunque latinista capirà, non appena gli verrà detto che abba significa acqua:

Abba Deus imploramus, Et abba Deus pedimus, Pro z’abba Deus pianghimus, Et pro z’abba zuspiramus, Cum zas abbas ch’ispettamus Zas terras fertilitade.

L’articolo determinativo sardo, zu, za, deriva dal pronome latino ipsum, ipsa; la i dell’eufonia che si introduce quando l’articolo è preceduto da certe consonanti non è che una reminiscenza della radice; esempio: Tres cosas zunt reversas in zu mundu: z’arveghe, z’ainu et iza femina. Tre cose sono ostinate al mondo: la pecora, l’asino e la donna.

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Ovodda, 9 novembre 1873.

Niente nei costumi dell’isola di Sardegna colpisce il viaggiatore straniero più della cordiale ospitalità che si incontra ovunque. In questi villaggi isolati non c’è nulla che assomigli ad una locanda e neppure ad un cabaret; il viaggiatore resta con i suoi conoscenti, con il primo venuto se non ne ha. Subito tutti fanno di tutto per servirlo e offrirgli quel poco che hanno. Un grande fuoco è acceso sul pavimento di terra battuta nel mezzo della cucina, che è una stanza molto alta, ma senza uscita per i fumi; uccidiamo un maialino da latte, che in pochi minuti viene arrostito e servito, e gli prepariamo il miglior letto che abbiamo, in mancanza uno zerbino accanto al fuoco.

Il sardo è naturalmente gentile e affettuoso, ma è molto sensibile e restio alla fiducia, come chi è stato preso in giro per molto tempo e molto. È il risultato della storia della sua terra natale. Le guerre che in passato devastarono l’isola, le incessanti faide che esistevano da famiglia a famiglia, da tribù a tribù, hanno, per così dire, instaurato nei costumi del paese la diffidenza e l’abitudine di essere sempre armati. Chi intende allontanarsi dal proprio villaggio porta con sé una pistola alla cintura o un fucile a tracolla; i pastori custodiscono i loro greggi con la spada alla cintura. Immaginate venti o trenta uomini che attraversano la brughiera, montati su ottimi cavalli di mezza taglia, con ghette di panno nero, pantaloni di tela fluenti, un caban nero con cappuccio sempre in testa, ciascuno con il suo fucile orizzontalmente sul pomo della sella, e voi avrà un’idea del contadino sardo che va a lavorare.

Il sardo è più religioso che papista. Crede in Dio e parla spesso di Lui, ma presta poca attenzione alla Vergine e ai santi. Il liberalismo politico e sociale è diffuso; ci sono pochi chierici effettivi e pochi sacerdoti. Inoltre, l’insufficienza della popolazione e la facilità che lo spazio illimitato offre a tutti di guadagnarsi da vivere, non favoriscono il seminario; è nei paesi con una popolazione superflua che il sacerdozio trova più facilmente le sue reclute. Per lo stesso motivo i poveri sono pochi; non ho incontrato un mendicante in tutta l’isola.

Il sardo è estremamente patriottico. Ha un sentimento di inferiorità e di abbandono del suo Paese, ma non gli piace quando gli stranieri glielo rimproverano. Parlategli della bellezza dell’isola e del clima, suggeritegli le culture straniere che vi potrebbero essere introdotte, addirittura deplorate con lui le vaste distese di terre incolte, la mancanza di iniziativa e la popolazione insufficiente, ma avendo cura di collocare il dai la colpa di tutto questo ad altri che ai Sardi, e te li farai amici; ma attenzione a non parlargli di colonizzazione straniera e attenzione se vi azzardate a fargli capire che za Zardinia non est zu paradisu in terra.

La Sardegna è, infatti, una sorta di Eden nel quale il male si è introdotto sotto forma di un sottile, inafferrabile miasma, che aleggia sul bassopiano e che il vento trasporta, come messaggero di morte, anche nelle zone più alte e sane. località per loro natura.

Il terreno della pianura rimase incolto per secoli; i resti della vegetazione spontanea, accumulandosi di generazione in generazione, si sono corrotti e, sotto l’influsso di un sole cocente, hanno diffuso malattie e morte nelle zone circostanti:

Hinc hominum, pecudumque lues, hinc pestifer aer.

Sulla malaria in Sardegna si è scritto molto, alcuni l’hanno esagerata, altri ne hanno attenuato l’importanza. Il fatto è che, ad eccezione di Oristano, Tortolì e poche altre località, le febbri intermittenti sono piuttosto benigne e quelle perniciose rare; ma è altrettanto vero che questo clima malsano, che rende impossibile il lavoro agricolo durante l’estate, ha colpito, come una maledizione, l’improduttività del suolo e l’inerzia della popolazione. I lavoratori piemontesi, lucchesi ed altri che si recano a migliaia in Sardegna per lavorare nelle miniere di piombo e nella costruzione delle ferrovie, hanno tutti cura di lasciare l’isola prima del caldo intenso dell’estate per poi ritornarvi più che a novembre.

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Ortueri, 12 novembre 1873.

In questi giorni ho viaggiato tra i boschi di querce bianche e verdi che adornano i monti del Gennargentu, il cui punto più alto, la vetta più alta dell’Isola, raggiunge un’altezza di circa milleottocento metri sopra il livello del mare. Non avevo mai visto querce di queste dimensioni; si tratta di foreste completamente vergini abitate da cinghiali, cervi e mufloni, cioè l’animale che, attraverso la domesticazione, ha dato origine alla pecora.

Vi vediamo alberi di dimensioni e di sviluppo di cui è difficile dare un’idea; clematidi e altre liane, i cui fusti sono grossi quasi quanto il tronco della quercia che le sostiene, pendono tra i rami, si intrecciano e formano boschetti impenetrabili all’uomo. Gli abitanti dei pochi borghi che esistono in questa regione elevata hanno una tipologia sia araba che pellerossa. Pelle ramata, ingiallita dalla febbre, lunghi capelli neri e ricci che scendono sul viso e sulle spalle, un grande berretto nero che ricade all’indietro, una giacca rossa senza maniche sopra una camicia dal taglio strano, un gilet nero che diventa fondo, una gonna lunga fino a metà cosce, pantaloni larghi di lino e ghette nere fino al ginocchio; hanno le pose pittoresche e i gesti espressivi dei popoli selvaggi.

Le donne, generalmente belle, di carnagione chiara e ben fatte, indossano un costume non meno notevole: un fazzoletto colorato intorno alla testa, un’ampia camicia bianca con maniche fluenti, un corsetto nero o colorato, allacciato sul davanti e spesso decorata con ricami d’oro o d’argento, una gonna dai colori vivaci, spesso rossi, costituita da un pezzo quadrato di stoffa che viene arrotolato stretto attorno al corpo sotto la cintura e che scende dritto fino a’ piedi nudi.

Ieri sera, sulla via del ritorno a Ortueri, ci è capitato un episodio ridicolo che dà l’idea degli inconvenienti a cui può essere soggetto il viaggiatore in paesi come questo. La notte ci sorprende in un mirabile bosco di lecci, dove c’è un fiume che dobbiamo guadare.

Quando scendemmo nel burrone pioveva a dirotto e, all’ombra delle folte querce, non vedevamo assolutamente nulla; ma la cavalla di X, abituata a percorrere il sentiero, era davanti e ci guidava perfettamente.

Ad un certo punto, una vite spinosa toglie il cappello di X; scende da cavallo per cercarlo e risale in sella; ma la cavalla, voltandosi, non trova più la strada. Siamo in un cespuglio di spine.

Tutti smontano e brancolano, ma incontrano solo ostacoli. Avevamo tre scatole di fiammiferi e per più di un’ora abbiamo cercato una via d’uscita, tenendo i fiammiferi sotto l’ombrellone, ma invano. Ad un certo punto, io e X eravamo davvero in pericolo. Cercò a tentoni il passaggio e io lo seguii, conducendo due cavalli.

Ho sentito una caduta e la voce di X, che sembrava provenire dal sottosuolo, che diceva di essere caduto in un precipizio. Un fiammifero acceso da qualcuno illumina momentaneamente la situazione, e mi vedo sul bordo di una profonda buca scavata dalle acque ai piedi di un albero; X era dentro, supino, nell’acqua, e non ho potuto fare a meno di caderci dentro anch’io; ma, prima di scendere, ebbi il tempo di sferrare un pugno ai due cavalli per mandarli all’indietro, dopodiché rotolai sul grosso e grasso corpo di X.

Mi ha preso per la sua cavalla; L’ho rassicurato e siamo usciti il ​​più presto possibile attraverso sassi e spine. Allora abbiamo capito che dovevamo semplicemente restare dov’eravamo finché non si fosse schiarito o non fosse sorta la luna a mezzanotte, e potevano essere le sette.

Pioveva a dirotto, il fiume lì vicino ruggiva e la terra scorreva sotto i nostri piedi. Ognuno si arrangiava come poteva: alcuni si lasciavano andare a lamenti, altri a imprecazioni; dal canto mio, avevo capito che il pericolo più grande che correvamo era quello di passare la notte sotto la pioggia e a stomaco vuoto, dettaglio spiacevole, soprattutto perché avevamo fame e sapevamo che il maialino da latte ci avrebbe aspettato a mezz’ora di distanza. Allora presi la mia coperta e mi gettai in una cavità ai piedi di una vecchia quercia.

Stavo bene lì; Ho anche dormito un attimo e ho sognato che leggevo Dante; il fatto è che eravamo nell’annosa selva, chè la diritta via era smarrita. Finalmente, a una certa ora, la pioggia cessò, il cielo si schiarì e la chiarezza delle stelle ci permise di vedere abbastanza da non sbattere contro gli alberi; Trovammo poi il guado e ritornammo a Ortueri alle undici, senza aver mangiato nulla per dodici ore ben contate.

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Cagliari, 15 novembre 1873.

Da un anno è aperta la ferrovia centrale che collegherà Cagliari a Sassari e Porto Torres, da Cagliari a Oristano, con una diramazione per Iglesias. Oristano è un triste porto di mare, costruito tra un vasto stagno di acqua salata e lo sterminato e paludoso Campidano: è la località più soggetta alla malaria di tutta la Sardegna. Lì ho salutato l’altro ieri, non senza rammarico, il mio cavallino sardo, vispo come mercurio e docile come un agnello, e ho preso il biglietto per Cagliari, distanza di novantaquattro chilometri. La linea percorre ancora l’assoluta pianura del Campidano, il cui ricco suolo comincia qui ad essere coltivato. Seguiamo i vasti stagni di acqua salata che costeggiano il mare e in cui gli uccelli acquatici abbondano in modo sorprendente. In ogni stazione, gli allevatori vengono ad offrire anatre selvatiche per 75 centesimi al paio.

Questi prezzi vi daranno un’idea del buon mercato dei generi alimentari in Sardegna, eppure viene coltivata solo la terra necessaria a provvedere al fabbisogno degli abitanti.

La Sardegna, con il suo suolo fertile, il suo clima insulare e il suo sole meridionale, quasi africano, ha tutte le carte in regola per produrre le derrate alimentari più preziose e varie. Le colture campicole, i cereali, le patate, i legumi, la vite, danno i prodotti più magnifici; le piante semitropicali, che sopravvivono a malapena sulle nostre coste meridionali, vi danno ottimi frutti. La palma e il banano ci sono già, ma in piccoli numeri; il fico d’India ricopre intere colline con le sue foglie grandi, spinose e carnose; i suoi frutti servono per nutrire i pori. Canna da zucchero, caffè, cotone sono colture che potrebbero essere introdotte e che non mancherebbero di avere successo.

La flora della Sardegna, come generalmente avviene nelle isole, non è molto varia.

Le piante erbacee ricoprono il terreno con un tappeto di verde o di fiori, a seconda della stagione; ma se guardiamo da vicino, restiamo colpiti dal non trovare più un gran numero di specie che abbondano nel continente, ad uguale latitudine, e questo senza che siano rappresentate da nuove specie.

Questa povertà di specie, unita all’abbondanza di individui, è ancora più notevole tra le piante di stirpe e gli alberi ad alto fusto. Soltanto i querceti, il leccio e la sughera (quercus robur, ballota, ilex e suber) formano, con qualche faggio e qualche castagno, l’insieme delle vaste foreste che ricoprono i monti orientali. Tra gli arbusti che ricoprono i pendii si trovano solo agrifoglio, corbezzolo, palmisti, mirto e lentisco. La famiglia delle conifere, così diffusa in Corsica, non è quasi rappresentata in Sardegna. L’albero selvatico o olivo cresce spontaneo ovunque, ma la pianta non è autoctona; è lì solo per ricordarci i campi coltivati ​​di una volta.

La fauna dell’isola, ad eccezione degli uccelli, non è più ricca della flora; il cinghiale, il cervo, il muflone, la volpe sono gli unici animali di una certa taglia; la lepre e il coniglio sono abbastanza comuni, ma il lupo è sconosciuto.

La selvaggina, i falchi e gli uccellini di tutte le specie, di passaggio o nidificanti nel paese, esistono in quantità di cui è difficile dare un’idea. Nelle foreste del Gennargentu, verso il Rio de perdas fittas, vidi i colombacci levarsi in stormi che intercettavano come una nube i raggi del sole.

Sassari e Cagliari sono due città rivali che da tempo si contendono il titolo di capoluoghi dell’isola.

Questa rivalità, oggi scomparsa come aspirazione politica, persiste sotto forma di una certa gelosia sociale tra cagliaritani e sassaresi, e ha lasciato tracce soprattutto nell’aspetto e negli usi delle due città.

Sassari è più allegra, circondata da colline sorridenti e coltivate; la costruzione della città e l’architettura dei monumenti pubblici ricordano più le province meridionali dell’Italia o la Sicilia. Cagliari, al contrario, poggia ardita sul fianco ripido di una collina e bagna i piedi nelle acque del suo immenso golfo, con le sue strade tortuose e in forte pendenza, le sue case dai colori accesi e variegati, dove ogni finestra ha il suo balcone con la sua balaustra in ghisa riccamente lavorata, Cagliari ha un carattere un po’ spagnolo che rimanda alla dominazione dei re d’Aragona.

Il piroscafo postale parte domani sera per Livorno, ed io intendo partire a bordo di quest’isola dove il passato è così ricco di commoventi ricordi, e dove l’avvenire non sarebbe da meno di prosperità agricola ed industriale, se solo potesse cadere un alito salubre. queste pianure paludose, la cui vegetazione lussureggiante è un invito e allo stesso tempo un rimprovero per il contadino; se solo la vita e l’attività potessero penetrare in queste valli silenziose

Il piroscafo postale parte domani sera per Livorno, ed io intendo partire a bordo di quest’isola dove il passato è così ricco di commoventi ricordi, e dove l’avvenire non sarebbe da meno di prosperità agricola ed industriale, se solo potesse cadere un alito salubre. queste pianure paludose, la cui vegetazione lussureggiante è un invito e allo stesso tempo un rimprovero per il contadino; se solo la vita e l’attività potessero penetrare in queste valli silenziose dove l’eco della scure del taglialegna, udito da lontano, sembra chiamare altri lavoratori al lavoro; se solo lo spirito intraprendente del progresso moderno potesse impossessarsi di questo popolo intelligente e amichevole, ma la cui energia è risucchiata dal vampiro della malaria, i cui figli vengono mietuti dalla spietata falce della febbre palustre.

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