SARDEGNA

di Albert t’Serstevens

tratto da

SICILE, ILES EOLIENNES, SARDAIGNE

Parigi, Arthaud, 1957

(traduzione a cura di Gallura Tour)

su ALBERT t’SERSTEVENS si veda

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NOTA EDITORIALE

Il libro ebbe due edizioni, la prima nel 1957, la seconda nel 1965 con due ristampe. Gallura Tour le possiede entrambe.

Estratti della seconda edizione del libro sono disponibili sia in Books libri sia nella BNF (Biblioteca Nazionale Francese) – Gallica, mentre la lettura integrale è disponibile acquistando il libro in formato Epub da FeniXX – Rééditions numériques des Livres Indisponibles du XXe siècle

L’acquisizione delle due edizioni (il libro della prima edizione, l’epub della seconda) è stata molto utile. Seppure poche, ci sono infatti delle differenze tra le due di cui dar conto: di formato identico, il numero di pagine della seconda edizione è leggermente superiore per via del maggior numero di fotografie inserite (anche se qualche preziosa foto della prima non figura nella seconda). Il testo presenta alcune (poche) note a piè pagina, una in più nella seconda edizione (quella sulla appena nata Costa Smeralda). Per il resto il testo delle due edizioni è identico.

Questa proposta di Gallura Tour si propone come una edizione per certi aspetti unica e diversa, nuova, essendo stata oggetto di un impegnativo lavoro di curatela: infatti unifica e propone insieme le foto dei due volumi (lì disposte in pagine a parte, ossia fuori testo), inserendole inoltre vicine all’argomento cui si riferiscono (eliminando così dal testo i rimandi ad esse contrassegnati come Fig. 1, Fig. 2, eccetera, poiché non più necessari); altresì le poche note del testo originale sono evidenziate nel corpo del testo tra parentesi tonde (invece nell’originale a piè pagina). Non solo: sono state apportate correzioni ai nomi di luogo e certi vocaboli sono stati spiegati tra parentesi quadre, come delle note e l’Indice è stato reso più organizzato e dettagliato per informare meglio dei contenuti.

Infine, le fotografie del libro sono state integrate da altre esterne. Quelle del libro sono chiaramente contrassegnate con apposita didascalia: oltre a quelle – la maggior parte – dell’autore, altre recano la firma di due fotografi di fama: Yan, Toulouse – nome d’arte di Jean Dieuzaide (di Tolosa) – e Claude Champinot (cui si devono alcune delle prime immagini del Sessantotto parigino); resta da decifrare la sigla/firma «Cl. Hébert-Stevens.

I disegni a pennello («dessins au pinceau») sono di AMANDINE DORÉ moglie dello scrittore.

Presentazione

È il 1956, aprile e maggio. Una automobile, probabilmente una Citroen 2CV con capote apribile dall’interno e dentro due francesi, sbarca in Sardegna a Olbia.
Lui ha settantuno anni, Lei quarantaquattro. Lui si chiama Albert t’SERSTEVENS, lei Amandine Doré (della famiglia del celebre Gustavo Doré).
Lui è da quattro decenni un affermato e prolifico scrittore francese, provetto viaggiatore e amico di tanti importanti nomi della cultura francese e internazionale, su tutti Blaise Cendrars.
Lei di anni ne ha quarantaquattro e di mestiere è pittrice, ed è sua moglie. Nel loro viaggio fino a Cagliari e ritorno a Olbia non alloggiano solo in alberghi e camere in affitto, ma anche in tenda: infatti amano accamparsi in accoglienti e rupestri valli sotto il cielo stellato.
Dopo la Sardegna proseguiranno alla volta della Sicilia e delle Eolie: il libro che ne consegue è molto bello, scritto da lui e illustrato con tanti disegni al carboncino da lei, ovviamente, oltre che da tante foto, dell’autore e alcune di referenziati fotografi francesi. Pubblicato nel 1957, il libro ebbe una seconda edizione nel 1965 appena innovata di poco in qualche dettaglio e nelle foto, oltre che nella copertina.

Gallura Tour è lieta di annoverare ora anche questo nuovo scoop nella propria grande e pregiata biblioteca digitale: si tratta infatti d un altro viaggio sconosciuto in Sardegna, e mai pubblicato in italiano, di un grande nome della letteratura francese del Novecento: ALBERT t’SERSTEVENS (Uccle 24 settembre – Neuilly-sur-Seine 13 maggio . Scrittore belga di lingua francese, naturalizzato francese nel 1937, amico di Cendrars, Cocteau, Picasso, e tanti altri nomi della letteratura francese e internazionale, Autore, a partire dal 1911, di un gran numero di opere in diversi generi e argomenti, fece infine della letteratura di viaggio il suo genere prediletto, coniugando così il piacere dei viaggi per tutto il mondo col mestiere e il talento di scrittore. Un sintetico profilo su di lui lo propone la Treccani, mentre un ritratto più dettagliato è alla voce di Wikipedia (versione francese). Sposò Amandine Doré, pittrice molto più giovane di lui, che illustrerà molti dei suoi libri di viaggio, fra cui Sicile, Iles éoliennes, Sardaigne, l’opera oggetto dell’attenzione e riproposta di Gallura Tour, con la prima traduzione in italiano.
Nel 1951 fu insignito del titolo di Ufficiale della Legion d’onore, una delle più alte onorificenze francesi.
Nel 1953 ricevette il Gran Premio Letterario del Mare e d’Oltremare, riconoscimento riservato agli autori che si sono distinti per opere dedicate al mondo marittimo e ai territori d’oltremare.
Nel 1960 gli fu conferito il prestigioso Gran Premio della Société des Gens de Lettres, uno dei massimi premi letterari francesi assegnati da scrittori a scrittori.

Come traspare nell’ordine dei nomi del titolo in copertina e frontespizio della seconda edizione, la Sardegna è la terza parte di un viaggio di circa cinque mesi (nel libro se ne contano cinque, per quanto l’autore nella presentazione dica otto) nelle più antiche e famose isole del Mediterraneo. Il maggior interesse e la maggior parte del bello e corposo libro è però alla Sicilia; preferenza dimostrata nel numero delle pagine e anche dalla breve introduzione tutta ad essa dedicata senza invece una sola parola alla Sardegna. («Più di ogni altra tra queste isole, la Sicilia riflette, come uno specchio a più facce, tutte le civiltà del vecchio mondo. È il crocevia delle razze venute dai tre continenti antichi, e ciascuna vi ha lasciato qualcosa del proprio genio particolare. Percorrere quest’isola è ripercorrere la storia del pensiero mediterraneo, il più bello e nobile che sia mai fiorito sulla terra, troppo bello per non essere minacciato e forse presto scomparire»).

E tuttavia, sebbene la Sardegna appaia secondaria nel progetto di viaggio ed editoriale incentrato sulla Sicilia e le Eolie, non per questo la parte dedicata va vista di fatto come un minus culturale: si tratta pur sempre di un buon numero di pagine di grande interesse, un corpus organico tale da costituire una sorta di completo e agile libro di viaggio, e sono per giunta di un nome di gran rilievo nel panorama culturale e della letteratura di viaggio francese e internazionale. (Ecco altri dettagli del libro facendo riferimento alla seconda edizione: formato 22,5 x 14,5 cm; 487 pagine, di cui 383 di testo e numerate così distribuite: pp. 13-243 alla Sicilia, pp. 247-281 alle Eolie, pp. 285-361 alla Sardegna; i disegni di Amandine Doré sono perlopiù nelle pagine di testo numerate, tranne una a tutta pagina, non numerata; quindi esattamente 77 pagine corredate da altre 17 pagine di immagini, 16 di foto e 1 di disegno fuori testo e non numerate).

A dispetto dell’ordine dei luoghi nel titolo sia della prima e sia della seconda edizione (si vedano sopra le copertine: nella prima edizione la Sardegna figura in seconda posizione, invece nella seconda in terza), il viaggio ebbe avvio dalla Sardegna: t’Serstevens e Amandine Doré (qui la foto) la percorrono da Nord a Sud, come solito di tutti i viaggiatori, nei mesi di aprile (ce n’è indicazione nella tappa di Sassari) e maggio (il 1 maggio sono a Cagliari per la festa di Sant’Efisio, e mancano ancora molte tappe prima di lasciare l’isola; in giugno, luglio e agosto invece i due coniugi viaggiatori sono in Sicilia e Eolie). Un particolare che balza subito all’attenzione è che girano la Sardegna non in pullmann o in treno ma in macchina (probabilmente una Citroen C2, forse la più iconica utilitaria dell’epoca con capote in tela che si estendeva fino al lunotto posteriore, apribile manualmente dall’interno, arrotolandola su sé stessa all’indietro). E che sono forniti di equipaggiamento da campeggio, cosicché alternano al pernottamento in Hotel o in camere presso privati, notti in tenda sotto il cielo stellato.

Sono tanti i momenti/gli sketch che resteranno di questo viaggio alla memoria del lettore, e tante le considerazioni degne di interesse e riflessione di t’Serstevens, viaggiatore provetto con esperienze in più continenti, sugli usi e i costumi, le chiese, la storia e la cultura della Sardegna, così come sui luoghi visitati; considerazioni fatte in sincerità senza alcuna voglia di piacere e compiacere, e ce ne sono anche critiche: molte saranno condivise, altre no, per esempio certe impressioni negative dei luoghi visitati e anche certi giudizi sui Sardi e la Sardegna. Non riteniamo sia il caso di farne una selezione, sono tanti (ma – attenzione – molti sono anche quelli positivi e ammirati) e lasciamo al lettore il gusto di scoprirli, apprezzarli o criticarli a sua volta. Anche questi sono necessari in definitiva alla migliore rappresentazione/autorappresentazione di un popolo. t’Serstevens è in fin dei conti, come Lawrence, un viaggiatore romantico, cerca in ogni località dove passa il vero, l’autentico (è una parola che t’Sersteven usa più volte), cerca soprattutto i vecchi costumi di abbigliamento locali, contento se ancora vengano indossati appunto in modo vero e autentico (è una ripetizione voluta), se cioè facciano parte del loro vivere quotidiano, dispiaciuto o critico quando invece sono solo una esibizione per turisti. Occorre aspettare la fine del viaggio (e del racconto) per trovare chiaramente esposta la sua filosofia di viaggiatore e la preoccupazione e il dispiacere per i nuovi tempi. Questo libro di viaggio sulla Sardegna di Albert t’Sertevens è davvero imperdibile. Da oggi va ad aggiungersi alla collana e spiccherà come uno dei migliori.

NOTE. Sul cognome: la “t” iniziale in cognomi come t’Serstevens è una forma abbreviata e contratta dell’articolo determinativo “het”, che in olandese significa “il / lo / la”, simile al “the” inglese, tipica della onomastica olandese o fiamminga, anche se in alcuni casi è stata adottata anche da autori francesi in modo letterario o stilizzato.

Copertina 1957

1. edizione del 1957

Copertina ed. 1965

2. edizione del 1965

Copertina 1957

2. edizione del 1965

OLBIA, PORTA DELLA SARDEGNA

Non ritrovo quasi nulla della Civitavecchia che conoscevo prima dell’ultima guerra. Questa città, cara a Padre Labat e a Stendhal, è stata quasi interamente distrutta dai bombardamenti, e ciò che ne è stato ricostruito non la distingue in alcun modo da una qualsiasi città moderna, edificata con parsimonia. Solo il vecchio forte merlato, sul porto, ha resistito ai proiettili e alle bombe aeree.

Di fronte, ormeggiato al molo, ci attende il Lazio, un elegante battello d’altura che ci porterà in Sardegna. Attraverso il suo fianco aperto, vi introduco personalmente l’auto, insieme a molte altre, disposte fianco a fianco e saldamente fissate nel ponte di carico. La nave ha un lusso moderato, con un personale elegante. La Tirrenia, la compagnia di navigazione, ci ha riservato una cabina spaziosa a più letti, che avremmo potuto cambiare letto due o tre volte durante la notte. Abituata ai viaggiatori italiani, che non si spostano mai senza figli e parenti di ogni grado, deve averci immaginati accompagnati da una suocera e carichi di prole.

Bastano dieci ore per arrivare a Olbia, dove sbarchiamo alle sei del mattino. La piccola città dorme ancora e nelle strade non incontriamo quasi nessuno, se non, all’unico incrocio del Corso, un vigile urbano che, non avendo altro da fare, ci rivolge cortesi rimostranze per essere passati col semaforo rosso. In questi casi, facciamo finta di non conoscere una parola di italiano e assumiamo un’aria talmente impacciata che ci lasciano andare, scrollando le spalle.

Non c’è quasi nulla da vedere in questo borgo privo di originalità, tranne la chiesa di San Simplicio, situata nell’omonima via, isolata su un piccolo rialzo e restaurata forse un po’ troppo di recente; ma la patina del granito locale le restituirà presto l’aria medievale che ha perso. È un edificio di epoca molto antica, risalente all’XI e XII secolo, e appartiene a quel caratteristico stile romanico-pisano che ritroveremo in molte chiese dell’isola.

Il destino della Sardegna è stato molto diverso da quello della Sicilia. Non avendo mai subito terremoti, aveva conservato la maggior parte dei suoi monumenti antichi, ma l’incuria nel corso dei secoli ne aveva causato un deterioramento tale che la Sardegna autonoma ha dovuto – e dovrà ancora a lungo – compiere un grande sforzo per restaurarli.

Queste chiese sono quasi tutte di straordinaria bellezza, caratterizzate da una nobile semplicità, una delle principali attrattive di un’isola che ne possiede  davvero molte. Oltre a quelle di Saccargia, San Pietro di Sorres e Nostra Signora di Tergu, isolate nella campagna, città e centri abitati come Borutta, Porto Torres, Sassari, Santa Giusta, Sinis e Silanus ne custodiscono di altrettanto notevoli. Se ne possono ammirare altre quasi altrettanto belle a Tratalias, Fordongianus, Siligo e altrove. Nel corso degli itinerari che presenterò in queste pagine, avrò occasione di parlare di alcune di esse, mentre lascio ai veri appassionati dell’arte romanica il piacere di scoprire le altre da soli. (NOTA: Tra i numerosi itinerari che abbiamo seguito in quest’isola, quasi grande quanto la Sicilia, ne ho scelti alcuni che permetteranno di scoprirne i paesaggi, le città e i monumenti più interessanti. In questo modo, si potrebbe visitare la Sardegna senza troppa fretta in quindici o venti giorni).

Quanto alla cattedrale di Cagliari, la capitale, è stata restaurata con tanta meticolosità da un architetto in stile Viollet-le-Duc, che ormai non si può più considerare davvero tra le antiche.

Le chiese più antiche furono costruite dai Cistercensi di Cîteaux, inviati da San Bernardo per convertire i Sardi. Tutte portano le tracce della loro origine borgognona, e solo col tempo l’influenza pisana – con il gusto per le arcate multiple e le decorazioni a intarsio – si inserirà in queste costruzioni, il cui impianto generale rimarrà a lungo di impronta francese.

D’altra parte, la Sardegna non ha mai avuto colonie greche, ammesso che la sua civiltà nuragica – di cui parlerò più avanti – non abbia nulla di greco. Si tratta comunque di un periodo molto arcaico, anteriore ai primi insediamenti greci sulle coste siciliane. L’isola, popolata in origine dagli Iberi, fu conquistata dai Cartaginesi, che vi lasciarono alcune tracce, e passò poi ai Romani. Non vi si troverà dunque alcuna memoria della Grecia antica, ma solo qualche rovina romana di scarso interesse.

Gli Arabi vi fecero solo incursioni piratesche, e la loro effettiva presenza sull’isola durò appena vent’anni: ne furono cacciati dai Genovesi e dai Pisani, spinti dal papa Giovanni XVIII alla lotta contro i Saraceni. Le poche tracce lasciate dall’Islam sono dunque solo indirette.

Il periodo successivo, invece, è glorioso e appartiene ai Cistercensi e al grande romanico. Il gotico, il Rinascimento e il barocco vi hanno lasciato segni di scarso rilievo. Si potrebbe pensare che l’isola si sia sempre sottratta alla loro influenza, se non fosse che questa distanza si spiega in realtà con un altro motivo: il clima insalubre della regione.

La Sardegna, infatti, è stata per secoli – e fino ai nostri giorni – considerata un territorio insalubre a causa della cattiva aria, dove regnavano costantemente quelle che venivano chiamate “le febbri”, ovvero la malaria. I Romani, che sfruttarono al massimo le miniere e le terre fertili dell’isola, si stabilirono solo nelle zone più salubri, evitando di esporsi a un male che non risparmiava nessuno. I popoli che governarono la Sardegna dopo di loro seguirono lo stesso esempio.

La rete di fortezze costiere serviva a proteggere l’interno dell’isola dagli attacchi esterni, mentre il contadino sardo, in qualche modo adattatosi alla malattia endemica, continuava il suo duro lavoro nei campi. Senza conoscere la zanzara anofele e i suoi effetti, cercava di proteggersi coprendosi il più possibile, fino a velare completamente la testa, lasciando scoperta solo una parte del volto. Queste precauzioni hanno lasciato un’impronta profonda sul costume tradizionale sardo, soprattutto su quello femminile. Le cause di questa usanza sono scomparse, ma l’abitudine è rimasta.

La malaria è stata anche una delle principali ragioni della bassa densità abitativa dell’isola. Alla fine del XIX secolo, prima dei lavori di bonifica, la Sardegna non raggiungeva il milione di abitanti. Oggi ne conta quasi un milione e mezzo, con un incremento di un terzo da quando la malattia è stata combattuta. Si tratta di una grande vittoria, perché la malaria imperversava in tutta la sua forza nemmeno cinquant’anni fa. Nel 1890, Gaston Vuillier, in Viaggio in Sardegna, contrasse le febbri e dovette fuggire per salvarsi la vita. In una guida Baedeker del 1903, che ho sotto gli occhi, si legge: “La malaria rende l’isola inabitabile per gli stranieri, eccetto che nelle città più grandi, da luglio alla fine di ottobre.”

Sono stati necessari grandi lavori di irrigazione e l’impiego di potenti mezzi di contrasto, come quelli di cui disponiamo oggi, per bonificare il territorio e renderlo abitabile quasi ovunque. Nonostante i nostri accampamenti improvvisati nei campi, non abbiamo mai avuto il minimo sintomo di questa malattia endemica. Poiché non siamo più immuni alla malaria di quanto lo sia chiunque altro, posso affermare con certezza che un viaggio in Sardegna non presenta alcun pericolo di questo tipo.

Mi era stato detto, però, che esisteva un altro rischio: i banditi. E in effetti, due mesi dopo il nostro soggiorno sull’isola, abbiamo appreso che un autobus turistico era stato assalito e i passeggeri derubati. Ancora una volta, ci siamo persi un bell’episodio d’avventura. Quei viaggiatori di passaggio sono stati più fortunati di noi, che per sei settimane abbiamo vagabondato accampandoci in piena campagna, lontano da ogni abitato. Se si sono lasciati derubare, forse è perché non avevano visto abbastanza film western. Avrebbero imparato che bisogna sempre sparare per primi, senza preavviso.

VERSO PALAU (passando per SAN PANTALEO)

Per non lasciarci nulla alle spalle mentre scendiamo, a tappe brevi, verso Cagliari, ci dirigiamo prima a nord, seguendo la costa per quanto le strade ce lo permettono. Da questo lato non sono molto agevoli, sebbene la Sardegna, in generale, disponga di ottime strade. Ma si sa quanto io prediliga quelle più scomode, dove la vita delle persone lungo il cammino conserva maggiore autenticità. Per questo, abbandoniamo presto la strada principale per imboccare quella, più impervia, che passa per San Pantaleo.

Appena usciti da Olbia, ci troviamo immersi nel grande carattere agreste e pastorale di questa terra. È un paesaggio completamente diverso da quello della Sicilia interna, coltivata fin nei punti più inaccessibili e quasi priva di alberi. Qui, invece, i pascoli sono meticolosamente delimitati da piccoli muretti a secco e punteggiati di lecci e sughere dalle chiome tondeggianti, con le montagne sullo sfondo, ammorbidite da una leggera foschia.

Ancor più dei siciliani, i contadini sardi hanno un profondo senso della proprietà, e lo dimostrano con questi muretti costruiti con infinita pazienza su tutto il territorio, persino sui versanti più aridi delle colline. L’intera isola è suddivisa in parcelle dalle forme geometriche più svariate, così ben chiuse che spesso ci risulterà difficile trovare un varco per entrare con l’auto e montare le nostre tende. L’enorme quantità di pietre che i Sardi hanno dovuto spostare per affermare il loro possesso della terra è incredibile; ma, senza dubbio, si tratta di un’eredità naturale per questi discendenti dei costruttori nuragici, che con blocchi giganteschi di roccia erigevano le loro inespugnabili fortezze.

Dalla stessa tradizione sembrano derivare anche le capanne pastorali chiamate cuile, con una base circolare di grosse pietre sormontata da un tetto conico di paglia o canne. L’unica apertura, situata in basso, è così piccola che per entrare bisogna quasi strisciare. Se ne trovano ovunque, ma soprattutto in questa Gallura che oggi attraversiamo.

La strada, di un colore rosato per via del granito locale, sembra dimenticata dal tempo, percorsa da uomini, animali e veicoli d’altri tempi. Lungo il cammino incontriamo solo carri trainati da buoi e contadine vestite di nero, con il capo talmente avvolto nei loro scialli che di loro non si scorgono che gli occhi e il naso.

Amandine Doré

Disegno di Amandine Doré

Amandine Doré

Disegno di Amandine Doré

Presso San Pantaleo, verso Arzachena (Gallura)

Verso San Pantaleo, vicino ad Arzachena – foto solo 1. ed. 1957

Qui, come in Sicilia, e per le stesse ragioni – la difesa dai pirati e dalla malaria – non ci sono né fattorie né case coloniche. I contadini vivono nei borghi, dall’aspetto ancor più rustico di quelli della Sicilia interna.

San Pantaleo, per esempio, è composto solo da piccole case quadrate, quasi tutte di un solo piano, dipinte con colori chiari, tra cui domina il giallo. Porte e finestre sono semplici aperture prive di cornici decorate, sormontate da tetti di tegole tonde o piatte, senza alcuna patina del tempo. È una povertà strana, più di immaginazione che di mezzi.

Anche le città non sfuggono del tutto a questa semplicità e, per la maggior parte, non offrono nulla che possa trattenere il viaggiatore, se non la loro posizione, quasi sempre straordinaria: arroccate sulle alture o più spesso adagiate in conche elevate tra le colline. Vi si trovano pochi monumenti degni di nota. Si percepisce chiaramente che non sono mai state altro che rifugi per contadini e pastori e che anche la loro nobiltà, povera quasi quanto il popolo, non ha mai avuto la possibilità di costruire quei palazzi che arricchiscono le città siciliane. Eppure, nella loro semplicità, queste città si fondono perfettamente con il paesaggio e contribuiscono a creare la fisionomia unica di quest’isola, ancora troppo poco conosciuta.

Il sentiero di San Pantaleo costeggia, come una balconata, una costa frastagliata da piccole baie di un blu intenso e punteggiata da promontori rocciosi; il mare è disseminato di isolotti dalle sfumature rosa delicate. Poi la strada si addentra tra imponenti ammassi di granito, incastonati tra cespugli di lentisco e ginestre in fiore.

La solitudine e il silenzio di questo passaggio e delle campagne che si estendono oltre trasmettono, a chi arriva dall’Italia sovrappopolata e rumorosa, una sensazione quasi inquietante.

A Palau, piccolo borgo senza storia, sorto su una lingua di sabbia davanti a una baia magnifica, la proprietaria della trattoria dove pranziamo, nel tentativo di convincerci a restare più a lungo in questo paesino di 1.300 anime, ci dice che c’è una sala da ballo e che lei ci va spesso. Quando la osservo, un po’ perplesso per la sua età e il suo aspetto, solleva le dita in aria con un fremito d’ali e mi dice: «Quando la vecchia gallina è cotta, fa buon brodo!».

Il suo vino è all’altezza delle sue parole: allegro e fruttato, come quasi tutti quelli del paese, senza inganni, tra i migliori d’Italia e delle sue isole. Non potrei raccomandare abbastanza il Nuragus, delle Giare, nel cuore dell’isola, ma ce ne sono molti altri, sempre da pasto, come ho già detto, capaci di rinvigorire muscoli e cervello dopo le tappe più dure.

Affidiamo la nostra auto, con tutto il suo contenuto, alla custodia di questa vecchia stravagante e ci imbarchiamo su una pesante motovedetta capricciosa, per attraversare il mare verso le isole di fronte: La Maddalena e la sua vicina Caprera, celebre in tutta Italia per la casa dove visse per ventisei anni, con numerosi intermezzi di guerra, la gloria della nazione, l’illustre Garibaldi. Uno dei creatori dell’unità italiana, l’uomo dalle mille statue di ogni materiale, dalle diecimila strade e piazze, fino al più sperduto villaggio; una figura imponente di prodigioso avventuriero, nel senso più nobile del termine.

I Percorsi dei Viaggiatori - Palau
La Maddalena, primi 900 - coll. Tommaso Gamboni (Facebook)

LA MADDALENA – CAPRERA

Il piccolo porto della Maddalena è attrezzato in proporzione al suo traffico. Sul molo, in attesa di trasportare i bagagli, c’è un asinello minuscolo, dal pelo arruffato e dallo sguardo triste, attaccato a una piattaforma di assi montata su delle ruote. Non ha un contachilometri, e neppure l’asino. La corsa si paga al padrone dell’asino, e il padrone deve “pagare” l’asino a colpi di bastone. Non c’è bisogno di dire che Amandine ha svaligiato il bar di fronte, portandosi via tutti pacchetti di caramelle per rimpinzare quel povero somarello. (NOTA: Nei caffè d’Italia non si serve mai lo zucchero in zollette. Sarebbe troppo facile infilarlo in tasca. Qui si trova solo zucchero in polvere, in piccoli sacchetti. D’altronde, non si può certo versarlo direttamente nella bocca di un asino che si rispetti).

Per raggiungere Caprera, scopriamo in un angolo della piazza un parking riservato alle vetture publiche, con una grande “P” su un disco rosso, che ospita, unici elementi presenti, una carrozza preistorica con la capote di cuoio screpolata e un taxi che cerca di sembrare più moderno ma che assomiglia piuttosto a una portantina, senza tettuccio, senza ruote visibili, alto e squadrato, una carrozzeria arrangiata montata su un triciclo a motore. Forse potremmo infilarci dentro comprimendo le nostre natiche, ma non abbiamo alcuna voglia di rinchiuderci in quella scatola instabile.

Nonostante le esitazioni di Amandine, riluttante a farsi trainare da una povera bestia ridotta in schiavitù, scegliamo la carrozza, dove almeno possiamo respirare e viaggiare senza troppi rischi. Una nuova scorta di caramelle, acquistata in un altro bar, forse consolerà il nostro cavallo dalla sua crudele servitù.

Un ponte di circa cinquecento metri collega La Maddalena – che sfioriamo appena – a Caprera. La strada è tremenda, disseminata di buche in cui la nostra carrozza sprofonda, sollevando schizzi di fango: ha piovuto la notte scorsa. Oggi, Caprera si stende all’ombra dei suoi pini a ombrello e profuma di ginestre dorate al sole. Blocchi di granito, scolpiti dalla pioggia e dal vento in un bestiario del Miocene [cioè le rocce sembrano animali preistorici], emergono da grosse macchie di rose selvatiche dalle piccole corolle bianche.

Amandine Doré

Foto 1 e 2. ed. (1957 e 1965)

La Casa di Garibaldi

La Casa dell’Eroe appare presto in cima a un cumulo di pesanti rocce, tra pini e agavi. Il sentiero che vi conduce è così ripido che Amandine fa fermare la carrozza – o meglio, il cavallo – all’ombra di un albero, e proseguiamo a piedi, seguiti dal cocchiere. Non perché tema che possiamo fuggire nella macchia senza pagare la corsa, ma per puro senso del dovere. Durante la nostra visita ci attenderà nella sala di guardia dei marinai, perché questo luogo sacro è gelosamente custodito dalla Marina dello Stato.

Era il 1856 quando Garibaldi, allora quarantanovenne e già celebre come patriota indomito, lasciò Nizza – ancora italiana – per stabilirsi definitivamente a Caprera a bordo del suo cutter, L’Emma. Portava con sé una piccola casa smontabile in legno d’abete, che è stata conservata con devozione e oggi si trova nel cortile d’ingresso della Casa Bianca. Poco dopo, grazie a un’eredità lasciatagli dal fratello Felice, poté costruire la nuova dimora e ampliare i suoi terreni. Ma la quiete del contadino non durò a lungo.

Sappiamo bene quali imprese lo trascinarono lontano da qui: la conquista delle Due Sicilie, da Palermo a Napoli; l’unificazione dell’Italia; altre battaglie, senza le quali non avrebbe potuto vivere; e infine la campagna di Francia, al nostro fianco, durante la guerra del 1870. In quell’occasione, ormai vecchio e consumato, mise la sua spada al servizio della nostra giovane Repubblica, guidando con ventimila volontari italiani l’Armata dei Vosgi, che riuscì a rallentare l’avanzata prussiana. Garibaldi, dunque, non è solo un grande eroe italiano, ma anche un grande amico della Francia.

Va detto, però, che morì su una branda da campo che aveva fatto collocare davanti alla finestra, da cui si scorge la punta di Bonifacio, per poter vedere, nell’ultimo respiro, quella Corsica che aveva sempre sognato di unire all’Italia. Ma la sua gratitudine verso la Francia, che lo aveva sostenuto nella causa dell’unità nazionale, gli impedì di rivendicare quell’isola, che considerava parte della sua patria. I Corsi, a ragione, non glielo hanno mai perdonato.

Quel letto, chiuso in una grande teca di vetro a quattro lati, conserva ancora una commovente intensità: le lenzuola spiegazzate, la coperta lavorata, i montanti di ferro con le aste da cui pendono tende di cotone bianco. Il cuscino sembra portare ancora l’impronta del suo capo. Poco lontano, un calendario appeso alla parete segna la data suprema: Venerdì 2 giugno 1882. Sull’ultimo foglio scoperto, una mano devota – forse quella della sua seconda moglie, Francesca – ha scritto a matita: Ore 6.20 Antim. Le 6 e 20 del mattino.

La grande Casa Bianca trabocca di memorie eroiche e di doni arrivati da ogni angolo del mondo: un glorioso disordine di corone d’alloro, armi cerimoniali e oggetti disparati. Fra questi, attratto da quell’istinto un po’ perverso che mi spinge verso le adorabili bruttezze, scorgo un paesaggio custodito sotto vetro, interamente costruito in sughero, che rappresenta Solferino, il villaggio mantovano dove i Francesi di Napoleone III piegarono gli Austriaci.

Ovunque, intorno a noi, si respira l’eco di quel vecchio leone divenuto agricoltore: perfino i suoi utensili da lavoro sono conservati con cura, a testimonianza della sua impossibilità di restare inerte. In una sorta di capanno, poco discosto dalle case, riposano le due barche che il vecchio conquistatore usava per pescare, per navigare tra queste acque tranquille, o per trasportare fino al mercato di La Maddalena i frutti della sua terra. Era lui stesso a vendere i suoi famosi meloni, rinomati in tutta la regione. Eppure, anche nei panni di umile ortolano, è impossibile immaginare che Garibaldi avesse perduto qualcosa della sua fierezza corsara. Era, anche da vecchio, uno degli uomini più straordinari di una stirpe che non manca di bellezza. Con il volto da capo e i lunghi capelli sciolti sulle spalle, pareva una creatura leonina.

Un marinaio ci guida fino alla sua tomba: due massicci blocchi di granito appena sbozzati formano un sarcofago semplice, sovrastato da un’unica iscrizione: Garibaldi. Al suo fianco riposano la seconda moglie e quattro dei suoi figli. Davanti a quella tomba, veglia senza tregua un soldato in armi: giorno e notte. L’Italia sa conservare memoria dei suoi grandi uomini con una fedeltà che non conosce abitudine né stanchezza. A Ravenna, sulla tomba di Dante, da secoli una lampada a olio arde senza mai spegnersi, come nelle chiese, accesa in eterno accanto alla sacra spoglia dell’Altissimo Poeta.

di McGrigor
coll. Antonio Frau
coll. Antonio Frau
coll. Antonio Frau
Tomba Garibaldi, coll. Luisa Deiana - Facebook
di Gianni Careddu - Wikipedia

LA GALLURA – IL COSTUME SARDO

Santa Teresa Gallura

Rientriamo alla Maddalena rintanati nel fondo della carrozza, sotto una pioggia torrenziale che crepitava sulla cappotta e filtrava attraverso di essa. Poiché continuavamo a riceverne sugli abiti e sulle gambe, il cocchiere tese un vecchio pezzo di vela marina tra la capote e il suo sedile, così che percorremmo il tragitto immersi in un’oscurità quasi sentimentale, senza più vedere nulla.

Il sole squarcia le nuvole durante la traversata verso Palau, dove ritroviamo la nostra automobile, lavata dagli acquazzoni — unico modo per farle un po’ di toelette. Sulle strade prive d’asfalto, capita spesso che venga talmente coperta di polvere o di fango da renderne irriconoscibile il colore.

Con il cielo di nuovo minaccioso, decidiamo di spingerci fino a Santa Teresa Gallura, all’estrema punta settentrionale dell’isola. I pochi contadini che incrociamo lungo la strada portano con sé enormi ombrelli di cotone blu a righe rosa, che tengono sulla schiena come un fucile. La tracolla è una grossa corda legata sia al puntale che al manico, abbastanza larga da poter passare sopra il petto. Quando aprono l’ombrello, la corda si sgancia dall’impugnatura e pende attraverso la cupola, formando un grande anello nella parte inferiore. Le donne, invece, si riparano sotto un’ampia pezza di tessuto nero, che sembra una larga gonna posata sulla testa. I carichi che vi sistemano — sopra fascine di fieno o di giunchi — fungono loro da protezione contro la pioggia.

Arriviamo a Santa Teresa e troviamo alloggio in un hotel nuovissimo, costruito su una terrazza rocciosa, accanto a una vecchia torre di guardia edificata a forma di fortino, di fronte a un vasto panorama di mare, baie e spiagge deserte di sabbia rosata. Sembra però che stiamo inaugurando questa struttura appena nata perché, se da un lato ci si offre una stanza da bagno mirabile, con ogni possibile elemento di igiene moderna, dall’altro non esce una sola goccia d’acqua dai suoi dieci scintillanti rubinetti cromati — acqua calda e fredda, se dobbiamo credere alle capsule in ceramica. I campanelli non funzionano, e ai nostri richiami lanciati dall’alto della scala, un cameriere dall’aria sudicia ci porta infine una piccola brocca d’acqua tiepida, appena sufficiente per sciacquarsi naso e guance. (NOTA ed. 1965. È ovvio che in Sardegna non mancano buoni, anzi ottimi alberghi, anche nei centri più piccoli. Ma non è mio compito segnalarli al lettore: potrà trovarne elenco e descrizioni in qualsiasi guida stampata. I soggiorni nei grandi alberghi di lusso avrebbero avuto, del resto, molto meno sapore aneddotico rispetto alle notti trascorse in umili locande d’occasione. L’industria alberghiera si va sviluppando, giorno dopo giorno, lungo le coste e persino all’interno dell’isola. Negli ultimi tempi, persino Karim Aga Khan si è lasciato sedurre da questa terra — e come dargli torto? — facendo costruire alberghi pieni di fascino e persino un porto, per dare riparo agli yacht da diporto).

Anche la cena è in perfetta sintonia con il resto: l’acqua, che mancava nei rubinetti, abbonda nei piatti. Il nostro letto matrimoniale, con materasso di gomma (odore compreso), è corredato di cuscini gonfiati con la pompa ad aria, sui quali la nostra testa rimbalza al minimo contatto, come un pallone da calcio. Temendo che ci esplodano sotto la nuca, li buttiamo a terra: rotolano più volte attraverso la stanza e, quando finalmente si fermano, continuano ancora a dondolare sulle loro curve.

“Sarebbe quasi meglio accamparsi sotto la pioggia”, mi dice Amandine. “Almeno avremmo acqua a volontà!”

Amandine Doré

Disegno di Amandine Doré

Hotel Esit in costruzione - Santa Teresa Gallura, architetto Vico Mossa

L’Hotel Esit, dove alloggiò lo scrittore T’Serstevens con la moglie Amandine, in costruzione.

AGGIUS

Aggius si anima di colori azzurri, rosa e arancioni, su uno sfondo di pallido verde e rocce color malva. Trent’anni fa era celebre per la magnificenza dei suoi costumi, tra i più belli dell’isola. Passeggiando a piedi per le sue strade, incontriamo una sola donna — anziana — che ne indossa ancora vaghi resti. Altri paesi, nel corso del nostro viaggio, ci offriranno una maggiore varietà di abiti tradizionali, indossati dalla quasi totalità delle donne, ma saranno comunque solo pallide vestigia di antichi splendori. Così è in tutta la Sardegna, nonostante ciò che può far credere una certa pubblicità, che non esita a proporre immagini patinate e ingannevoli. Mostra costumi sfarzosi come se fossero ancora visibili ovunque, lungo qualsiasi veloce itinerario attraverso l’isola, quando in realtà questi vengono ormai indossati solo in occasioni eccezionali, spesso rispolverati da una borghesia che li considera un gioco e si presta volentieri a posare per fotografi ufficiali e privati.

Il turismo, per attirare la clientela italiana e straniera, fa di tanto in tanto uscire dai bauli di famiglia questi costumi d’un tempo, per cavalcate e altre cerimonie folkloristiche. A Cagliari abbiamo assistito a una di queste rievocazioni e abbiamo potuto constatare quanto la folla sia suggestionata da simili mascherate. Ne abbiamo evitata un’altra a Sassari, non trovando alcun piacere nel vedere sfilare in corteo, o tra tribune a pagamento, esemplari degni di musei etnografici che non avremmo mai avuto la possibilità di incontrare lungo il nostro cammino.

Il costume tradizionale, per quanto bello possa essere, ha valore solo se indossato quotidianamente, come ho potuto vedere, non più di vent’anni fa, in tutta la sua magnificenza fiabesca, nei mercati della Macedonia jugoslava, dove ormai, come qui, non ne rimangono che i rudimenti. E se si tratta di un abito da festa, deve essere portato con naturalezza, e non in esibizioni studiate per i turisti. Se sta scomparendo ovunque nel mondo, è a causa di fattori economici e psicologici di cui si possono deplorare gli effetti, ma contro i quali non si può fare nulla. Fa parte di quell’arte popolare che lo sviluppo dell’industria, i bisogni artificiali, la penetrazione dello spirito cittadino nei luoghi più remoti annienteranno presto alla radice, relegandolo nelle vetrine dei musei. Questo è già accaduto in Francia, nella maggior parte dei paesi d’Europa e ovunque vi sia stata un’influenza diretta; presto accadrà anche in Asia, in Africa, in tutto il mondo. Come potrebbe la Sardegna, isola di un paese dove quasi nulla di tutto ciò è sopravvissuto, sfuggire a questo destino comune? Ho già espresso in più occasioni la passione che nutro per l’arte popolare, e si può essere certi che questa perdita mi addolora quanto, se non più, di molti altri. Ma, lo ripeto, nessun tentativo di resurrezione avrà successo, perché si tratta di una fioritura spontanea, non di un prodotto che possa essere coltivato artificialmente.

Ci si può dunque affidare pienamente ai disegni e alle fotografie che presenteremo qui, Amandine Doré e io, degli ultimi autentici aspetti del costume sardo. Sono stati catturati dal vivo, nel corso degli incontri casuali durante la nostra esplorazione completa dell’isola. Nessuno di questi abiti è stato tirato fuori da un armadio per apparire in un album o su una pellicola. Ho già detto quanto disapprovi, nei libri di viaggio come nei documentari, tutto ciò che non rappresenta la realtà quotidiana, la descrizione e le immagini scrupolose, senza alcun artificio, di un popolo, dei suoi costumi e delle sue tradizioni. Si può quindi essere certi che mai avremmo accettato di presentare anche la più piccola messa in scena che non fosse autentica, senza alcun abbellimento.

Aggius

Aggius – foto nella 1 e 2. ed. (1957 e 1965)

Amandine Doré - Aggius

Disegno di Amandine Doré

VERSO SASSARI

Tempio, meno arroccata rispetto agli altri borghi della Gallura, si distende su una collina, ai piedi del massiccio del Limbara, la catena montuosa più alta della Sardegna dopo il Gennargentu, situato nel centro dell’isola. Il bellissimo granito dal colore dorato-ambrato, con cui è interamente costruita, la salva dalla banalità. Tuttavia, l’unico edificio che mi colpisce veramente è l’oratorio della cattedrale, soprattutto il suo interno, con gli archi della volta molto sporgenti, realizzati in un granito dalla grana irregolare, che conferiscono all’ambiente l’aspetto di un granaio destinato alle messi bibliche.

Abbiamo passeggiato a lungo per questa cittadina senza incontrare nemmeno un esemplare del celebre costume femminile – quello con il manto nero e la mantiglia di pizzo – tanto esaltato nei dépliant turistici. Esistono sicuramente, dal momento che appaiono nei giorni di festa ufficiale, ma in quali armadi, in quali cassetti sono custoditi?

Nei pressi di Perfugas, la piccola chiesa di San Giorgio ha l’umiltà di una cappella romanica, pur essendo di epoca più recente; ma la tradizione e il materiale costruttivo hanno imposto le loro forme agli architetti. Lo stile romanico-pisano riappare poco lontano da Bulzi, in una valle isolata, con la chiesa di San Pietro delle Immagini. La sua facciata a fasce bianche e nere è forse un po’ troppo nuova, ma col tempo si patinerà sotto la pioggia. Se continuerà a cadere con la stessa costanza di oggi, il processo sarà rapido.

Siamo qui nell’Anglona, una regione calcarea dove le rocce assumono forme bizzarre. Nei pressi di Castelsardo si incontra un “elefante” di pietra che sembra essersi accomodato ai bordi della strada, pronto a fare da bersaglio agli obiettivi fotografici. Torneremo appositamente, in un giorno di bel tempo, per immortalarlo. Ma un contadino, seduto su un cippo all’ombra della sua proboscide, ci dice con l’orgoglio di chi ne fosse il custode che nessun turista passa di qui senza fermarsi per scattare una foto. Rinunciamo dunque a includerlo nella nostra collezione di animali rupestri, che presto comprenderà un bisonte individuato vicino a Buddusò e un’aquila avvistata nei pressi di Orotelli.

È a Sedini, sempre più a ovest, che si possono ammirare le formazioni calcaree più curiose della regione. Poiché talvolta queste rocce creano naturalmente volte o sporgenze a sbalzo, gli abitanti del borgo vi hanno ricavato delle abitazioni, metà scavate nella roccia e metà costruite con mura di pietra, conosciute localmente come domus de janas. Ce n’è una, particolarmente pittoresca, degna di un dipinto di Bosch, situata proprio al centro del paese: ha una cupola di pietra piatta come una crêpe che sporge sulla facciata come una visiera. Poco lontano, nei pressi del cimitero, un intero quartiere è stato scavato all’interno di una sorta di falesia. In fondo, queste abitazioni corrispondono alle cuevas dell’Andalusia e alle dimore trogloditiche dei Baux-de-Provence.

Ci fermeremo a Castelsardo e ci torneremo ben due volte, tanto questa antica città genovese merita di trattenere il visitatore. Tuttavia, trovare alloggio qui è un’altra questione: si può sempre pernottare a Sassari, che dista una quarantina di chilometri su una strada ben tenuta. A Castelsardo esiste una locanda dove si potrebbe trovare rifugio tra quattro mura imbiancate a calce, ma convincere la proprietaria a cucinare qualcosa sarà un’impresa difficile.

Castelsardo è un antico castello appartenuto a un Doria di Genova, arroccato sulla sommità di un promontorio a picco sul mare, che nel tempo si è trasformato in un borgo, aggrappato come ha potuto ai pendii scoscesi. Dove non ci sono salite (Nota: vicoli scoscesi), ci sono scalinate, e non è raro ritrovarsi improvvisamente davanti al fondo cieco di un vicolo che, in realtà, è il cortile di una casa. Piccole piazze si aprono come balconi panoramici sulla costa, sia a est che a ovest, con cime di montagne che ricordano la vicina Corsica.

Non saprei dire con esattezza in quali epoche i Mori abbiano compiuto incursioni su questo tratto di litorale sardo, ma di certo hanno lasciato tracce della loro presenza: il tipo umano, soprattutto quello femminile, conserva tratti tipicamente saraceni, con capelli crespi e splendidi occhi da antilope. Ne abbiamo incontrate diverse, sia qui che a Sorso, poco più avanti, avvolte nel tradizionale mantello nero della Gallura.

Sulla strada per Sorso, non lontano da Castelsardo, una strada nuovissima si stacca sulla sinistra e sale verso Nostra Signora di Tergu, di cui ho già parlato: è una delle più belle chiese romanico-pisane dell’isola. La sua facciata, decorata con raffinati motivi in pietra, è riuscita finora a sfuggire ai restauri; meno fortunato è stato il campanile. Non posso fare a meno di sottolineare quanto un viaggio in Sardegna possa trasformarsi in un appassionante pellegrinaggio romanico. Tutti coloro che considerano questa grande architettura la più nobile espressione della cristianità vi troveranno, come nel sud della Francia e nella Cordigliera Cantabrica, alcuni dei suoi santuari più toccanti, capaci di riflettere la serena semplicità della concezione bernardina.

Al contrario, non consiglio a nessuno di fermarsi a Sennori nella speranza di ammirare i meravigliosi costumi femminili per cui il borgo è, a quanto si dice, celebre. È vero che un tempo erano tra i più ricchi e affascinanti dell’isola, con le loro maniche finemente ricamate e le gonne plissettate a ventaglio. Tra i numerosi documenti iconografici che abbiamo raccolto sugli antichi abiti tradizionali della Sardegna, a partire dal 1850, se ne trovano diverse testimonianze di questo sfarzo ormai scomparso. Ma oggi sarebbe vano cercarli nelle strade del paese, dove si vedono solo alcune donne avvolte nel mantello nero, portato sopra una gonna a pieghe ampie.

Gli stessi documenti ci hanno permesso di constatare che, circa ottant’anni fa, anche gli uomini della regione si avvolgevano il capo, come le donne, con lunghe fasce di tessuto, probabilmente per difendersi dalla malaria. Oggi sono pochissimi quelli che indossano ancora il lungo berretto di lana in stile frigio, la berretta; la maggior parte sfoggia con fierezza il berretto con visiera o quel basco che, partito dai nostri paesi, si è diffuso in tutto il mondo. L’ho visto sulla testa degli abitanti negli Stati Uniti, in America Centrale, nel Nord Africa, in Turchia e perfino in Melanesia. Mi viene da pensare che, con un po’ di senso commerciale, se ne potrebbero esportare a milioni nella Cina comunista: chissà, potrebbe diventare l’acconciatura d’obbligo in un mondo egualitario.

Tempio Pausania e monti del Limbara, 1954 - coll. Domenico Melia (Facebook)
Tempio Pausania e monti del Limbara, 1954 - coll. Domenico Melia (Facebook)

SASSARI

Di Sassari non avrei potuto dire nulla se vi avessimo trascorso solo una giornata, dato che è piovuto così tanto da farci sentire immersi in un acquario. Ma vi abbiamo stabilito il nostro quartier generale per cinque giorni, esplorando i dintorni in ogni direzione. Qui si può dormire e mangiare comodamente, un lusso a cui avevamo quasi rinunciato dal nostro sbarco a Olbia.

Guidati da un bel ragazzo gentile, sotto una pioggia incessante, attraverso le deliziose vie del centro storico, abbiamo persino trovato una trattoria frequentata da studenti, dove il proprietario ci ha risparmiato la solita pappa insipida che ci avrebbe probabilmente servito il nostro albergo — pur essendo di seconda categoria, la  prima della città. Almeno non aveva cuscini pneumatici e i rubinetti fornivano acqua a volontà.

Se ci si limita alla zona centrale, intorno a piazza d’Italia, al solito giardino pubblico e alle vie a Sud, non si potrebbe che classificare Sassari tra le città più banali d’Italia, e fuggirne subito. Un Vittorio Emanuele baffuto tra quattro palme, qualche edificio in stile ufficiale, una galleria coperta dove si accalcano a chiacchierare piccoli gruppi, nemmeno un grattacielo — di cui gli abitanti vanno fieri — bastano a sorprendere il viaggiatore o a trattenerlo più di dieci minuti.

Sassari, tuttavia, vale ben di più, grazie al suo quartiere Nord, un tempo ancora la parte fortificata della città, un dedalo di strade e viuzze che probabilmente dispiace alla maggioranza degli abitanti, ma interessa profondamente quei turisti che la Sardegna cerca di attrarre con ogni mezzo pubblicitario.

Devo ammettere di amare molto la facciata del Duomo, sebbene non abbia nulla di romanico, né nemmeno di propriamente italiano — anzi, è curiosamente spagnola, con tutti gli eccessi decorativi del barocco di quel Paese. Somiglia a un ricamo, con arabeschi infiniti, ma è deliziosamente fantasiosa e splendidamente composta. Fa un contrasto seducente con la sobrietà dell’interno, che potrebbe benissimo servire da tempio protestante.

Ai margini di questo quartiere, verso la stazione, la piccola chiesa di Santa Maria di Betlem ci riporta al romanico, qui mescolato a influenze lombarde, ma con una grande purezza di linee. Avrebbe bisogno di un restauro discreto, ma “restaurare”, per l’amministrazione dei monumenti sardi, significa troppo spesso rifare tutto da capo, fino a ottenere il più perfetto “vecchio nuovo”. Occorre molto tatto per truccare la pietra.

Si potrebbe fare a meno di visitare il museo, se non presentasse alcuni piccoli bronzi nuragici, appartenenti a quella civiltà antichissima di cui parlerò presto; ma il museo di Cagliari ne offre un insieme tale, e di quale qualità!, che converrebbe unire ai suoi migliori anche quelli di Sassari. Il padiglione di etnografia, invece, in fondo al giardino, custodisce preziose collezioni di folklore, in particolare di ricami e arazzi dalla più fertile immaginazione. Vi si trovano alcune stampe degli antichi costumi dell’isola, che raccontano molto del declino di questi abiti un tempo sontuosi e della loro triste agonia in meno di mezzo secolo.

Sassari, Cattedrale di San Nicola - coll. Domenico Melia (facebo
Chilivani

INTORNO A SASSARI

Per conoscere sotto il sole i borghi che avevamo visitato sotto l’acquazzone, riprendiamo la strada Sorso-Castelsardo-Sedini-Bulzi e torniamo poi a Sassari passando per Martis, Nulvi e Osilo. La strada è popolata da una strana cavalleria: asinelli minuscoli, non più grandi di un San Bernardo, cavalcati da uomini alti, dal volto bruno, i cui piedi sfiorano il suolo, tanto che sembrano bestie a sei zampe — quattro piccole, al trotto rapido, e due enormi che oscillano nel movimento.

Nei prati punteggiati di fiori pascolano pecore dalla lana lunga, così bianche da confondersi talvolta con le rocce calcaree che arrotondano il dorso nell’erba. Pecore o pietre, ce ne sono così tante che Amandine le paragona a una fioritura di grandi margherite. Il cammino è costellato da ciuffi di un viola rossastro, quegli alberi che qui chiamano glicine, ma che non hanno nulla in comune col nostro glicine. In questo aprile, sono interamente in fiore, senza una sola fogliolina.

Martis, Nulvi e Osilo sono ugualmente arroccati sulla sommità di alte colline, e la strada, con una moltitudine di tornanti, sale ogni volta all’assalto del borgo per poi ridiscendere veloce dall’altro versante. Sono tutti poveri, privi di architettura, ma delicatamente colorati, con quella morbidezza tutta italiana, senza nulla delle audacie messicane.

Osilo, sovrastato unicamente dalle torri superstiti del castello scomparso dei Malaspina — quegli intrepidi guelfi toscani, uno dei quali, Franceschino, accolse Dante nel suo castello di Murazzo (NOTA: Purgatorio, Cap. VIII. v. 115 e seguenti, e la nota di Bianchi) — domina un immenso paesaggio di pascoli e campi coltivati, suddivisi dai muretti di cui ho già parlato, tanto che la campagna vista da lassù sembra un puzzle molto complicato, di cui si è trovata la soluzione per puro caso.

Amandine Doré

Disegno di Amandine Doré

Siamo andati un altro giorno fino a Porto Torres, in fondo al golfo dell’Asinara. È probabile che i Cartaginesi vi avessero stabilito un porto, protetto dalla lunga isola che ha dato il nome al golfo, ma non resta alcuna traccia della loro presenza. In compenso, alcune rovine confuse, di attribuzione incerta, che la gente del posto chiama il Palazzo del Re Barbaro, e un ponte a sette arcate, in semplice muratura, attribuito ai Romani, ricordano che questa colonia fu fondata da un Cesare, forse il dittatore stesso. Oggi è assai decaduta, a giudicare dalla borgata insignificante che ne resta. Ma se si ha la pazienza di attraversarla per intero, si scoprirà, in cima a una salita, una delle più belle chiese romaniche dell’isola, che è anche la più grande e la più nobile: San Gavino. È tutta in larghezza, costruita in una pietra giallastra — il calcare della regione — patinata dal tempo, con una doppia fascia di arcate piene sotto le cornici, e un portale ammirevole, quello nord: una poderosa arcatura sorretta da angeli. Non so se sia stata restaurata. Se lo è stata, i ritocchi sono così discreti da onorare chi vi ha messo mano. Avrà lavorato, in tal caso, con pietre antiche, come abbiamo fatto noi a Chartres, sostituendo solo quelle il cui danneggiamento sfigurava un capolavoro. Si prova, toccando queste mura, una scossa emotiva, come se si incontrasse la mano di coloro che le hanno costruite — pii e grandi architetti di un tempo in cui la religione si esprimeva nella pietra con la stabilità dell’anima e l’umiltà davanti a Dio.

La navata è così buia che l’occhio impiega vari minuti a dissiparne le tenebre. È illuminata solo da lunghe feritoie a forma di spada, larghe al massimo quattro dita, riempite da una lastra d’alabastro che lascia filtrare una luce dorata. Alla fine si distinguono le tre navate di una basilica, con la centrale che presenta un’abside rotonda a ciascuna estremità. Le colonne, in granito grigio, hanno capitelli romani, probabilmente recuperati dagli edifici della colonia imperiale — come facevano senza alcuno scrupolo i costruttori del XVII secolo. Oggi li avrebbero messi nei musei, quei mausolei dell’arte, dove perderebbero ogni contatto con la vita. Una solennità fatta di vuoto immenso riempie tutta la chiesa, abitata unicamente da un angelo rococò su un’acquasantiera. Siamo intimiditi dal rumore dei nostri passi e ci parliamo solo a bassa voce. Ogni forma di femminilità — Vergine o sante — sembra esclusa da queste navate oscure edificate da monaci.

Portotorres - Basilica San Gavino

Basilica di San Gavino, Portotorres – foto solo nella 1. ed. 1957

Oggi andiamo a Sud, verso Alghero e Porto Conte, sotto un cielo cielo cupo e inquieto dove si accalcano nuvoloni neri. La strada potrebbe proseguire dritta su questo altopiano di oliveti e frutteti, ma si attarda, si diverte in una ventina di curve, e noi con lei. Ci fermiamo due o tre volte per chiedere informazioni ai contadini, ma parlano solo il sardo; e benché questa lingua locale sia piena di parole latine e di plurali alla spagnola, perdo continuamente il filo. La maggior parte della gente di campagna conosce più o meno il toscano, ma questi, nonostante la scuola che hanno solo sfiorato, restano fedeli al loro bel linguaggio in cui si avvertono, com’è ovvio, influenze romane, ma anche catalane e aragonesi, con una “C” dura, alla maniera latina, che per esempio ci dà kel per cielo o dikere per dire.

Se dovessi imparare tutti i patois o dialetti dei paesi e delle province che ho visitato, sarei un dizionario a cento colonne. Mi basta — e avanza — avere nella testa una decina di lingue che si intrecciano a tal punto da non riuscire più a districarle; e confesso che combatto continuamente, almeno alla scrivania, con quella dannata lingua francese che è la più ingrata e difficile di tutte. Ah, se potessi scrivere in tahitiano, come diventerebbe tutto semplice — persino il mio cervello!

Alghero, un altro antico feudo dei Doria di Genova, ha conservato buona parte delle sue mura sul mare, probabilmente perché servivano da frangiflutti, un vecchio fortino che doveva difendere il porto, e due o tre grosse torri scampate alla demolizione generale, ora rese insignificanti dal vuoto delle piazze che le circondano. La città vecchia è solo decadenza: case cadenti, alcune delle quali avrebbero ancora una certa nobiltà se non avessero i portali sfasciati e le finestre murate. La Casa Doria ci parla meglio di tutte della grandezza perduta.

Sul lungomare, una passeggiata pretenziosa allinea edifici di cemento, tra cui un hotel dove ci rassegneremo a passare la notte, anch’esso vantato per un nuovissimo bagno… dai rubinetti senz’acqua. Mi ricorda un mercante d’olio di un villaggio andaluso, incontrato in una posada [cioè locanda, albergo, pensione] che mi aveva invitato con orgoglio a vedere il bagno che aveva fatto installare a caro prezzo, con vasca, doccia, lavandino, water con sciacquone a cascata, bidet a cambio di velocità, rubinetti nichelati, eccetera, e che mi diceva fiero: «Non è vero, señor, che sarà bellissimo quando avremo l’acqua nel pueblo?» Forse ce l’ha, da vent’anni a questa parte da quando ci sono passato, ma non è detto. Deve coricarsi, con il suo costume da bagno a righe, nella vasca da bagno e sognare abluzioni che probabilmente non farebbe mai nemmeno se avesse l’acqua.

Porto Conte si apre in fondo a un immenso lago marino, oggi sferzato dal maestrale; le onde color ardesia, increspate da piccole creste bianche, ricordano i dipinti dei vecchi maestri olandesi. Una goletta all’ancora, con tutte le vele ammainate, soffre in mezzo a questo inferno gelido. Le colline rocciose che racchiudono il golfo sono avvolte nella bruma e negli spruzzi. Osserviamo tutto questo rabbrividendo, stretti l’uno all’altra come una coppia di pappagallini, senza il minimo desiderio di farci il bagno. Una luce funebre cala dal cielo come un sipario da catafalco sull’orizzonte dove il sole è morto da ieri sera.

ITTIRI

Il bel tempo ci viene restituito questa mattina, e filiamo allegri, a trenta all’ora, verso Ittiri e Torralba. Nei campi crescono a ciuffi palme nane (Nota: Chamerops humilis) dalle foglie lunghe, identiche a quelle che abbiamo visto sui monti intorno a Oaxaca. Qui se ne fanno cesti cilindrici, cofanetti, piatti rotondi, ecc., decorati in nero su fondo color crema con animali stilizzati — uccelli, cani, cerbiatti — una delle più felici espressioni dell’arte popolare sarda. E non sarà, fortunatamente, l’unica che incontreremo.

Ittiri ce ne offre un’altra, e di grande pregio: un bellissimo costume tradizionale indossato da una donna del paese, l’unica, a dire il vero, che abbiamo visto vestita così; un abito dalla linea elegante e dal raffinato accostamento di colori. Mi limiterò a descrivere questi ultimi, lasciando al disegno di Amandine Doré il compito di mostrare il resto: la camicia bianca, dalle ampie pieghe; il busto rosso, in tessuto rigido, probabilmente rinforzato con una tela grossa; il corpetto e le maniche a righe verticali verdi e gialle; la gonna, resa ampia da molte sottogonne, di un blu cobalto con un’ampia balza inferiore in una tonalità più scura; il fazzoletto da testa (tiazola) bianco, con grandi fiori gialli; il grembiule (falde), unica nota di stoffa industriale in un insieme tessuto dalle contadine stesse o dagli artigiani del borgo, è di cotone a grandi quadri bianchi e blu. Si trattava, del resto, di un capo piuttosto vissuto, il che ci rivelava che era indossato abitualmente. La donna era giovane — dettaglio notevole, perché di solito sono le anziane a restare fedeli al costume locale.

Nel borgo stesso e lungo la strada abbiamo incontrato molte donne avvolte, dalla testa fino alla cintura, in quella sorta di mantello a forma di gonna di cui ho già parlato, nero o cosparso di grandi fiori rosa su fondo nero, di un bellissimo effetto decorativo. Poiché anche la gonna era dello stesso blu, è possibile che fossero vestite come quella che ho appena descritto, vista sulla soglia di casa, intenta alle sue faccende domestiche.

Amandine Doré - Ittiri

Disegno di Amandine Doré

LE CHIESE DI SAN PIETRO DI SORRES e SANTISSIMA TRINITA’ DI SACCARGIA

A Thiesi, un prete ci consiglia di prendere una scorciatoia, lasciando Torralba sulla destra, per andare a vedere, non lontano da Borutta, la chiesa di San Pietro di Sorres. Ci assicura che non ce ne pentiremo — ed è davvero un capolavoro dell’arte romanico-pisana; la facciata è molto più ornata di quelle viste finora, con una dozzina di motivi a mosaico nello stile di Lucca o Pistoia, in Toscana. La parte alta si alleggerisce in bande orizzontali bianche e nere, trachite e calcare. Sorge da sola, insieme agli edifici conventuali, sulla cima di una collina spoglia, cui si accede per un sentiero sterrato abbastanza agevole, anche dopo qualche giorno di pioggia. Dove sono passato io con la nostra macchina ribassata, chiunque può avventurarsi senza timore. Basta procedere con prudenza e aggirare i tranelli del terreno.

Sotto la navata ci accoglie un uomo corpulento dall’aspetto nobile, vestito con una vestaglia a righe, che tuttavia non gli toglie nulla dell’aria sacerdotale. È infatti un Padre benedettino che, con altri sette confratelli, si dedica al restauro della chiesa e alla ricostruzione del monastero. La sua vestaglia, ci dice, gli serve da tuta da lavoro durante i cantieri. Parla francese con una tale scioltezza che il mio italiano, al confronto, sembra ben misera cosa. Ci racconta l’origine della sua chiesa, costruita nel XII secolo da maestranze francesi e pisane, sotto la direzione di un vescovo francese, Geoffroy o Geoffredo, consacrato da san Bernardo, quindi cistercense. L’architetto ha firmato la sua opera sulla facciata: Maestro Mariano — ed è davvero un capolavoro di cui si può andare fieri. Era la chiesa parrocchiale, o chiesa madre, di una città che si chiamava Torres, di cui oggi non resta più nulla.

Ci parla delle sue dispute con i Beni Culturali, e non posso fare a meno di dirgli che non mi sorprende affatto, dopo aver visto come intendono loro il restauro di un monumento. Nella ricostruzione del chiostro, originariamente composto da fasce alternate bianche e nere – come l’interno della chiesa, parte della facciata e la canonica – si è scontrato con gli architetti dell’amministrazione, che volevano rifare tutto in calcare per dare un aspetto più moderno. È facile immaginare quanto io abbia ironicamente approvato questo ringiovanimento di uno stile degno dell’oscurantismo medievale.

Il bianco e nero è il tema, o meglio il linguaggio, scelto dal Maestro Mariano per l’intero complesso architettonico. I pilastri e perfino le nervature delle volte della navata seguono questa alternanza; la volta stessa, tra gli archi, è realizzata in una pietra pomice quasi nera, molto leggera, che ha permesso ai costruttori di osare con arditezza. La severità del romanico si tinge qui di una sorta di grazia, in cui ritrovo lo spirito di Vézelay.

Il Padre si rammarica dei danni inflitti dagli uomini e dal tempo in secoli di abbandono. Il cancello del presbiterio, ornato con la finezza di uno scalpello delicatissimo, è corroso dagli anni e dall’uso — pare che la chiesa sia servita persino da stalla. Della statua funeraria di un vescovo non resta che la parte superiore del corpo, con il bastone pastorale. Passiamo due ore fruttuose nella sagrestia, in compagnia del Padre, parlando dell’architettura romanica e del suo straordinario sviluppo sull’isola. Mi spiega che ciò non dipende dal fatto che in Sardegna si siano costruite più chiese romaniche che altrove, ma dal fatto che la povertà del paese non ha permesso, nel corso del tempo, di abbatterle per far posto al gotico o al barocco. Ammetto di non averci mai pensato — il che dimostra come a volte ci sfugga il più semplice buon senso. In effetti, in tutte le grandi città sarde, dove la pietà della nobiltà e dei mercanti garantiva ricche donazioni al clero, non si esitava a demolire le più belle facciate romaniche, talvolta l’intera chiesa, per ricostruire secondo i gusti del secolo.

Vedremo, poco più avanti, tornando verso Sassari, un nuovo esempio di questo grande stile: la chiesa della Santissima Trinità di Saccargia, vicino a Codrongianos, anch’essa costruita in piena solitudine, con facciata, portico e campanile interamente in fasce bianche e nere, con un’influenza pisana molto marcata. Anche lì i restauratori hanno profuso il loro abituale zelo, rifacendo, per esempio, gran parte delle colonne e dei capitelli; e tuttavia, la chiesa e la sua torre lanciano verso il cielo un alleluia nel più puro tono gregoriano. All’interno, l’abside è interamente affrescata con pitture del XIII secolo, influenzate da quei maestri bizantini che ci avrebbero poi donato Cimabue, Duccio e le più belle composizioni di Giotto. Pur con qualche ritocco, restano la vivida illustrazione, in belle immagini da antifonario [antifonario è il manoscritto liturgico contenente inni e antifone, spesso miniato], dell’inno rituale cantato dalla Chiesa.

San Pietro di Sorres

Chiesa San Pietro di Sorres – foto di Cl. Hébert – Stevens (solo nella 2. ed.)

Basilica di Saccargia

Basilica di Saccargia – foto solo nella 1. ed. 1957

LA CIVILIZZAZIONE NURAGICA

[Il nuraghe Santu Antine]

Davanti alla chiesa di Saccargia, due tipi piuttosto bizzarri, al volante di una Fiat e accompagnati da una coppia di quelle vecchie signore inglesi che si vedono un po’ ovunque in Italia, ci propongono, se vogliamo seguirli, di farci da guida fino al grande nuraghe di Santu Antine. Si tratta di uno dei più importanti e meglio conservati tra questi strani bastioni di una civiltà antica ormai scomparsa, esclusivamente sarda o, come si dice, protosarda.

Il nuraghe si trova a sud di Torralba, a circa [venti]cinque chilometri da Saccargia. Ma poiché il Mediterraneo primitivo, prima dell’espansione fenicia e egea, era un crogiolo indistinto, è impossibile stabilire con esattezza dove si siano insediati i vari popoli rivieraschi. Per avere un minimo di certezze, bisogna attendere il periodo storico, quello cioè in cui abbiamo testimonianze scritte — talvolta leggendarie, ma pur sempre informative.

Sui Protosardi, sulla loro origine e sulle loro usanze, non possediamo nulla di preciso; e anche le fonti relative alla Sardegna sono scarse e risalgono a un’epoca in cui la civiltà protosarda era già scomparsa. Le attribuzioni d’origine proposte dagli archeologi si basano su somiglianze (non direi analogie) tra le tecniche costruttive dei protosardi e quelle egee, micenee, assiro-babilonesi, iberiche o africane.

Quegli studiosi tanto appassionati di raffronti dovrebbero però considerare che l’ideazione e la costruzione di un edificio rispondono a necessità spesso comuni, imposte dal tipo di materiale disponibile, dalla sua resistenza e dalle leggi dell’equilibrio. È quindi del tutto possibile che in regioni prive di contatti tra loro sorgano monumenti sorprendentemente simili. L’ho già dimostrato, a proposito delle piramidi, nel mio Messico, paese a tre piani. Non è il caso di tornarci sopra.

Così i Protosardi, nei loro nuraghi, sovrapponevano enormi massi reperiti sul posto, facendoli sporgere leggermente a ogni livello, fino a far combaciare due muri contrapposti — o l’intera struttura circolare — in sommità, ottenendo così una sorta di volta. È possibile trovare edifici dello stesso tipo in Caldea, a Creta e altrove, ma ciò non implica affatto un’imitazione, né tantomeno un’influenza. In entrambi i casi sono la necessità, i materiali, i mezzi tecnici e gli strumenti a generare risultati simili.

I corridoi interni di alcuni nuraghi sono costruiti nel modo che ho già descritto: pietre accatastate con un lieve aggetto progressivo, fino a congiungersi in un angolo acuto. È esattamente con questa tecnica — come ho potuto osservare a Palenque — che i Maya del primo periodo costruivano i corridoi dei loro templi. Il che potrebbe indurmi, a mia volta, a sostenere l’esistenza di un’influenza maya in Sardegna, o viceversa. Ma non credo sia necessario sottolineare l’assurdità di una tale ipotesi.

Ben diverso è il discorso sugli innumerevoli piccoli bronzi nuragici rinvenuti un po’ ovunque in Sardegna. È probabile che siano stati influenzati dagli Egei o dagli Etruschi — il che, in fondo, è quasi la stessa cosa, poiché l’arte etrusca ha sempre risentito dell’influenza di quella che chiamiamo Grecia: vale a dire Egei, Achei e Greci in senso stretto. È anche possibile che vi si riscontrino alcuni elementi orientali, benché, anche in questo caso, la somiglianza non implichi necessariamente un’imitazione. Tuttavia, questi piccoli bronzi rivelano, nella modellazione e nella fusione, una tale povertà tecnica — salvo in qualche rara eccezione — che risulta difficile attribuirli alla grande arte cretese, quasi sempre vicina alla perfezione. Se davvero i Protosardi ne furono influenzati, le loro opere li qualificano come allievi assai mediocri.

Tornerò su questo punto quando giungeremo a Cagliari, nel suo affascinante museo, dove si conserva la maggior parte di questi bronzi.

La civiltà nuragica, secondo la stessa ammissione degli studiosi che più a fondo l’hanno esaminata, non risalirebbe oltre il 1500 avanti Cristo, e avrebbe conosciuto il suo apogeo intorno all’800, al massimo. Sono date molto precise, se si considera quanto poco conosciamo della sua storia, e la prima potrebbe essere forse retrodatata. Eppure, già in quel primo periodo, Creta aveva da tempo raggiunto le vette dell’architettura e della pittura a Cnosso — una delle espressioni più alte della creatività umana. I Protosardi apparirebbero dunque come discepoli terribilmente in ritardo, rimasti nell’800 avanti Cristo allo stadio in cui si trovava Creta più di tremila anni prima della nostra era. È proprio a quell’epoca, infatti, che risalgono approssimativamente le tombe a cupola della pianura cretese di Mascara, considerate dai nuragologi come il prototipo dei nuraghi sardi.

Mi ci vorrebbe ovviamente un intero volume per sviluppare compiutamente questa dimostrazione, e sono quindi costretto a limitarmi qui agli elementi principali. Ritengo però che bastino a mettere in luce i presupposti arbitrari dell’archeologia sarda e a mettere in guardia il lettore riguardo alle sue comparazioni e alla sua cronologia. I suoi esponenti si sono a lungo smarriti nell’attribuzione dei nuraghi. In molti li hanno interpretati come templi destinati al culto. Al momento, sembrano essersi parzialmente ricreduti. Eppure, sarebbe bastato il più elementare buon senso, unito a un esame attento, per capire che si trattava semplicemente di castelli fortificati, nei quali la popolazione trovava rifugio in caso di attacco. Tutti gli elementi parlano chiaramente di una funzione difensiva: le strutture avanzate, i camminamenti di ronda, i magazzini per le provviste, i pozzi — tutto studiato per resistere a un lungo assedio.

Sotto questo aspetto, si potrebbe dire che i Protosardi disponevano già, in anticipo sui tempi, di propri Vauban [Sébastien Le Prestre de Vauban · Ingegnere e architetto militare], e che questi fortilizi sembrano praticamente inespugnabili. In alcuni di essi, come nel caso di Santu Antine, si riscontra una concezione della difesa talmente raffinata che ci si può domandare se non si tratti del perfezionamento introdotto da un altro popolo — greci? cartaginesi? — al modello originario del nuraghe: la torre isolata a forma conica, come la vediamo, ad esempio, a Silanus. Da qui si spiegherebbero l’estrema varietà di queste opere militari e la scelta accurata della loro collocazione, quasi sempre in posizione eccellente, sia per motivi strategici, sia come parte di un sistema difensivo integrato: una sorta di linea Maginot protosarda.

Quanto alla loro presunta funzione di templi, è probabile che vi si sia svolto anche il culto: forse per le guarnigioni, con i relativi cappellani militari, o quando la popolazione vi si rifugiava. In tal caso, è ovvio che anche i sacerdoti si rinchiudessero con essa, invocando durante l’assedio la protezione delle divinità. Non stupisce dunque che vi siano stati rinvenuti oggetti di carattere religioso. Ma assimilare queste cittadelle a dei templi sulla base di quei pochi reperti significherebbe considerare una fortificazione medievale una cattedrale, solo perché vi si sono trovati dei crocifissi.

Nel cortile d’ingresso del nuraghe di Santu Antine, all’interno di quella che fu la guardiola dei soldati protosardi, un vecchio sardo si è sistemato in un’antica casamatta e interpreta — in modo del tutto platonico — il ruolo di custode. E in effetti, ci vorrebbe un campione olimpico per spostare anche solo uno di quei giganteschi massi sovrapposti, che si elevano fino a una decina di metri d’altezza. Se la maggior parte dei nuraghi non è stata smantellata fino alle fondamenta per fornire materiale ad altre costruzioni, lo si deve unicamente alla mole e al peso impressionante dei blocchi: sarebbe stato necessario uno sforzo immane per rimuoverli.

Il vecchio guardiano ci accoglie con un sorriso cordiale e ci fornisce alcune candele per la visita, poiché avevamo avuto la poco brillante idea di lasciare a Sassari le nostre torce elettriche. Si guarda però bene dall’accompagnarci in quel dedalo umido di corridoi e scalinate. Per fortuna, eravamo provvisti di una pianta molto dettagliata, con sezioni e prospetti, che ci permette di orientarci agevolmente e di riconoscere i vari ambienti.

Questo nuraghe presenta una struttura particolare — come, del resto, quasi tutti quelli dell’isola. Dei più di seimila ancora esistenti, forse non ce ne sono cinque uguali fra loro. Ognuno è stato adattato al numero di persone che poteva ospitare, alla natura del terreno, alle esigenze difensive e all’orientamento. Non mi risulta, ad esempio, che esistano due nuraghi — nemmeno vicini — collegati da gallerie sotterranee. Erano costruttori, non scavatori. Il loro ingegno militare, con ogni probabilità, non contemplava né mine né cunicoli.

La torre centrale occupava appena un decimo della superficie della cittadella. Il triangolo del perimetro portava su ciascuno dei tre angoli una torre secondaria, più piccola, il tutto collegato al cortile d’ingresso — o piazza d’armi — tramite lunghi corridoi, di cui ho già parlato. Il mastio, o torre principale, aveva la forma di un cono tronco, con terrazza d’osservazione, e un’unica porta, aperta sul cortile. In origine era articolato su tre livelli, incluso il piano terra, ma il piano superiore è crollato oppure è stato smantellato dai contadini per costruire i loro muretti. Ogni piano ospitava una grande sala conica, coperta da una volta ben realizzata; quella del secondo piano è meno alta rispetto a quella inferiore. Una scalinata, dalle gradinate dure e robuste — perfette per i passi pesanti della soldataglia — si innalza in una larga spirale ricavata nello spessore stesso delle mura, lungo tutto il perimetro del mastio, collegando così i vari piani e la terrazza sommitale.

È curioso osservare come, mentre le pietre della muratura esterna sono accuratamente squadrate e ben connesse, in modo da non offrire alcuna presa a un eventuale assalitore, quelle dei corridoi interni e delle scale presentano sporgenze massicce, nella rozza rudezza dei blocchi di roccia estratti dal suolo. È proprio in questi cunicoli che si percepisce meglio la fatica titanica alla base di questi edifici bellici: ci si sente quasi schiacciati da quelle masse colossali, sovrapposte senza l’uso di alcun legante, eppure capaci di resistere, con immutata stabilità, a più di venti secoli di storia.

L’intera cittadella, traforata nel suo spesso involucro da una miriade di feritoie sottilissime, non è altro che un vasto reticolo di passaggi e scale, che conducono a casematte, a magazzini per le provviste, a nascondigli per le armi: la concezione più possente di una fortezza dell’epoca, che — anche oggi — non sarebbe facile ridurre, nemmeno a colpi di cannone. (NOTA. È bene ricordare, fra i nuraghi più interessanti e meglio conservati, oltre a quello di Santu Antine, anche quelli di Losa, Isili, Palmavera e Silanus).

Barumini

Villaggio nuragico di Barumini, foto Cl. Hébert – Stevens (solo nella 2. ed. 1965)

Nuraghe di Santu Antine

Nuraghe di Santu Antine, foto Hébert – Stevens (solo nella 2. ed. 1965)

VERSO NUORO

Poco prima di entrare a Ozieri, proviamo un piccolo sussulto nei nostri cuori di archeologi. Sotto la strada, in mezzo a un armonioso paesaggio di colline, vicino a una casa bianca che deve essere quella del custode, si sviluppa, ai margini di un sentiero, un intero villaggio preistorico. Abbandoniamo subito l’auto per scendere a vedere da vicino questa trentina di capanne rotonde, costruite di pietre e con tetto conico, che non possono essere, ovviamente, che dell’epoca nuragica.

Il custode, vestito come un contadino di questo Logudoro in cui ci troviamo, non capisce subito cosa vogliamo da lui. Quando si rende finalmente conto che desideriamo visitare il villaggio, sembra estremamente orgoglioso della nostra curiosità e ci accompagna, dicendoci che in questo momento ha più di settanta maiali. Non comprendiamo bene il collegamento, ma non per questo smettiamo di rivolgergli i complimenti di rito. Sempre più soddisfatto, ci invita a entrare in una delle capanne nuragiche dove vediamo tre grossi maiali accoccolati sul letame. Non possiamo fare a meno di sentirci un po’ scandalizzati da questo sacrilegio, quando il custode ci spiega che ha costruito lui stesso tutto il villaggio per ingrassare i suoi porci. Aggiunge che non è l’unico nella regione ad aver eretto capanne di questo tipo per lo stesso scopo. Un po’ delusi, come si può immaginare, ci viene da chiedersi se i villaggi preistorici che abbiamo visto alle Eolie non abbiano avuto la stessa origine, la stessa forma, lo stesso tipo di raggruppamento. In questo caso, ci sarebbe stato davvero uno scherzo da maiali!

A Ozieri facciamo tappa da una signora pia che affitta, occasionalmente, una camera per la notte, piena di stampe edificanti e di crocifissi di gesso; per la preghiera serale c’è solo l’imbarazzo della scelta. La città, come quasi tutte le altre, è costruita ad anfiteatro, nel punto più alto di una collina, e non è più interessante dal punto di vista dei monumenti di molte altre. Tuttavia, se vi abbiamo trascorso la fine della giornata e la notte, è perché è molto viva, abitata da contadini, alcuni dei quali hanno conservato l’antico costume sardo con il copricapo frigio (berretta) e il gilet colorato con pettorina (corittu); il resto è di foggia moderna.

La berretta qui, come in tutto il nord, è molto più lunga che nel sud; e il modo di portarla, lasciandola pendere davanti, dietro o sul lato, segnala il carattere della persona. Forse avrete sentito dire che l’una o l’altra di queste modalità di portare il copricapo dipende dalla regione, ma solo a Ozieri abbiamo osservato e disegnato tutte le varianti di cui ho parlato.

A seconda della regione, il modo di portare il copricapo varia, ma solo a Ozieri abbiamo potuto osservare — e disegnare — tutte le modalità di cui ho parlato. Le donne, quasi sempre vestite di nero, sono avvolte, testa compresa, in un grande scialle con frange corte.

Il punto più animato del paese è una vasta piazza a mezza costa, dove una fontana in stile gotico “louis-philippard” versa acqua in abbondanza da numerosi bocchettoni. Per risparmiare, forse, questi sono chiusi da grossi rubinetti in rame che tuttavia non riescono a impedire il consueto spreco. I ragazzini, maschi e femmine, che svolgono qui il mestiere di portatori d’acqua, si spruzzano e si agitano come anatroccoli dopo aver riempito i loro recipienti di ogni tipo, che poi trasportano in equilibrio sulla testa. Di fronte, un piccolo bar con terrazza può trasformarsi in un perfetto atelier per il disegno, con modelli spontanei dalle fisionomie marcate e vivacissime.

A Buddusò sbagliamo strada e ci spingiamo fino ad Alà dei Sardi prima di accorgerci dell’errore — che si rivela però fortunato, perché ci fa scoprire paesaggi di rocce sconvolte, un gigantesco caos granitico dove, con ogni probabilità, i Protosardi venivano a cercare le pietre per costruire i nuraghi.

Buddusò ha l’aria di un villaggio d’altri tempi, per via del granito grigiastro con cui sono costruite la maggior parte delle case. Come sempre, è la materia impiegata a creare l’atmosfera, a trasmettere un sentimento. Bitti e Orune fanno un certo effetto da lontano; da vicino, non è che siano eccezionali. Ma per chi è curioso di abitazioni trogloditiche, le domus de janas, un piccolo borgo di pastori nei pressi di Orune, Fenosu — se ho ben compreso — ne offre una serie davvero notevole, tra le più varie.

Da qui fino a Nuoro si attraversa una delle regioni più verdi della Sardegna: paesaggi di montagna o di alte colline boscose, il massiccio del Nuschele, rocce, querce da sughero e praterie punteggiate di margherite dove pascolano pecore bianche — proprio come nei canti infantili.

Paesaggio campagne di Ozieri

Foto nella 1. e 2. ed. La didascalia recita: Ozieri. Villaggio nuragico? [Una domanda retorica, ovviamente è una grande porcilaia, forse sita in località Puppuruju, Sas Olias].

NUORO

Tutti i dintorni di Nuoro sono di questa qualità. La città in sé non suscita grandi elogi, ma è circondata da scenari meravigliosi e da villaggi autentici, tanto che merita di essere scelta come punto di partenza per esplorazioni in ogni direzione. Inoltre, è un osservatorio privilegiato: il suo mercato e i negozi attirano abitanti dei paesi vicini, dove sopravvivono ancora costumi tradizionali femminili, e — caso ben più raro — anche maschili, di notevole interesse. È proprio a Nuoro che Amandine Doré ha disegnato i due costumi che ci propone qui: il primo, ricco di colori, ha un corpetto ricamato in rosso e arancione su fondo nero, una gonna rossa con inserto nero, doppia cintura nera e bordeaux, e un grembiule a quadretti azzurri; il secondo, di un’impronta quasi medievale: la cuffia, il corpetto, il grembiule e l’orlo della gonna di un nero lievemente arso, con un’unica nota di rosso acceso sulla stoffa. A Nuoro, molte donne — anche appartenenti alla borghesia — portano lo scialle che copre il capo, ornato di lunghe frange, e l’abito dello stesso colore, quel bruno che non saprei meglio paragonare se non alla corazza lucente di un maggiolino, e che ritroveremo a Oliena, a Orgosolo, e nelle nostre escursioni attorno al Corrasi — un vero monte questo — che raggiunge circa i 1500 metri.

Non potrei dire nulla sugli alberghi di Nuoro. Noi campeggiavamo poco lontano, in cima all’Ortobene, tra una vecchia quercia da sughero e le rocce, ai piedi di una colossale statua del Redentore, che stende un gesto di benedizione sui suoi fedeli e che, di notte, è avvolta da un’aureola di lampadine elettriche.

Nuoro

Disegno di Amandine Doré

INTORNO A NUORO

Tra le passeggiate più comode in questa magnifica regione, ricca di folklore, si può fare in auto, in un’ora o mezza giornata, a seconda dei gusti, il giro Nuoro–Oliena–Mamoiada-Nuoro. La strada, né asfaltata né ben battuta, scoraggia i turisti e preserva così la personalità dei borghi che attraversa. Il percorso, che si snoda in fondo a una romantica vallata, ci conduce a Oliena, aggrappata al fianco del Corrasi.

Appena scesi dall’auto, ci mettiamo “in caccia”. Io mi sono appostato in un angolo d’ombra, davanti a una piccola cappella tutta bianca, per catturare con l’obiettivo le passanti, senza farmi notare. A dire il vero, ciò ha interesse solo per il gioco di neri e bianchi, perché tutte sono avvolte strettamente nel loro scialle. Nei giorni di festa indossano un delizioso costume di panno rosso, velluto blu e lino ricamato, sotto uno scialle color foglia morta, ricamato di fiori — costume che abbiamo potuto osservare nella figlia di un calzolaio, nella sua casa.

Mentre io ero appostato, Amandine Doré faceva una ben altra raccolta — con tutta la distanza che separa l’arte dalla meccanica — realizzando una serie di schizzi, di cui ci propone qui il più suggestivo. Vi ha rappresentato, fianco a fianco come li ha visti, due generazioni: il giovane con giacca sportiva e pantaloni da caccia in velluto verdastro, ghette nere e berretto; il vecchio invece completamente vestito del più autentico costume sardo, bianco e nero, con tocchi rossi nel gilet a maniche corte e scollato, e nella fodera della giubba.

I giovani non acconsentirebbero mai, per nulla al mondo, a vestirsi in quel modo, perché — dicono — fa vecchio; e in effetti, solo i vecchi rimangono fedeli all’abito tradizionale, o vi si intestardiscono, a seconda dei punti di vista. È senza dubbio questa la causa principale dell’abbandono, ovunque, dei costumi locali; le altre ragioni sono di natura economica, poiché questi abiti sono più costosi e richiedono più tempo per essere confezionati rispetto a quelli di sartoria industriale. Questa legge inesorabile ha spogliato il mondo intero dei suoi ornamenti più belli. Ritroveremo la stessa situazione poco più avanti, a Orgosolo, con le sue case color cenere, le porte, le imposte e le cornici delle finestre dipinte d’azzurro cielo, con quel senso istintivo della tonalità giusta.

Amandine Doré - Oliena

Disegno di Amandine Doré

A Oliena - di Yan Dieuzaide

Uomo di Oliena, foto di Yan Dieuzaide (Tolosa), nella 1. e 2. ed. (1957 e 1965)

Donne di Oliena - di Yan Dieuzaide

Donne di Oliena – foto di Yan Dieuzaide (Tolosa), solo nella 1. ed. (1957)

A Mamoiada imbocchiamo di nuovo la strada asfaltata che ci riporterà a Nuoro, attraversando boschi di querce e castagni, perché la Sardegna è ancora, in molte sue zone, una terra fitta e selvaggia. A metà strada scorgiamo un torrente così fresco, così grazioso, in fondo a un prato in forte pendenza — erba verde tenera e punteggiata di fiori — che decidiamo di fare lì il bucato. Scendere fin laggiù con l’auto è come scivolare su uno scivolo: la macchina scorre dolcemente sull’erba e si ferma quasi da sola all’ombra di un salice. Presto siamo già nell’acqua, a fare le lavandaie e a darci una doccia. Poi stendiamo il bucato su cespugli e torniamo a sguazzare nel torrente.

Solo che, al momento di risalire, le ruote cominciano a slittare sull’erba umida e, dopo un buon quarto d’ora di tentativi inutili, ci ritroviamo bloccati nel fondovalle — il più delizioso accampamento del mondo, a patto di poterne uscire. Per fortuna arriva un bovaro con due bestioni robusti che tirano un carro. Li sgancia subito, prepara un traino con cinghie e corde, e i due buoi ci riportano faticosamente là sopra, inginocchiandosi talvolta nell’erba. L’uomo rifiuta ostinatamente la grossa banconota che cerco di offrirgli, e sono costretto a infilargliela in tasca.

Non voglio nascondere che nessun guaio d’auto mi abbia mai mortificato tanto — neppure quella volta in cui dovetti far tirare fuori la mia Ford da una squadra di indios dopo essermi impantanato in un torrente. Che un contrattempo del genere capiti nella giungla del Chiapas, passi; ma in Sardegna, a venti passi da una strada trafficata!… La nostra macchina, evidentemente, non era fatta per la vita di campagna. Doveva temere di bagnare il suo bel vestito grigio chiaro nell’erba dei prati. Da allora l’abbiamo soprannominata la Parisienne [Parigina].

SILANUS

Lasciamo a malincuore il nostro campo sull’Ortobene e ci rimettiamo in cammino, ancora una volta verso ovest. La nostra visita della Sardegna, avanzando a poco a poco verso Cagliari, procede come una goletta che risale il vento.

La strada non ha nulla di spettacolare: pascoli recintati, querce da sughero… ma punteggiata da nuraghi che si ergono, in rovina, sulle sommità delle colline. Tutta la regione ne è disseminata, in lunghe linee difensive. Soltanto attorno a Silanus, un sistema fortificato ne comprende più di trenta.

Poiché desidero visitare le due chiese romaniche di questo piccolo borgo, parcheggiamo l’auto in una striscia d’ombra, di fronte a una bellissima casa rosa con finestre aragonesi, di grande eleganza, piuttosto rara da queste parti. Lascio Amandine a disegnare i curiosi accorsi all’istante, e mi metto alla ricerca del custode della prima chiesa romanica, San Lorenzo, che si scorge dal basso, al di sopra degli orti del paese. Me lo portano poco dopo: un vecchio asciutto, che si offre di accompagnarmi fin lassù; ma prima deve andare a chiedere la chiave al sindaco, che abita proprio nella grande casa che ho appena citato.

Entriamo insieme in un’ampia corte dal carattere marcatamente sardo, ricoperta di glicine in fiore. Il sindaco, signor Aielli Manlio, a cui spiego lo scopo del mio viaggio, mi accoglie con grande cordialità, ci consegna le chiavi di San Lorenzo e mi invita a tornare a trovarlo, insieme alla signora, una volta terminata la visita.

Nulla saprei dire della salita tra i muri degli orti, perché il mio anziano accompagnatore, che ha il fiato fresco di un ragazzo, non cessa un attimo di raccontarmi le meraviglie del luogo, come se fossi stato inviato dai massimi vertici della Sardegna autonoma; e in casi del genere non voglio perdere una sola parola di ciò che mi viene detto, poiché mi istruiscono cento volte meglio di qualsiasi pubblicazione ufficiale. Siamo sempre ben riforniti di opuscoli e dépliant che descrivono il paese con quel tono enfatico tanto caro alle agenzie turistiche. Ma la conversazione del più umile contadino mi è infinitamente più preziosa.

È una chiesa umile, quasi una cappella, con un piccolo campanile a vela a due luci, costruita in calcare e basalto nero, un semplice Ave del lungo rosario romanico che attraversa l’isola. Anche l’interno è povero, nonostante le pitture murali molto sbiadite che coprono parte delle pareti: un San Cristoforo e una santa in preghiera, di stile ancora bizantino, con quella goffaggine propria delle opere popolari — dettagli che mi fanno rimpiangere lo stato in cui versano e ciò che è andato perduto.

Nel giardino recintato da un muro, l’antico cimitero, si ergono cinque coni di basalto che rappresentano con ogni evidenza dei falli, uno dei quali presenta persino la fenditura del meato. Sono stati rinvenuti in una sepoltura protosarda, presso un nuraghe dei dintorni. Era del tutto naturale trasferirli in un cimitero, ma forse questo, ai piedi d’una vecchia chiesa cristiana, non era proprio il luogo più adatto per simboli pagani della fertilità. È probabile che nessun museo abbia voluto accogliere simili effigi, troppo audaci.

Tornando verso la strada, ritrovo Amandine, scesa dall’auto, letteralmente incastonata in una tale folla di curiosi da renderle impossibile il lavoro. Cercava di ritrarre un vecchio ancora vestito con un costume locale molto variegato e una filatrice anziana che ormai non ne porta più alcun tratto; entrambi di tipo sardo ben marcato. La sottraggo alla calca e catturo in venti secondi i due personaggi, grazie a quella meccanica che talvolta ha i suoi vantaggi.

Il sardo è estremamente cortese, in tutte le classi sociali, cosa che non si può sempre dire del siciliano. A parte un’unica brontolona perenne — la locandiera della nostra pensione di Bosa — non abbiamo mai incontrato, nell’isola, che persone affabili e ospitali, con una dignità patriarcale che tradisce le origini iberiche. Nessuno si è mai rifiutato di posare per una matita, né tantomeno per il pennello di Amandine, senza compiacenza, ma sempre con un sorriso gentile e una pazienza che non smetteva di stupirmi. Mai, neppure una volta, questi modelli — anche i più poveri — le hanno chiesto un compenso, come accade spesso in Italia. Aggiungo che, durante il nostro soggiorno piuttosto lungo sull’isola, non abbiamo incontrato un solo mendicante.

Siamo ricevuti dal sindaco con un’affabilità sfumata da tocchi d’aristocrazia e introdotti in un’ampia sala d’onore — quello che da noi chiameremmo un salotto — piena di antichi mobili sardi e siciliani, di ottimo gusto. Tutta la famiglia si è riunita nella stanza e ci accoglie con la stessa calorosa cordialità. Dopo le presentazioni, ci sediamo attorno a un tavolo, dove ci viene servito il caffè nelle porcellane più raffinate. Riesco facilmente a portare la conversazione sul tema delle tappezzerie e dei ricami del posto, di cui vedo molti esempi attorno a me — in particolare quei coberibancus (copri-panca) di cui avevamo ammirato splendidi esemplari al museo di Sassari. Le donne corrono subito a prenderne altri, che vengono srotolati davanti a noi. Sono meraviglie sottili, ricamate in lana su fondo di lino, raffiguranti personaggi, animali e motivi ornamentali con una stilizzazione che ricorda l’arte popolare svedese o finlandese. 

Quando esprimo il mio rammarico per il fatto che questi capolavori dell’artigianato siano ovunque in declino, il sindaco ci propone di accompagnarci a casa di una signorina del paese, che ancora lavora al telaio. Andiamo in un piccolo gruppo, seguiti a distanza rispettosa da un buon numero di curiosi, ed entriamo presto in una casetta luminosa e ordinata, che è al tempo stesso l’abitazione e l’atelier della tessitrice e ricamatrice. Lavora il lino su un telaio rudimentale, fatto con una struttura in castagno e un pettine di canne. Le lane sono tinte esclusivamente con prodotti vegetali: infusi di foglie e radici, terre coloranti e vecchio ferro.

I motivi della ricamatura si ispirano quasi esclusivamente alla vita pastorale e alla vegetazione agreste, con una predilezione marcata per gli ornamenti floreali. La signorina ci mostra dei pezzi davvero notevoli — copribanchi e tovaglie — che rendono onore alla sua abilità e al suo gusto, ma che spesso si allontanano dalla composizione tradizionale, là dove c’era più varietà e più immaginazione. Si percepisce chiaramente come non osi più avventurarsi in quelle sproporzioni tra i personaggi e gli elementi decorativi che avevamo tanto ammirato a Sassari, e che rappresentano l’espressione autentica del genio popolare. Il lirismo di quest’arte non si cura affatto della logica, si abbandona al sogno interiore — come ho già osservato, a proposito dei pechkirs macedoni, nel mio Itinerario della Jugoslavia. Qui vi è più scienza, più consapevolezza, ma meno linfa primitiva. Non potrebbe essere altrimenti, in un’epoca in cui l’artigiano non è più isolato nel suo lavoro creativo, ma è in contatto con modelli che provengono da ogni dove, e cerca di adeguarsi al gusto della clientela. Le opere della signorina di Silanus partecipano ancora di quella bellezza propria del lavoro manuale, ma non hanno più la spontaneità né la libertà interpretativa delle tessiture di un tempo. Si documenta con intelligenza, sceglie con gusto, sa accostare i colori, ma non si abbandona più al proprio sentimento personale, come invece facevano le creatrici degli ammirevoli manufatti che abbiamo appena ammirato a casa del sindaco.

Questi ci propone di condurci, a bordo di una vecchia Ford alta sulle ruote, fino alla chiesa di Santa Sabina [corregge Sarbana] e al nuraghe omonimo. La strada, ci avverte, è molto malmessa, e la nostra auto non la sopporterebbe. Considerato il modo in cui quella smorfiosa si è comportata laggiù nel fondo della valle, non le concediamo più alcuna fiducia e accettiamo la proposta del sindaco.

La strada, stretta tra i soliti muretti a secco, sassosa, piena di solchi come il letto di un torrente, dove a tratti si attraversa persino l’acqua, non ci fa per nulla rimpiangere il confort della nostra Parisienne, troppo leziosa, troppo corta di gambe e troppo ben vestita.

È uno strano contrasto, quello che ci si presenta: questi due monumenti — il nuraghe e la chiesa — isolati, fianco a fianco, nel mezzo della pianura, come una sintesi dell’evoluzione umana dall’età del bronzo a quella dell’eucaristia. Sono entrambi solidi e tozzi, ma il primo è pura rudezza primitiva, ammasso informe privo di architettura, mentre l’altra, nella sua estrema semplicità, racchiude tutta l’armonia del pensiero cristiano, così come fu interpretato da Roma e da Bisanzio.

Non è però meno vero che la fortezza protosarda ha in qualche modo ispirato i costruttori del santuario. Quest’ultimo ha infatti forma circolare, come il nuraghe, con proporzioni simili di diametro e altezza, e la sua volta interna è costruita — con maggiore cura e raffinatezza — secondo lo stesso principio delle due camere sovrapposte del suo antico modello. È possibile che si tratti solo di una coincidenza, ma la somiglianza è così curiosa che sentivo il dovere di segnalarla.

L’edificio cristiano è affiancato da un’abside sporgente e da una cappella laterale, anch’essa con abside sporgente. Quest’ultima è stata restaurata con grande prudenza dal sindaco, che la considera un po’ come una delle sue creature, ed è — giustamente — molto fiero di questa paternità. Il disegno dell’altare romanico è opera sua. È una fortuna che sia intervenuto per salvare questa piccola chiesa, una delle più antiche della Sardegna, anteriore all’influenza di Citeaux e di Pisa, costruita secondo la pianta dei trichorum del tardo Impero romano; dovrebbe risalire al X secolo, se non prima.

Quando mi stupisco della buona conservazione del nuraghe vicino, il sindaco mi dice che ne esiste un altro, sempre nel territorio di Silanus, ancora meglio conservato — il nuraghe Madrone — di forma più conica e costruito su un’altura, come un posto di vedetta; che molti di questi nuraghi, fino ai nostri giorni — cioè fino a quando non sono stati presi in carico dalle Belle Arti — venivano usati dai contadini come stalla, magazzino o talvolta persino come abitazione; e che quindi avevano tutto l’interesse a mantenerli intatti, tanto più che la solidità delle mura e delle volte richiedeva solo una manutenzione della piattaforma superiore. Si teme, ora che sono diventati monumenti storici, privati dei loro abitanti e delle cure indispensabili che questi garantivano, che anche quei pochi superstiti dalla rovina finiscano col crollare, come gli altri.

Personalmente, è noto quanto mi rammarichi che si sia scacciata dalle rovine antiche quella vita parassitaria che vi si era insediata (Nota. Le Dieu qui danse, Ed. Albin Michel) — com’era ancora, prima di Mussolini, per il Teatro di Marcello a Roma, le cui arcate, trent’anni fa, ho visto ancora abitate da artigiani di ogni mestiere, oggi sfrattati nel nome dei sacri principi dell’archeologia — ridotto a uno scheletro.

BOSA

Macomer e Sindia si possono tralasciare senza alcun rimorso. Bosa, invece — che le guide si limitano a menzionare con sufficienza — merita una sosta di qualche ora, se non di più.

Scendiamo alla locanda Murani, che ha trovato sede in un vecchio palazzo, il cui androne è così vasto che vi si potrebbero parcheggiare tre o quattro automobili, accanto alla nostra, proprio ai piedi del grande scalone in marmo. La nostra stanza è proporzionata allo stesso modo: tanto ampia che non si sa dove posare una sedia in un tale spazio. Il soffitto si perde nell’alto, a non meno di sei metri. Sulla sconfinata superficie delle pareti, due cromolitografie in cornici da bazar raffigurano la Vergine e il Bambino tra angioletti da santino, e una suora rosa e bianca — un Guido Reni da bancarella — in estatica contemplazione di un crocifisso educatamente sollevato.

Il nostro letto matrimoniale è ancora di quel tipo adorabile che un tempo si trovava ovunque in Italia: testata alta in lamiera dipinta con personaggi del Settecento incorniciati da fiori e uccelli. Ormai sono stati tutti sostituiti da squallidi letti a barre di ottone, partecipi dell’universale bruttezza della nostra era industriale. Una piccola tavola, due sedie impagliate, un treppiede in ferro smaltato con catino e brocca completano l’arredo di questa stanza faraonica, dove vi potrebbe comodamente alloggiare una famiglia di venti persone.

La locandiera è una zitella acidula, dalla voce stridula, che pretende di affittare i suoi tuguri privi di ogni confort al prezzo di un albergo di prima categoria. Ne nasce un diverbio piuttosto acceso, durante il quale le strida della cacatua [uccello diffuso in Australia] attirano un individuo a torso nudo, in pantaloni da pigiama, che entra senza troppi riguardi nella nostra stanza per appoggiare le pretese della vecchia. Lo invito ad uscire seduta stante, se tiene alla salvezza del suo didietro — cosa che fa con una certa dignità, ritraendo le terga. L’altra, invece, strepita più che mai, gesticolando verso il cielo, giurando sulla Madonna e tutti i santi del calendario. Alla fine, come accade sempre in Italia in simili casi, si arriva a uno sconto di oltre la metà, che comunque non non rende la sua bomboniera degna del prezzo richiesto.

Si allontana gemendo, e poco dopo ritorna a chiedere i nostri passaporti. È la regola, lo so bene, e contro questa inquisizione non c’è nulla da fare. Ma oltre a ciò, mi consegna un fascio di moduli da compilare come un vero e proprio curriculum vitae, comprensivo del nostro albero genealogico fino ai nomi e cognomi dei nonni. Mi sottometto pazientemente a questa ricostruzione storica, colmando le lacune con l’immaginazione di un romanziere. A che potrà mai servire alla polizia italiana questa massa di notizie farlocche? Durante il nostro soggiorno di quasi un anno in Messico, nessuno ci ha mai chiesto i documenti. Negli alberghi si compila una schedina, ma ci si può scrivere ciò che si vuole. Credo che la polizia locale potrebbe ritrovare più di una scheda dove risulto registrato sotto il nome di Erodoto, oppure Livingstone, o Salmanasar, e perfino Landru, con un’età che varia dai ventidue ai novantotto anni. Amandine, come tutte le donne, aveva fissato una volta per tutte la propria a venticinque. Espletate le formalità, la vecchia se ne va invocando l’intero calendario dei santi. Il giorno successivo, al momento della partenza, riprende a strillare, reclamando cinquanta lire di supplemento — non si sa per quale motivo — con una pantomima e delle smorfie tali che finisco per dargliene cento, le cinquanta in più come offerta per una visita dallo psichiatra.

Bosa, eccezionalmente, non si trova in cima a una collina, ma adagiata lungo un fiume, il Temo, non lontano dalla foce. Solo il castello — anch’esso dei Malaspina — domina la città dall’alto, circondato da una doppia cinta muraria: una, di pietra, oggi in gran parte smantellata, con due torri dall’aria romantica; l’altra, ben più inespugnabile, interamente composta da fichi d’India, irti di spine.

Un ponte introduce con eleganza a questo grosso borgo dal carattere tutto particolare. Questo carattere deriva soprattutto dall’uso — quasi esclusivo nella decorazione — di una trachite granulosa, cosparsa di cristalli di granato, di un rosso cupo: materiale ruvido al tatto, ma facile da lavorare e assai resistente agli agenti atmosferici. È la pietra comune del luogo. Il castello dei Malaspina ne è interamente costruito; e vedremo che anche le piccole baie della Marina, dietro il molo, sono ricavate da questa roccia colorata.

Il valore ornamentale di questa bella pietra si manifesta appena superato il ponte, nei motivi barocco che impreziosiscono la cattedrale, tutta bianca — cupola compresa — d’un candore appena sfumato d’azzurro nelle ombre, come i ghiacciai. Non che questo duomo abbia un grande stile, ma le curve, le volute e le cornici in trachite sul fondo bianco ne fanno un insieme architettonico tra i più seducenti.

L’uso di questa calda pietra nei lunghi pilastri delle facciate, nelle cornici, nei portali e nei davanzali nobilita gran parte delle alte case del Corso — l’unica via davvero significativa della città. Sono edifici a tre o quattro piani, costellati di balconi con braccioli e mensole in ferro battuto. Le finestre dei piani terra sono protette da robuste grate a maglia quadrata, simili a una rete di ferro imponente; i judas delle porte — le feritoie d’ispezione — sono chiusi dallo stesso reticolato solido. Così il borgo, a mezzogiorno, appare assediato dal sole, e tutta la sua popolazione sembra essersi rifugiata dietro le sbarre.

I negozi di questo Corso fanno tutto il possibile per modernizzarsi, ma la loro antichità si tradisce per la ristrettezza degli spazi e le volte ogivali a robuste nervature: ambienti bassi di queste vecchie dimore di una nobiltà mercantile, poiché in Italia il commercio non ha mai fatto perdere il rango a nessuno — basti pensare ai Medici. Oggi sono tristemente decadute, invase da artigiani e contadini, suddivise in quarti, come i nostri palazzi nobiliari del Marais. La sera, la strada si riempie di cavalieri e asinelli di ritorno dai campi. Appena messi gli animali in stalla, si ritrovano nelle osterie dalle volte in pietra, dove bevono parlando ad alta voce, con quel tono da disputa che è proprio della conversazione popolare. Non vedremo nemmeno un costume sardo: tutti i contadini indossano abiti industriali a buon mercato, e portano in testa berretti.

Un’intera idrografia di viuzze confluisce verso il Corso, alcune pittoresche in modo esilarante, sporche quanto basta per dare patina ai muri. Passano spesso sotto archi di pietra, forse lì per sostenere le case; ma la solidità delle costruzioni, in granito e trachite, le protegge da secoli da ogni crollo. È un borgo robusto, costruito in un’epoca in cui i proprietari pensavano a proteggere la famiglia per una ventina di generazioni.

In fondo al Corso si apre una vasta piazza ombreggiata da grandi alberi, con al centro l’immancabile monumento ai Caduti, i morti in guerra, fatto della stessa pietra color ruggine con cui è costruita l’intera città. Qui si trovano trattorie dove si può mangiare dell’ottimo pesce freschissimo, accompagnato da vini allegri, come tutti quelli della Sardegna. Un critico avveduto ha scritto che i miei giudizi su una regione non sono del tutto indipendenti dai vini che ci ho bevuto. È in parte vero. Come resistere alla generosità di un vino locale e non lasciarsi andare a un certo lirismo, quando il cervello si è acceso? Le agenzie turistiche dovrebbero davvero far ubriacare i propri clienti quando li portano in giro per zone poco attraenti.

Bosa

Foto nella 1. e 2. ed. (1957 e 1965)

 VERSO CAGLIARI

Andremo ora dritti, salvo imprevedibili fantasie, fino alla capitale sarda, Cagliari, costeggiando il mare e la laguna di Cabras per ricollegarci alla strada principale a Oristano. Per il momento lasciamo da parte tutto il centro e la parte orientale dell’isola, che avremo modo di esplorare con calma risalendo verso Olbia.

Nulla si può immaginare di più messicano di Suni. Materiali, architettura – se così si può chiamare – colori, povertà: tutto vi concorre. Se ci vedessimo passare davanti degli indios del Michoacán, non ci stupiremmo affatto. Le casette a un solo piano, le cui facciate rosa si alternano audacemente al color arancio, malva, carminio e giallo acidulo delle altre, sono costruite in adobe e coperte da tegole tonde.

Tutta la regione di Suni è costellata di nuraghi, soprattutto a nord, andando verso Padria. Ieri ne abbiamo visitati alcuni, tra cui il Nuraddeo, ben conservato, a due piani. Il viaggiatore poco curioso dei monumenti protosardi può lasciarseli alle spalle senza rimpianto: sono sempre gli stessi mulini senza pale, con le stesse sale a volta conica, i pavimenti graffiati e ri-graffiati dagli scavatori dei musei.

La basilica di Cuglieri, Santa Maria delle Nevi – sarà forse fusa al sole d’oggi – ha, da lontano, l’aspetto massiccio dell’Alcázar di Toledo, prima della guerra civile. Da vicino, non è che una grande chiesa a due torri con cupola, che sovrasta facilmente le basse case di questo paesino dove vivono persone senza alcun desiderio di fuga. Ce ne sono a migliaia così, sulla terra, che non accetterebbero per nulla al mondo di lasciare la città o il villaggio delle proprie abitudini, sotto la dittatura schiacciante della noia. Eppure basterebbe lasciarsi scivolare, anche su un paio di pattini a rotelle, per arrivare al mare, oltre il quale si allineano, uno dopo l’altro, 360 meridiani colmi di meraviglie.

Restando in Sardegna, la costa di Santa Caterina è una di queste: nella sua bianchezza e nel suo spoglio splendore, si offre alle anime forti che amano le distese desertiche. La presenza dell’uomo si intuisce da una moltitudine di piccoli rettangoli recintati da canne secche — uno di quei paesaggi che sceglierei se fossi pittore, fatti di linee semplici e toni neutri, da animare con un pennello sottile. A Riola Sardo, tutto diventa ancora più messicano: siepi di agavi e fichi d’India intorno a terreni incolti.

Per contrasto, questa sterilità ci fa venire voglia di tornare indietro verso Milis, lungo la strada principale per Macomer; e si direbbe che l’avvicinarsi a una regione fertile faccia fiorire i costumi femminili più inattesi. Se il nero vi domina, è ravvivato dai colori più brillanti: i veli sul capo sono foderati di un arancione vivacissimo, che si accende a ogni soffio di vento, e il fondo della gonna è ornato da una larga banda verde mela (vedi disegno). Poco più in là, una contadina che porta sulla testa una giara di terracotta, avvolta nelle ampie drappeggi di un tessuto nero, ha la stessa stabilità dell’ammirevole Penelope di Bourdelle.

Milis è la Vega della Sardegna, un vastissimo territorio riccamente irrigato, e per questo adatto alla coltivazione degli agrumi. I suoi aranceti producono piccole arance poco seducenti all’aspetto ma piene di succo e sapore. Appena entrati nel borgo, che non è altro che un giardino, i profumi concentrati di acacie e aranci in fiore agiscono come uno stupefacente. Pare che ogni albero distilli un veleno delizioso di cui non si possa più fare a meno, così come lo è l’ammaliante pasta marrone [hascisch] tanto amata ai fumatori. Ma se si può restare in ozio sotto le pompose acacie dei sentieri, è difficile penetrare nelle piantagioni di agrumi. Sono feudi di grandi signori, racchiusi da alti muri costruiti per resistere alla spinta di una vegetazione carnosa: aranci, limoni, nespoli; chiusi dai robusti cancelli di portali decorativi, di un intricato stile rococò, con impressi gli stemmi dei proprietari. Le loro proprietà si estendono per chilometri quadrati, con centinaia di migliaia di alberi irrigati da un’intera rete di acquedotti e canalette controllate da chiuse. Tutto risuona continuamente di fruscii di foglie mosse e di acque che scorrono. 

Vi entreremo solo con permessi in regola, ma interamente liberi nei nostri movimenti una volta oltrepassati i cancelli. Gli aranci, tutti in fiore, quasi non hanno più frutti, ma ci rimpinziamo di nespole gialle dal gusto lievemente asprigno, unico nostro pasto la sera in cui abbiamo campeggiato nel bosco del marchese N…, il più vasto e lussureggiante giardino della regione.

Oristano, città di pianura, dovette essere potentemente fortificata, a giudicare dalla torre di San Cristoforo ancora esistente: un torrione quadrato, merlato, con piani scoperti, che ricorda la porta San Niccolò a Firenze. Una grossa campana occupa l’ampia apertura dell’ultimo piano della torre, in posizione arretrata. L’insieme appare un po’ nuovo, rifatto alla maniera di Carcassonne e Avignone. Le lezioni del Piranesi non hanno mai insegnato nulla ai restauratori: ricostruiscono invece di ritoccare, e spesso a modo loro, con quel gusto per il falso Medioevo che ha imperversato nel pieno rigoglio del romanticismo.

Della città antica non rimangono che due o tre case, tra cui quella di Eleonora, piuttosto malridotta, e il grazioso portale di un seminario, incorniciato da un solido bordo di cemento; ma il corso Umberto, che parte dalla torre, è pieno di balconi con ringhiere in ferro battuto, di tipo siciliano un po’ degenerato. Non posso dire nulla del Duomo, il cui campanile, sormontato da una strana cupola a cipolla, sembra ispirarsi al Cremlino. Tuttavia, si entrerà in questa cattedrale dalla cupola schiacciata per vedere l’ammirevole balaustra romano-bizantina della cappella del Rimedio, resto di un ambone del XII secolo che doveva essere un capolavoro.

Un altro capolavoro si trova poco distante, nella chiesa di San Francesco: un Cristo in croce scolpito a sgorbia nel legno, policromo, che ricorda sorprendentemente quello della cattedrale di Saint-Jean a Perpignan. I due Crocifissi provengono chiaramente dalla stessa bottega, forse addirittura dalla mano dello stesso artigiano. (Evito volutamente la parola “artista”, che all’epoca non esisteva e mi sembra piuttosto pretenziosa.) Tutto è identico: la croce, la magrezza delle braccia, l’inclinazione del capo, l’espressione tragica, la sporgenza delle costole, il ventre scavato, la posizione delle gambe, il drappeggio, la contrazione delle dita dei piedi. Entrambi sono chiaramente di origine spagnola o aragonese, e della stessa epoca — l’inizio del Cinquecento, e non il Quattrocento, come ci dicono a Oristano. Sono l’ultima espressione di quel geniale Medioevo che il Rinascimento stava per sostituire con l’imitazione dell’antico, nella sua forma più convenzionale. Le due opere di cui ho appena parlato — il Cristo e la balaustra — ci mostrano la grandezza di un’arte che ancora non cercava di riprodurre fedelmente la forma dell’uomo o della bestia.

Santa Giusta, poco più avanti sulla strada per Cagliari, ci offre un nuovo esempio di quelle chiese romaniche che sono i gioielli della corona sarda. L’influenza pisana si rivela nei muri laterali, con i loro lunghi pilastri lisci e le arcate piene; mentre la facciata, pisana nel triforio, possiede una severità di tipo lombardo. L’interno potrebbe essere un San Miniato sardo, se avesse la ricchezza decorativa dell’omonimo fiorentino.

Tutta la regione Arborea-Terralba, che attraversiamo poi, non è altro che terra nuova strappata alle paludi grazie ai lavori di irrigazione — un tempo, una zona infestata dalla malaria, oggi una campagna ricca di pascoli e risaie, popolata da una migrazione veneta, romagnola e da alcune aree della Sardegna. Per loro sono state costruite case uniformi e ben allineate, secondo il modello coron. Basterebbe questo per dire che, a parte gli ingegneri agrari, i viaggiatori possono proseguire il cammino senza deviare verso questa immensa rete di canali, dove la vita contadina ha ben poco di sardo.

In questo territorio privo di rocce, fatto interamente di limo, non si può costruire altro che in adobes, quei mattoni crudi impastati con paglia e seccati al sole con cui sono edificati i villaggi messicani, e perfino le piramidi precolombiane. Si attraversano così villaggi talmente poveri e anonimi che sembra di viaggiare verso Zacatecas, con due anni di ritardo. Non mi sorprende troppo non aver trovato nulla nelle mie note sui cinquanta chilometri di strada che ci separano da Cagliari. Bisogna credere che né Sanluri, né Serrenti, né Monastir offrivano qualcosa in grado di farci fermare — e Dio solo sa quanto ci fermiamo volentieri, con la speranza che, chissà, ci sia un’immagine da aggiungere alle cinquecentomila che abbiamo raccolto in giro per il mondo.

Amandine Doré - Milis

Disegno di Amandine Doré

Amandine Doré - Cabras

Disegno di Amandine Doré

CAGLIARI

Città gradevole, ben disegnata, ben arieggiata, molto pulita; il lungomare tutto porticato, in stile Bologna o rue de Rivoli [famosa via di Parigi] dove si può passeggiare al riparo dal sole e dalla pioggia, davanti alle terrazze dei caffè, ai negozi, alle locandine dei cinema; una lunga strada commerciale e bancaria che sale pigramente verso il quartiere antico; altre strade tracciate col righello, incrociate ad angolo retto; un giardino pubblico piacevolmente piantumato; la Posta, il Teatro, il Palazzo Comunale, tutti degni del primo premio in un concorso di architettura.

Non so se tutto ciò costituisca davvero un elogio. In questi quartieri moderni, o meglio dire “novecenteschi”, non c’è assolutamente nulla da vedere, se non la vita della strada — che a volte è già uno spettacolo piuttosto divertente. Le vetrine non offrono alle signore le tentazioni di Roma o di Palermo. I bar somigliano a tutti quelli d’Italia: brillano di nichel e tubi al neon, con personale attento e cortese. Le gelaterie-caffè offrono la più ampia varietà di gelati, ma dopo aver conosciuto i sundays della Florida, il non plus ultra del genere, non riusciamo più a entusiasmarci per le cassate, nemmeno per quelle di Venezia.

Mangeremo un po’ meglio in questa capitale? Non è detto. Prenotando con anticipo, si potrà forse farsi servire, nei ristoranti di via Sardegna, qualche specialità locale, come le tacculas, spiedini di tordi profumati al mirto, o lo ziminu, zuppa di pesce molto speziata; ma il menù quotidiano è reso uniforme, come dappertutto, dalla salsa di pomodoro. I formaggi sono insignificanti, ben lontani da quel roquefort [formaggio] vellutato che chiamano gorgonzola, e dai piccoli caprini avvolti in foglie di fico o castagno, delizie della costiera amalfitana. La pasticceria, come in tutta Italia, difetta di finezza e di sfogliatura. Qui vanno molto fieri del gattò, una sorta di pasta di mandorle o marzapane, che però non può che far rimpiangere i badem esmessi di Istanbul, quelli di Hadji Bekir, principe dei confettieri.

Non ci metteremo molto a salire fino alla cittadella, una stretta cresta rocciosa che domina la città, e dove si concentra ciò che essa ha di più affascinante. Vi si arriva comodamente in auto, lungo i viali delle due Regine, Margherita Margherita ed Elena, e si accede da questo lato attraverso le mura e i portici medievali del Castello, vestibolo di un luogo pieno di grandezza, di silenzio maestoso e di solitudine armoniosa: l’unico posto della città in cui abiterei volentieri, in uno dei palazzi nobiliari che si affacciano sulla vecchia piazza dell’Indipendenza.

Proprio lì vicino, in fondo alla stretta via Martini, si apre un’altra piazza in pendenza, tutta allungata, il sagrato del Duomo, un edificio in stile pisano ridisegnato da un architetto di buone intenzioni. Non si mancherà di entrarvi per vedere i due pulpiti romanici, sventuratamente smembrati da un monumentale ambone che si trovava, nel XII secolo, nell’incomparabile Duomo di Pisa, e che quest’ultima donò a Cagliari — allora pisana — quando lo sostituì con la celebre cattedra di Giovanni Pisano. Quella città divina possedeva una spiritualità così feconda da poter distribuire i propri capolavori senza preoccuparsi di doverne trovare altri. Furono, naturalmente, i canonici del XVII secolo a segare in due quell’ambone d’una “epoca barbara” e a incollare ogni metà contro una parete, dopo averne prelevato i leoni di marmo che si possono ancora vedere ai piedi dell’altare maggiore. Gusti del tempo, in ogni paese. I canonici di Chartres non esitarono a distruggere le vetrate del coro per illuminare meglio un altare del Bernini. I Giotto di Firenze furono ricoperti d’intonaco da un capitolo della stessa epoca. Oggi siamo diventati più prudenti — o meno sicuri di noi stessi; basta che un oggetto sia antico, per quanto brutto sia, ne facciamo un feticcio.

Su quella stessa piazza del Duomo, un edificio trasuda musica da ogni poro, e quando le finestre sono aperte ne fuoriesce un torrente di armonie divergenti, una cacofonia di virtuosi, dove si intrecciano Chopin, Debussy, Beethoven e qualche altro. È il Conservatorio, dove un’intera tribù strumentale si esercita a spese del vicinato. Si può amare ciascuno di questi musicisti separatamente, ma quando si manifestano tutti insieme, la cosa ricorda le baruffe parlamentari in un giorno di crisi ministeriale.

Il piccolo scalino di fronte al Duomo conduce al più delizioso dei quartieri popolari: viuzze strette, nerastre, immerse nell’ombra e nella frescura delle alte case in stile genovese, irte di balconi che vanno dal primo piano alla gronda, tutti carichi di piante verdi che li trasformano in panieri sospesi. Ci si chiede quale sole speri di ricevere tutta quella biancheria che adorna le facciate, dal tetto al piano terra, tanto che a volte bisogna scostare con la mano le lenzuola che sbarrano il passaggio. Da una casa all’altra, attraverso la strada, pendono camicie dalle maniche supplichevoli e pantaloni che il vento gonfia creando finti glutei.

Questo quartiere ha molto sofferto nel bombardamento del 1943. Se ha ucciso delle persone, ne ha anche liberate delle altre, gratificandole di una luce insperata. Gli inquilini di una di queste vecchie case abitavano in fondo a un cortile oscuro e non avevano mai nemmeno sognato di poterne evadere. In un attimo la casa vicina scompariva nel fragore delle bombe, aprendo un nuovo scenario per quelle termiti d’abitazione. I superstiti hanno subito piantato gerani e viti nella loro antica prigione improvvisamente arieggiata. È diventata una terrazza fiorita, coperta di pampini; e si possono vedere questi affrancati dalle tenebre sdraiati nelle sdraio, in mezzo al verde. La morte altrui favorisce i sopravvissuti, come la caduta di un grande albero nella foresta tropicale consente ai germogli, prima indeboliti dalla sua ombra, di slanciarsi verso la luce.

IL MUSEO ARCHEOLOGICO

Il martedì, ci informa il portiere dell’albergo, il museo è chiuso. Apre solo il giovedì e la domenica. Ma si può ottenere un’autorizzazione alla visita rivolgendosi alla direzione. Si trova accanto al museo, al numero 1 di piazza dell’Indipendenza, proprio quella con la torre di San Pancrazio. La conosco. Ci siamo già stati due volte. Buon divertimento!

Il numero 1 della piazza è una di quelle belle dimore aristocratiche in cui mi sistemerei volentieri. Il portone è aperto, ma non c’è portiere. L’androne e il grande scalone d’onore risuonano sotto i miei passi mentre salgo al piano superiore. Al mio colpo di campanello non risponde nessuno per un bel po’. Finalmente la porta si apre e un signore giovane ed elegante mi saluta cortesemente, scusandosi per l’attesa. Poiché non può che trattarsi del conservatore in persona, gli porgo la lettera di presentazione dell’Ente che ci raccomanda calorosamente a tutti i direttori di musei, scavi, ecc., autorizzandoci a fotografare, disegnare, consultare i documenti. Finita la lettura, il conservatore mi invita ad entrare e mi introduce in un salone arredato all’antica. Mi lascia solo a tu per tu con un grande ritratto di giovane donna, intriso di quella malinconia che accompagna i bei volti destinati a scomparire. Rimango affascinato dagli occhi grandi, velati di tristezza, e dalla bocca su cui sembra spegnersi il riflesso di un sorriso. Un mazzo di garofani bianchi, appena colti, è posato così vicino a quella dolce immagine da sembrare a lei dedicato. Il direttore riappare poco dopo. Porta su un vassoio due bicchieri e una bottiglia veneranda:

«Accetterete qualcosa da bere? È un vecchio vino del paese.»
Un museo curioso, dove ti offrono da bere prima della visita… Mi prodigo in ringraziamenti:
«Siete davvero troppo gentile, signor conservatore…»
Sorride scuotendo il capo:
«Mi scusi, ma non sono il conservatore, e non faccio nemmeno parte del museo. Sono medico…
— Mi perdoni, ma mi era stato detto…
— Sì, lo so. Non è la prima volta che ricevo una visita come la vostra. I portieri degli hotel, non so perché, danno il numero della mia casa come fosse quello del museo. In realtà è di fronte, al numero 6.
— Mi dispiace molto…
— Ma affatto, questa confusione mi ha permesso di fare la vostra conoscenza. Se me lo permettete, vi accompagnerò al museo. Conosco personalmente il direttore. A dire il vero, non avete affatto bisogno del mio intervento, ma mi farebbe molto piacere rivedere con voi alcune opere che amo.»

Mentre parla, i miei occhi si sono posati più volte sul ritratto della giovane donna. Lui se ne accorge e ne resta visibilmente toccato:
«Mia sorella — mi spiega con voce soffocata — è morta due anni fa. Era così dolce, così tenera, così bella…
— Sì, signore. La bellezza trasparente di una lampada d’alabastro che sta per spegnersi. L’avevo intuito.»

Il silenzio — e forse anche l’anima pacificata della defunta — si è stabilito tra noi. Assaporo profondamente quell’attimo, che il luogo, i sentimenti, gli sguardi e quel volto lontano accarezzato dai garofani rendono prezioso più di ogni altro.

Ci siamo alzati senza dire una parola. Nella scala, il mio ospite sembra tornare a se stesso, a quella cortesia cordiale che, nel suo spirito d’italiano — e ancora più di sardo — sente di dover a uno straniero che ha ricevuto in casa.

Amandine mi aspettava in macchina. Lui si inchina davanti a quella giovinezza sorridente che deve aver riaperto in lui ricordi struggenti. Non ci lascerà più per tutta la giornata, tanto per senso di ospitalità quanto per alleviare il suo dolore.

È rimasto per noi uno di quegli amici di un giorno che il viaggio talvolta ti regala, e che non si lascia senza rimpianto.

Il museo non è dedicato soltanto all’archeologia, come potrebbe far credere il suo titolo; è anche un’eccellente pinacoteca di pittura antica. Visitatori inattesi, accompagnati da un custode, veniamo fatti passare direttamente dagli uffici amministrativi alle sale del piano superiore, dove sono esposti i quadri. Alcuni bellissimi, di pittori antichi della scuola senese, ci catturano fin dall’ingresso, tra cui un frammento di polittico di un ignoto del XIV secolo, in cui figurano san Francesco d’Assisi e alcuni episodi dei Fioretti. Qui lo si vede ancora giovanissimo, con l’aria di un novizio, e una smorfia che vuole essere un’espressione di concentrazione.

Ho raccolto circa trecento effigi di questo santo che venero per la sua fede ardente e per l’umiltà con cui affrontò la grandezza della sua opera: l’intrepido apostolato francescano che ha camminato, fin dall’inizio, accanto ai grandi scopritori del mondo. Qual è il vero ritratto? Sempre che ne esista uno. Forse quello di Subiaco, nella piccola grotta del livello intermedio, dipinto quando era ancora in vita, pochi anni prima delle stigmate, e che sembra il più aderente alla psicologia di questa figura lucida e realista, capace di superare ogni ostacolo per fondare il suo ordine su basi incrollabili. Il volto scavato, il corpo smunto che i pittori gli hanno attribuito in seguito non rendono giustizia alla volontà pacata e alla fiducia in Gesù che animavano questo straordinario fondatore.

Non ci soffermeremo molto, tuttavia, in questa pinacoteca che offre tante opere di prim’ordine. Torneremo un altro giorno a rivederle. Siamo venuti soprattutto per studiare i piccoli bronzi nuragici che il museo ha raccolto a centinaia, provenienti da ogni angolo dell’isola. Si trovano al piano inferiore, in una grande sala che dà sul giardino, un po’ troppo stipati nelle loro vetrine e insufficientemente illuminati, considerando quanto sia importante cogliere i dettagli di queste minuscole figurine. Sono infatti tutto ciò che abbiamo per tentare di ricostruire una civiltà caduta, come ho già detto, nell’oblio, e di cui nessun testo dell’antichità ci ha lasciato testimonianza.

Se, tranne rare eccezioni, non hanno un grande valore artistico, rimangono tuttavia affascinanti perché ci rivelano un’umanità primitiva di cui è difficile stabilire con certezza le origini e le influenze. A guardarli, si direbbero opere di molti millenni fa, trattate da uomini della preistoria, e non da contemporanei dell’altissima civiltà greca che fiorì dopo le invasioni achea e dorica. Questi piccoli bronzi, il più grande dei quali non supera i 30 centimetri — mentre la media si aggira intorno ai 15 — mostrano una certa goffaggine nella modellazione che li rende simili, alcuni di essi, a feticci africani privi di valore artistico. Le sproporzioni corporee, la rigidità dei movimenti, non sono affatto il risultato di un principio estetico, bensì l’effetto di una goffaggine originaria e di una grande povertà di mezzi. Si tratta, il più delle volte, di marionette mal assemblate, con arti privi di muscolatura, mani a forma di paletta, volti inespressivi i cui tratti, appena accennati, non ci offrono alcuna indicazione sull’appartenenza etnica.

Eppure, questo popolo era in contatto con civiltà altamente sviluppate, che ci hanno lasciato capolavori in ogni campo. I Protosardi sfruttavano certamente le miniere di rame della loro isola, ma ne ricavavano quantità insufficienti a coprire i propri bisogni; accoglievano dunque di buon grado i mercanti che portavano lingotti da Cipro e soprattutto da Creta — esemplari di cui, con tanto di marchio d’origine, si possono ancora ammirare esempi nel museo. Erano dunque in rapporto diretto con la cultura egea nel momento del suo massimo splendore. È sorprendente che non abbiano saputo trarne vantaggio, come invece fecero gli Etruschi, tanto abili da rendere spesso difficile distinguere le opere autenticamente loro da quelle greche che avevano imitato.

Si tratta, dunque, di un popolo contemporaneo delle civiltà più ricche, ma incapace di assimilarne i modelli. Ciò che ho detto delle loro costruzioni — che non si possono nemmeno definire architettura — vale anche per le loro opere plastiche. Questi piccoli bronzi e tutto ciò che li accompagna — ceramiche, gioielli, utensili di metallo, ecc. — non per questo mancano di un profondo interesse: essi riportano alla vita, attraverso i vestiti, le armi, la quotidianità e le divinità, un popolo di cui senza di essi non sapremmo praticamente nulla.

Tuttavia, non dobbiamo, seguendo il gusto depravato della nostra epoca per tutto ciò che proviene dai primitivi — persino dai più miserabili tra i cannibali — presentarli come opere d’arte da collocare accanto alle creazioni di Creta, Micene o della Grecia arcaica. Non sono che abbozzi maldestri, realizzati da uomini che ignoravano tanto il mestiere dello scultore quanto quello del fonditore. Non basta che una statuetta provenga da una necropoli per poterla annoverare tra i capolavori dello spirito umano. Tra quelle dei Protosardi e le due piccole teste di Siracusa corre una distanza pari a quella che separa un abbecedario dall’Odissea.

Museo di Cagliari

Foto di Yan Dieuzaide (di Tulosa), nella 1. e 2. ed. (1957 e 1965)

CAGLIARI – SANT’ANTIOCO – CAGLIARI

Non credo sia utile soffermarsi troppo su questo nuovo itinerario, che disegna un grande cerchio attorno alla punta sud-occidentale dell’isola, attraversandone la regione più ingrata. Tranne che nella sua parte finale, da Giba a Cagliari, offre pochi paesaggi affascinanti, e ancora meno centri abitati. Mi limiterò quindi a menzionare alcune tappe e incontri lungo il tragitto, uno dei quali ci ha trattenuti per oltre due giorni. Eppure non si tratta nemmeno di un episodio specificamente sardo, e avrebbe potuto verificarsi in qualsiasi parte del mondo, anche da noi.

Non siamo ancora arrivati a Decimomannu che già deviamo verso sinistra, attraverso la pianura, per andare a vedere la chiesa romanica di Uta. Si trova proprio all’estremità del paese, nella solitudine di un vecchio cimitero dismesso, all’ombra di grandi eucalipti. La pietra con cui è costruita è una sorta di molassa conchiglifera, che devono aver trasportato da lontano, in questa zona di lagune e saline. Di proporzioni molto belle, non può che essere opera di maestranze pisane. Merita senz’altro di essere inclusa nel prezioso reliquiario di quell’arte che, come ho detto, in Sardegna si è espressa con una nobiltà e una semplicità forse uniche.

A Domus Novas — un nome la cui latinità ci rivela le origini dirette della lingua sarda — svoltiamo stavolta a destra per andare a visitare la grotta di San Giovanni. È, credo, l’unica al mondo in cui si possa attraversare in auto da un capo all’altro senza mai scendere dal volante. L’escursione richiede prudenza, sia per la strettezza e le curve della strada che vi conduce, sia per i meandri oscuri nei quali ci si addentra. Questo singolare passaggio è stato possibile solo restringendo l’alveo di un ruscello che, sotto queste volte schiacciate, fa molto più rumore di quanto giustifichi la sua portata. Sarebbe senz’altro preferibile percorrerla a piedi, ma, oltre al divertimento della novità, non si vedrebbe nulla, se non in prossimità degli ingressi.

I nostri fari sorprendono due innamorati che hanno portato la loro Fiat nel fondo della grotta per godere del fascino della solitudine e delle tenebre. Coprirei volentieri, con discrezione, i nostri fari, se non temessi di graffiare l’abito della Parisienne o farla finire nel ruscello. Devono essere lì da parecchio, questi speleologi dell’amore, perché ci guardano con gli occhi lampeggianti di un gufo bruscamente svegliato nel suo rifugio. Mentre passiamo, mi scuso per la nostra intrusione, ma ci troviamo in imbarazzo quando sbuchiamo all’uscita su un sentiero dissestato che sembra non portare da nessuna parte. Non ci resta che tornare indietro, rifare il percorso nella grotta in senso inverso; ma significherebbe disturbare nuovamente nei loro amplessi la povera coppia.

Valutiamo quindi quanto tempo potrebbero ancora impiegare: «Un’ora», dice Amandine; «Mezz’ora», giudico io da uomo; e facendo la giusta media fra le due stime, decidiamo di attendere tre quarti d’ora prima di ripassare nell’alcova rocciosa. L’attesa non è affatto sgradevole, perché quel sentiero è di una bucolicità commovente, tutto verde, fiori e uccellini. Così ci facciamo una passeggiata a piedi in una valletta di agrumi, piena di profumi nuziali. Bisogna proprio amare la notte e il suo mistero per non aver piuttosto scelto l’ombra di un arancio, tanto più che non incontriamo anima viva fra le piantagioni.

Alla ripartenza, do alcuni colpi di clacson per avvertire gli innamorati; ma bisogna credere che la mezz’ora da me prevista sia stata sufficiente, perché non li rivediamo più.

Iglesias — Le Chiese, in spagnolo, il che denuncia una nuova influenza linguistica — farebbe immaginare una città irta di campanili e cupole. In realtà, non è che un povero borgo dove si trovano solo tre chiese, fra cui il Duomo in stile romanico bastardo.

Entriamo poi nella grande regione mineraria dell’Iglesiente, devastata interamente dall’industria: pendii spogli, ricoperti di fabbriche e case operaie di un tipo uniforme, abitate da poveri diavoli di minatori che avrebbero tutto da guadagnare a tornare contadini. Ma la paga regolare e sicura, alla fine della settimana, deve sembrar loro più vantaggiosa delle incertezze del raccolto e dell’allevamento. L’aria è satura di un tanfo di carburo o di uova marce che nessuna brezza riesce a disperdere.

Procediamo spediti fino all’isola di Sant’Antioco, collegata alla strada da un ponte romano, e saliamo fin sulla sommità del paese omonimo, l’antica Sulcis cartaginese e romana, da tempo traforata da catacombe svuotate fino al midollo dagli archeologi. In un angolo ombroso della piazzetta, ci divertiamo con una banda di ragazzini, fra cui un piccolo lentigginoso dai capelli rossi, del tipo che ne ho visti a centinaia ad Amburgo e a Berlino, ai tempi in cui ancora viaggiavo nelle regioni fredde. Ha giusto l’età per essere nato durante l’occupazione tedesca, e gli altri lo chiamano soltanto Tedesco. Ha già un’aria marziale e si sente che non tarderà a imporsi su tutti quei piccoli latini. Intanto è abbastanza abile da afferrare al volo la maggior parte dei caramel­li che distribuiamo, rivelandosi così degno emulo dei politici del suo paese d’origine.

Ritroviamo la Sardegna rurale a Giba, e lungo tutta la strada che costeggia l’estremo sud dell’isola, fino a Domus de Maria. È tutto un susseguirsi di vigne e mandorli, di fresche vallate, fino a Teulada, dove si direbbe di essere tornati a Milis, tanto il territorio è coperto di aranci e limoni. Qui scopriamo qualche rudimento degli antichi costumi locali, dei quali non avevamo più trovato traccia dalla nostra partenza da Cagliari. Le donne sono vestite come le leggendarie Arlesiane: la gonna lunga, il corpetto attillato, il fazzoletto incrociato sul petto e ricadente a punta sulla schiena. Manca solo la piccola cuffia provenzale, qui sostituita da trecce raccolte a diadema. Le donne di Teulada, avendone l’abitudine quotidiana, si muovono con molta più naturalezza nei loro abiti che le giovinette dei Félibriges, per le quali tale vestiario è solo una mascherata occasionale.

A Pula, ci fermiamo davanti a un circo ambulante che ha piantato la tenda in un prato, non lontano dalla strada, e ci accampiamo sotto dei pini. La grande simpatia che proviamo per questi saltimbanchi di campagna ci spinge a chiedere al direttore il permesso di sistemare la nostra auto nel loro campo e di condividere con loro i pasti, pagando la nostra parte. La cosa lo diverte, e ci chiede se siamo del mestiere. Forse sì, perché in fondo la vita degli scrittori e dei pittori ha qualcosa di scintillante e fortunato, come quella dei circensi. Mi guardo bene dal dargli questa risposta; gli confesso che non abbiamo alcun numero nel nostro bagaglio, ma che saremmo felici di vivere con loro per uno o due giorni. Alla fine acconsente, e ci sistemiamo tra le roulotte, accolti con curiosità amichevole dal personale. Si interessano soprattutto allo spiegamento della nostra biancheria da letto e all’installazione della zanzariera, che, in particolare, ci vale dei complimenti da veri intenditori. Le donne, come prevedibile, si mostrano più riservate; la presenza di un’altra donna le mette un po’ in agitazione, ma Amandine non tarda a conquistare la loro fiducia e viene adottata già la sera stessa. Così abbiamo vissuto per due giorni interi con questo piccolo popolo itinerante d’Italia, che conosco da tempo, avendo in passato accompagnato per oltre un mese, attraverso la Calabria, una compagnia di musicisti e acrobati. I circensi e gli artisti da music-hall sono fra i più onesti e laboriosi in un mondo che sta perdendo il senso della squadra e della disciplina. Assistiamo, al mattino, agli esercizi di allenamento di giocolieri, trapezisti, ballerini, pagliacci e clown senza trucco. Sono attenti al minimo errore, ripetono i loro numeri venti volte finché non ne sono soddisfatti, accettano le osservazioni del maestro senza offendersi, e fanno del loro meglio senza alcuna aspettativa di ricompensa. Questo mi ristora dall’incontrare così spesso uomini di lettere che non sanno scrivere e non hanno né amore né rispetto per il proprio mestiere.

Non ho mai incontrato in questo popolo vagabondo figura più straordinaria di Giska. La credo di origine slava o ungherese, forse zingara, benché abbia sempre vissuto in Italia e parli solo italiano. È una ragazza alta, dai modi un po’ mascolini, con muscoli e collo da adolescente, il volto patetico, scolpito a grandi piani. Esegue un numero con una fisarmonica particolare, un enorme strumento sospeso a una tracolla di cuoio che maneggia premendolo contro il suo ventre piatto. Ne trae suoni quasi commoventi quanto il suo volto appassionato, dagli occhi grandi e annebbiati dall’estasi musicale, dalla bocca intrisa di una sensualità amara. Salda sulle gambe ben divaricate, manovra il gigantesco mantice senza sforzo apparente, con le più sottili sfumature di suono e di accordi. Non guarda mai i tasti, ma sempre dritta davanti a sé, verso la direzione in cui si costruisce il suo sogno. È davvero se stessa solo sulla pista del mattino, quando intorno a lei ci sono solo i suoi compagni intenti agli esercizi. Durante lo spettacolo, deve concedersi al pubblico, riesce persino a sorridere, e il suo straordinario volto ascetico si addolcisce sotto il rossetto e la cipria. Nemmeno l’abito da sera in velluto, con la lunga gonna che deve indossare, sembra fatto per lei. È durante il lavoro quotidiano che bisogna vederla: le braccia nervose, dai gomiti sporgenti, che escono dal corpetto piatto schiacciato dall’accordéon; le gambe robuste, ben disegnate sotto la gonna di cotone. Farebbe fortuna a Parigi, presentata così com’è, senza orpelli né trucco, nella sua piena e animale bellezza, grande artista istintiva e virtuosa di uno strumento difficile, con una poesia di steppa che ho incontrato solo in lei. Ma il direttore le è legato sotto più d’un aspetto, e la calorosa accoglienza che ci ha riservato ci vieta anche solo di pensare di portargliela via. Del resto, che ne sarebbe di lei lontano dall’ambiente che ha scelto? Una tigre in gabbia dietro sbarre dorate.

Un pomeriggio siamo andati a vedere, sul promontorio di Nora, non lontano dal nostro circo, la cappella di Sant’Efisio, patrono della Sardegna. La sua statua, custodita in una teca dorata che somiglia a una sedia a portatori, è quasi sempre esposta alla devozione nella chiesa omonima di Cagliari. Il primo maggio viene trasportata in grande corteo fino alla cappella di Nora, edificata proprio nel luogo dove il santo subì il martirio: una lenta processione che impiega più di un giorno per coprire i circa trenta chilometri del percorso. La statua trascorre infatti la notte nella pineta di Sarroch, a due terzi del cammino, e giunge alla cappella solo nella mattinata del giorno seguente. Il 2 e 3 maggio sono dedicati alle funzioni religiose e alle offerte dei pellegrini. Il 4, il corteo riparte verso Cagliari senza soste, tanto che vi arriva solo a sera inoltrata.

Avevamo assistito, in città, al ritorno del santo nella sua chiesa. È preceduto da una lunga cavalleria piuttosto ben distanziata, con gli uomini in splendidi costumi tradizionali e i cavalli ornati con grandi collari di fiori e rosoni sulle testiere. I musicisti, che indossano una specie di alto fez di feltro rosso, suonano lunghe launeddas a più canne. Anche il loro abbigliamento è orientale quanto il copricapo: sembrano usciti dal serraglio di Istanbul, ai tempi degli Abdül-Hamid. Alcuni cavalieri distinti, in cilindro, scortano direttamente la teca dove la piccola statua del santo ondeggia al passo dei portatori. Migliaia di persone accorse da ogni parte dell’isola per vedere il corteo si accalcano lungo i marciapiedi due o tre ore prima del suo passaggio, con quella pazienza e quell’amore per le cavalcate che appartengono solo agli italiani, e ai sardi ancor di più.

La cappella sul promontorio oggi è vuota, già restituita alla grande solitudine davanti al mare. È antichissima, ma non lo sembra affatto: costruita nell’XI secolo da benedettini di Marsiglia, è stata rifatta cento volte da allora, fino alla piena decadenza del nostro tempo privo di misticismo. Sant’Efisio può ritenersi fortunato a doverci restare solo due giorni all’anno.

Gli amatori di pietre romane avranno di che appagarsi un po’ più avanti, andando verso la punta del promontorio. Vi troveranno i poveri resti di un teatro, del quale è quasi un peccato non si siano usati i blocchi per costruirvi sopra una casa. Ma il paesaggio ripaga: mare blu, promontori e isolotti; in fondo a una baia, Cagliari, rosa come un oleandro in fiore.

Pesca del tonno, di Claude Champinot

Pesca del tonno – foto di Claude Champinot, solo nella 2. ed. 1965

Pula, il circo

Circo a Pula – foto solo nella 2. ed. 1965

Giska, la zingara fisarmonicista di Pula

DA CAGLIARI A ARBATAX

Prendiamo la strada verso nord, ripassando per Monastir, dove deviamo a destra in direzione di Senorbì. Ritroviamo qui in tutta la sua pienezza la vita campestre e pastorale della Sardegna. È, in fondo, il principale fascino di quest’isola: ultimo rifugio di una georgica sincera, dove Virgilio – che non faceva che trascorrere i fine settimana nelle ville imperiali – non troverebbe pane per i suoi denti. Prima di lui e dopo di lui ci sono sempre stati scrittori pronti a dipingere una vita contadina tutta poesia e pastorale, che non è mai esistita se non sulle tavolette di cera o sulla carta. È un filo ininterrotto che va da Teocrito a Giono, il quale però sa bene come stanno le cose quanto alla mentalità dei contadini provenzali. Quando passeggiavamo insieme per la sua campagna di Manosque, mi raccontava al riguardo – con quale talento evocativo! – storie che non avevano nulla di bucolico.

Non esiste forse paese vicino a noi in cui la vita agreste abbia conservato, come in Sardegna, un carattere tanto arcaico. A oriente dell’Europa, la Grecia e i Balcani offrono ancora quadri immutati da secoli, ma si tratta di regioni meno accessibili, mentre la Sardegna è sulla soglia di casa nostra. Se in molte parti della penisola l’esistenza contadina si è modernizzata, qui è rimasta pressoché identica a com’era sotto il dominio romano: con gli stessi attrezzi, gli stessi carri trainati da buoi, gli stessi cortei di cavalli, muli e asini, le stesse greggi condotte sui sentieri da pastori e bovari, cambiati solo nel costume. Sulle strade si incontrano pochissimi camion, e non molte più automobili, e i mercati conservano un’aria quasi medievale. “Vacanze di riposo”: questo dovrebbe essere lo slogan del turismo sardo.

Il contadino, come il suo omologo siciliano, è tra i più duri e pazienti nel lavoro. Tuttavia, non ha certo trasformato la sua isola in un immenso terreno coltivato. La popolazione – circa un quarto di quella siciliana – non lo permette né lo impone. Si è limitato alle terre fertili e ben irrigate: pianure solcate da canali e valli. Ci sono ancora molte foreste sui fianchi delle montagne, un ristoro per la vista quando si arriva dalla siccità brulla della Sicilia estiva. Ma nelle zone che coltiva, il contadino sardo sa sfruttare ogni centimetro di terra: pascoli, campi, frutteti si susseguono lungo la strada che percorriamo stamattina; e quando entreremo nel massiccio del Gennargentu vedremo intere colline lavorate a zappa da generazioni di “terrazzieri”.

Ne offro qui una testimonianza edificante, scattata nei pressi di Dorgali: una vasta valle meticolosamente suddivisa in parcelle a gradoni, tanto da sembrare sospesi sopra le risaie di Giava [campi di riso a terrazzamento sull’isola di Giava, in Indonesia], ogni appezzamento circondato con cura da muretti a secco che sanciscono i diritti del proprietario e fanno da baluardo contro il bestiame del vicino. Si vede chiaramente come il contadino si sia impossessato di ogni minimo tratto pianeggiante, arrivando a colmare le cavità e spianare le sporgenze che potevano ostacolarne l’aratura.

Paesaggio presso Dorgali - di Yan Dieuzaide

Paesaggio presso Dorgali – di Yan Dieuzaide – 2. ed., non nella 1.

Su questa strada di campagna, dove ci fermiamo di continuo per far passare le mandrie, l’unica vera sosta possibile è a Suelli, un paesino di nulla, ma che custodisce, nella sua chiesa di San Giorgio, un brillante polittico del XVI secolo, e soprattutto una cancellata in ferro battuto che chiude la cappella del santo patrono: un’opera in stile spagnolo, di un’elegante sobrietà.

I grandi artisti italiani non si imbarcavano volentieri per quest’isola senza mecenati, dove né la vanità né l’interesse trovavano soddisfazione. A Firenze, il più piccolo tratto di muro da decorare attirava una folla di concorrenti avidi di gloria e denaro. I piccoli podestà della Sardegna non avevano né palazzi né rendite. Non si può dunque qui pretendere troppo, come si ha diritto di fare in Toscana o in Veneto. Viaggio nella natura: è questo, più o meno, il senso di un giro nell’isola, e sotto questo aspetto essa ci appaga, che si tratti di montagna o di costa.

Ce ne renderemo conto soprattutto tra Seui e Arbatax: la più bella strada dell’isola, che vi porta a oltre mille metri d’altitudine, tra paesaggi grandiosi. Foreste di querce da sughero scendono dai monti, con i tronchi scorticati e un’aria da martiri. I rari paesi – Ussassai, Gairo – aggrappati ai fianchi delle colline, promettono più di quanto mantengano una volta raggiunti, ma aggiungono una nota bianca e rosa a un paesaggio romantico. Lanusei, visto dall’alto della strada, si staglia nettamente in primo piano, su una lunga fuga di pendii fino al mare, dove una laguna rotonda assorbe il blu del cielo.È anche una regione di costumi autentici, ancora abitualmente indossati. Se gli uomini non conservano ormai che la berretta, il cui fondo ondeggia buffamente sopra la fronte (D. p. 342), le donne portano ancora l’abito lungo a larghe pieghe e il velo da monaca. Ne incrociamo alcune che tornano dai campi in lunghe file, il fardello in equilibrio sulla testa. Una di loro, alta e slanciata, somiglia a una Vergine gotica, con quel portamento lievemente inclinato delle statuette scolpite in una zanna d’avorio.

Dopo queste madonne del Medioevo, Girasole, vicino a Tortolì, ci offrirà il più curioso contrasto d’abbigliamento, tanto che si direbbe che le donne del villaggio abbiano preso ispirazione dalle riviste di moda parigine: il corpetto scollato in un ampio ovale, le maniche a sbuffo fermate al gomito, la gonna che valorizza le forme, il consueto velo monacale sostituito da un foulard di cotonina, come quelli che usano le parigine nei giorni di vento. Non ci fermeremo a lungo ad Arbatax, porto carbonifero e minerario di quell’Ogliastra che abbiamo appena attraversato. La notte si avvicina e dobbiamo trovare un luogo dove accamparci. Lo cerchiamo invano lungo la strada per Baunei, dove ogni campo è chiuso dal solito muretto in pietra. Decidiamo allora di imboccare un viottolo stretto, solcato da profondi solchi, che sembra condurre verso il mare. E in effetti, attraverso mille curve, vi conduce. Sbucchiamo infine su una sorta di promontorio dominato da una pesante torre pisana: la punta di Santa Maria Navarrese. L’intero spazio è il giardino di una villa: erbe alte, cespugli fioriti, un boschetto di pini che degrada fino alla spiaggia. Sappiamo di poter contare sull’ospitalità sarda. Il proprietario non solo ci autorizza a piantare le tende in un prato vicino alla sua casa, ma si preoccupa anche della nostra cena e finisce per invitarci a mangiare con lui, scusandosi perché l’imprevedibilità della nostra visita non gli consente di riceverci come vorrebbe. In attesa del pasto, ci accompagna fino ai piedi della torre e ci lascia ai nostri bagni nelle acque profonde.

Da lì si apre un immenso arco di spiagge deserte, che si estende fino al promontorio di Arbatax. Da noi sarebbero tutte fiancheggiate da ville. Quella del signor Marini, il nostro ospite, è l’unica di tutta la regione. Quasi tutto il litorale della Sardegna – isola vasta quanto la Sicilia – si presenta così, in un aspetto di solitudine, lontano dalle strade e dal traffico. Su circa trecento chilometri di costa, tra Cagliari e Olbia, non ci sono forse nemmeno venti punti in cui sia possibile raggiungerla, se non per sentieri assai difficili. Eppure, ogni volta che si arriva fin là, si scoprono i paesaggi marini più belli: infinite frastagliature di capi e baie, lo splendore delle spiagge, e verso nord, grandi isole rosate del loro granito. Forse la contemplazione del mare non interessa al sardo, che è soprattutto un montanaro; oppure si deve a quella tradizione del sentimento romano, che considerava il mare con un orrore pieno di timore.

Girasole
Girasole

DORGALI E CALA GONONE

Durante la cena, che si rivela abbondante nonostante il nostro arrivo imprevisto, il nostro ospite ci dice: «Capitate al momento giusto. Domani è festa a Dorgali, ottanta chilometri da qui. Sicuramente vedrete dei bei costumi della regione.»

Lo salutiamo prima di andare a dormire in auto, perché partiamo sempre all’alba, quando tutti dormono ancora.

Sono appena le sei quando entriamo a Baunei. Il gestore del bar, sulla piazza, ha appena acceso la caldaia del caffè, il che ci dà tutto il tempo, mentre attendiamo che salga la pressione, di passeggiare per il borgo. Il giro è presto fatto. Torniamo a osservare il barista alle prese con la sua macchina. Sembra il macchinista di una locomotiva. È tutto intento a girare manopole, consultare quadranti, controllare i livelli dell’acqua. Tutto questo per servirci, dopo tre buoni quarti d’ora, due tazze di caffè. È sorprendente quanto il genio umano sia riuscito a semplificare l’esistenza…

La strada, come sempre lontana dal mare, sale verso nord, parallela alla costa, correndo a mezza costa lungo i fianchi del Turusele, con viste mozzafiato sulla valle del Flumineddu. Tutta questa regione è disseminata di nuraghi costruiti sulle cime più alte, sentinelle che scrutano il mare da dove poteva venire il nemico. Più a nord, nei pressi di Dorgali, è stato portato alla luce un villaggio nuragico con un centinaio di capanne, le cui fondamenta ricordano da vicino il recinto per l’ingrasso dei maiali che abbiamo visto a Ozieri. La nostra svista, quindi, era scusabile. Del resto, non è poi così raro scambiare i maiali per uomini, e viceversa.

Ci siamo attardati tanto nelle nostre esplorazioni protosarde, e ancor più a raccogliere ciclamini selvatici lungo i margini rocciosi della strada, che arriviamo a Dorgali giusto in tempo per la messa solenne. In fatto di costumi tradizionali, attraversando il paese non vediamo altro che le solite vesti nere e i lunghi scialli da testa. Qualche uomo indossa ancora l’antico abito sardo, ma sono tutti molto anziani, e si lasciano fotografare con l’impassibilità dell’abitudine. Uno di loro, che indossa il giaccone di pelle (bestepeddi o mastruca), che vediamo qui per la prima volta dopo settimane di viaggio, accetta di posare per Amandine. Rimane immobile come un nuraghe. È il modello più perfettamente fermo che la mia compagna abbia mai avuto. Si capisce che non è alla sua prima posa, e forse aspettava proprio l’arrivo di un turista; assolutamente disinteressato, ma molto fiero di mostrare ai giovani che la sua mastruca aveva ben altro fascino del loro giacchino e del berretto da supermercato.

Questa mastruca è davvero bella, e fa rimpiangere che quasi tutti gli uomini l’abbiano abbandonata, persino nei giorni di festa, come oggi. È fatta di pelle bianca e color miele, con ricami e frange nere. La camicia e i pantaloni (bragas) sono di tela bianca; le ghette in feltro nero, che sembrano stivali di cuoio. La berretta, di lana nera, è qui ripiegata come una crêpe.

All’uscita della messa mi apposto per fotografare, ma non troverò altro che donne con lo scialle. Una sola, della borghesia agiata, con tacchi alti, indossa un fastoso costume che tintinna di gioielli d’oro; ma sembra sospettosa nei confronti dei turisti, perché sfugge al mio obiettivo. Si allontana voltandosi ogni tanto, con un sorriso soddisfatto. È bella e molto truccata. Si capisce che si è vestita così solo per sedurre gli sguardi degli sconosciuti e per divertirsene, sola in quel costume da sogno, ripeto, fra le circa trecento donne che escono dalla chiesa. Per tutto il giorno non ne vedrò un’altra vestita come lei.

Il vero costume, quello d’oggi, molto decaduto, lo ritroverò ovunque, portato da tutte le donne: per strada, alla fontana, nei lavori domestici. Le ragazze sono creaturine deliziose, quasi bambine, graziose in ogni movimento. La testa, di un ovale purissimo, è ben posata sul collo, come in tutte le portatrici d’anfore. I tratti sono fini, animati da un bel sorriso. Si percepisce un’origine saracena, probabilmente ben radicata in questa zona montana anche dopo la conquista genovese e pisana. Sono molto più piccole degli uomini, e conservano a lungo un’aria da fanciulle.

Avevamo notato, di passaggio, una strada in galleria che si diramava sulla destra, e quindi doveva condurre al mare. La carta sommaria di cui disponiamo ci conferma che scende infatti a Cala Gonone, sulla costa. È uno dei venti accessi comodi al mare di cui parlavo prima. Per renderlo possibile, è stato necessario perforare la montagna nella sua interezza e realizzare, a caro prezzo, una perfetta strada a tornanti che discende lentamente da quattrocento metri fino al livello del mare.

Abbiamo deciso di accamparci lì, o magari di trovarvi alloggio: questa nuovissima località balneare dovrebbe offrire qualche hotel. È la villeggiatura estiva degli abitanti di Nuoro, che dista solo una trentina di chilometri.

Il sito è molto bello, la località invece banale quanto basta, creata per portafogli modesti ma che sogna di diventare la nuova Sanremo. Non manca neppure il lungomare asfaltato, carico di ambizioni: si allunga per cinquecento metri senza una sola casa, piantato di alberi nati già morti, dotato di panchine in cemento, per poi restringersi bruscamente in un sentiero da cavatori, a livello del mare. È qui che ci accamperemo stanotte, dopo aver sistemato la Parisienne tra le rocce, con il muso rivolto al largo, di fronte a un grande paesaggio di falesie e colline boscose. Non le abbiamo mai perdonato di essersi fatta trascinare dai buoi. Poiché fa i capricci nei verdi pascoli, dovrà accontentarsi di questo suolo pietroso. Amandine, nata a Montmartre, dichiara: «Le farà bene ai piedi.»

Cala Gonone doveva essere, un tempo, un bel villaggio di pescatori, prima dell’invasione dei villeggianti. Se ne intravede ancora qualcosa dietro le ville pretenziose, i cui bei giardini esplodono di vegetazione odorosa. Gli abitanti, d’estate, si dedicano a pescare per i vacanzieri e a portarli in barca alla tradizionale visita alla Grotta del Bue Marino (della foca, letteralmente). Un tempo vi si arrivava anche a piedi, lungo un sentiero, ma “qualcuno” ha distrutto la scalinata che vi conduceva, perché i visitatori non sorvegliati rompevano le stalattiti per puro divertimento. Versione ufficiale. Io sospetto piuttosto che siano stati i pescatori del posto a demolire quella scalinata per garantirsi le tremila lire della gita in barca — proprio come gli indios del Paricutín abbattevano i ponti per assicurarsi il noleggio dei loro cavalli. L’uomo è sempre lo stesso, ovunque, ed è davvero divertente.

Ceniamo all’hotel, in compagnia di un giovane veneziano che è venuto fin qui solo per esplorare le grotte della zona. Ce ne sono molte, quasi quante i nuraghi. Pare siano molto interessanti, e vi si trova un coleottero che non vive in nessun altro luogo al mondo. Questo insetto riesce quasi a sedurmi, ma le grotte no. Ne ho viste talmente tante nei cinque continenti, e mi ci sono talmente annoiato, che la curiosità per esse mi è passata per sempre. Il veneziano conosce tutte quelle dei dintorni, e ne sa valutare i meriti di ciascuna. Quando avevo vent’anni mi interessavano le donne — e mi interessano ancora, del resto — ma non vedo nulla di male se si diventa uomini delle caverne già a quell’età. Questo ragazzo è solo quello. Per tre ore, nonostante la presenza di Amandine, ci parlerà solo di speleologia, di speleologi e, a tratti, del coleottero speleologico. A parte questo, è un tipo intelligente, sembra colto, e si esprime in un toscano puro, ben scandito, senza la minima traccia di accento veneziano.

Questa deformazione professionale, che porta un uomo a parlare solo delle sue occupazioni o del suo mestiere, mi ha sempre lasciato perplesso. Non mi è mai venuto in mente, nemmeno con colleghi, di parlare di letteratura, tantomeno delle gesta dei suoi seguaci. Che io mi diverta a scrivere libri e, talvolta, a leggerne qualcuno d’altri, mi basta per il mio consumo del genere. Il mondo letterario, salvo pochi vecchi amici — a cui non posso rimproverare di maneggiare la penna, visto che li ho conosciuti così — non mi interessa affatto. Non c’è nulla che mi annoi di più che sentirne parlare, ancor più se si tratta dei miei libri, perché, una volta stampati, non mi appartengono più e cessano completamente di occuparmi il pensiero.

Mi piace molto parlare di agricoltura con un contadino, di insetti con un entomologo, persino di grotte con uno speleologo — ma mi stupisce sempre che loro ne parlino, e ancor di più che parlino solo di quello. Eppure, su questa terra, ci sono migliaia di cose che meritano d’essere conosciute e approfondite. Che importanza hanno allora la speleologia e la letteratura?

Quando cala la notte, torniamo al nostro accampamento. La Parisienne, con il cofano rivolto al largo, brilla al chiaro di luna, con tutti i suoi cromature e vernici — l’abbiamo lavata a una fontana — e medita sul suo triste destino di vagabonda. Ci addormentiamo con la musica delle ondate che vanno a mormorare sotto i suoi pneumatici. Un allocco, molto lontano, lancia sospiri che spezzano l’anima. Sogno di penetrare nei fianchi di un coleottero e di scoprirvi delle stalattiti…

Dorgali - di Amandine Doré
Dorgali, alla fontana

Dorgali – foto nella 1. e 2. ed.

Dorgali, uscita dalla messa

Dorgali – Foto solo nella 1. ed.

NUORO – ABBASANTA – NUORO

Abbiamo ancora da esplorare il cuore dell’isola, in quella magnifica regione di Nuoro, attraversando i massicci montuosi della Barbagia e del Mandrolisai. Evitiamo di prendere il raccordo veloce della Traversa — e facciamo bene a risalire verso nord, perché ci imbattiamo in pieno mercato a Orosei, sulla piazza del Popolo. È il centro commerciale della ceramica del territorio, le belle giare panciute che le donne di Dorgali portano ancora sulla testa. Queste anfore contadine si allineano in vere e proprie mandrie dalle forme generose lungo i marciapiedi, all’ombra dei platani, e attorno a un alberello che occupa il centro della piazza. Le case basse, senza particolare stile, si distinguono per il colore: è questo il solo vanto architettonico di tutti i borghi del Barigadu.

Pochi i costumi tradizionali, e solo molto semplici, tra le donne che costituiscono la grande maggioranza del pubblico; assenti del tutto tra gli uomini. Le giare sono troppo ingombranti, e nella piccola ceramica non troviamo nulla che valga la pena: la vendita è stata prosciugata dalle maioliche industriali.

Ci incamminiamo verso Nuoro, risalendo la stretta valle di Onifai, ma siamo appena usciti da Orosei che qualcosa ci fa fermare: davanti a un portale da fattoria, con un’ampia volta — un edificio di questo genere è così contrario agli usi locali che decidiamo di andare a vedere. Il portale si apre su un’esplanade circolare, contornata da casette basse e punteggiata da qualche giovane cipresso. Al centro sorge una lunga chiesa tozza, di un’umiltà tutta rustica.

Non è dunque una fattoria, come avevamo pensato, ma un luogo di pellegrinaggio: il Santuario del Rimedio, ci dice una vecchia signora. Ci accompagna fino alla chiesa e ci apre i due battenti per far entrare meglio la luce. In effetti, l’interno è piuttosto buio, nonostante la calce bianca dei muri.

Al centro, su un tavolino ricoperto da un tappeto da bazar, una bella Vergine incoronata, avvolta in un grande mantello di seta, regge col braccio sinistro un Bambino vestito come una bambina, mentre il destro è carico di rosari e oggetti non identificabili. Il muro dietro di lei è ricoperto di ex voto in cera — per lo più neonati, con le braccia tese nel medesimo gesto — e un intero campionario di protesi: gambe, braccia, mani a coppie, perfino teste, testimonianza delle numerose guarigioni operate dalla Madonna del Rimedio.

Ai lati della tavola e sull’inginocchiatoio di legno dipinto, calle, rose e glicini formano un piccolo giardino povero; e due ceri, in alti candelabri, si piegano sulle loro stesse spine, tanto fa caldo.

Quelle che avevamo preso per casupole, soprattutto quelle che circondano l’esplanade — edifici senza piani, ma traforati da una miriade di porte — sono in realtà alloggi temporanei per i pellegrini, nei giorni di festa. Non abbiamo visto altrove in Sardegna — ma non l’abbiamo vista tutta, va detto — un centro di devozione di questo tipo, così comune in Messico e nei Balcani, una sorta di caravanserraglio per fedeli venuti da molto lontano.

La vecchia ci racconta che, in tempo di pellegrinaggio, il grande cortile si riempie di carretti e animali da tiro sciolti, si cucina davanti a ogni porta, e in ciascuna cella dormono anche una dozzina di persone.

Alla data che ci indica per la prossima celebrazione, saremo chissà dove, Dio solo lo sa — perché non siamo mai riusciti a stabilire in anticipo né programma di viaggio né itinerario. L’unica volta che ci è capitato di dare appuntamento a un amico — era a Panama — quel giorno ci trovavamo a Houston, in Texas, a qualcosa come quattromila chilometri più a nord. Dopo averci aspettati otto giorni, ha proseguito il suo viaggio e lo abbiamo ritrovato, un anno dopo, nella metropolitana.

È ancora un viaggio tra paesaggi gloriosi, questa strada da Nuoro. Tutti gli itinerari che seguiremo nei prossimi giorni avranno la stessa qualità; quindi non vi tornerò sopra, se non con qualche pennellata di dettaglio. Per quanto riguarda le città, l’ho detto più volte: hanno fascino solo viste da lontano. Scorgere Bitti, per esempio, tutta bianca nella sua conca di roccia e di verde, può suscitare un’ammirazione legittima che però svanisce, trasformandosi in noia, non appena si entra nelle sue strade. Molte città nel mondo provocano la stessa delusione, e la nostra Francia non ne è esente.

Dopo Nuoro, riprendiamo verso sud il tratto di strada dove la mia Parisienne aveva fatto i capricci in un piccolo avallamento. La fermiamo a bordo della strada, sopra il prato, teatro del suo cedimento. Non è molto fiera: queste macchine, a forza di vivere tra le mani dell’uomo, finiscono per avere sentimenti. Quando le faccio compiere un’impresa difficile, le accarezzo il cofano come si fa con il collo di un cavallo, e sono convinto che ne sia felice.

A Mamoiada, svoltiamo verso Gavoi, nella Barbagia, borgo che attraversiamo senza trovarci nulla, se non una chiesa bizzarra, appena restaurata, sovrastata da un campanile tre volte più grande di lei.

Ci tengo a passare la notte a Sorgono, di cui avevo letto una descrizione invitante in un libro del 1900. So bene che bisogna diffidare sempre dell’entusiasmo dei viaggiatori. Gli svarioni che provoca mi sono serviti da lezione: si impara il mestiere un po’ dappertutto. I circa tremila volumi di viaggio della mia biblioteca mi hanno insegnato il senso della misura, la legge della più rigorosa sincerità. Nulla mi urta quanto l’esaltazione permanente di uno scrittore di fronte allo splendore universale di un paese, perché so fin troppo bene, per esperienza, che non è mai vero. Non parlo, ovviamente, dei libri scritti sotto l’egida del turismo nazionale – molto più numerosi di quanto si pensi – ma di quelli redatti da scrittori disinteressati, così imbevuti del paese che descrivono da non vederne più che meraviglie. Mi hanno messo in guardia contro un lirismo convenzionale dove tutto è luce, senza ombre né sfumature. «Amo teneramente Parigi, anche le sue verruche e le sue macchie», ha detto Montaigne. Quale paese non ne ha?

Questa postfazione a un libro che sto per concludere mi è venuta sotto la penna proprio a Sorgono, dove non ho ritrovato alcuno dei pregi incomparabili che l’autore del 1900 si compiaceva di segnalare. Eppure, non è possibile che in mezzo secolo questo villaggio di montagna si sia trasformato da cima a fondo. Dev’essere stata l’immaginazione dello scrittore a galoppare, rivestendo d’immagini sgargianti una realtà piuttosto spenta. Questo villaggio, malgrado il paesaggio che lo circonda, non ha nulla che lo distingua dalla banalità di molti altri. È persino più povero e scolorito. La sua chiesa, che l’autore diceva romanica – in realtà un gotico aragonese senza sorprese – se ne sta rannicchiata su un rialzo, i cui gradini presto, se non è già accaduto, saranno cementati. Inutile dire che non abbiamo visto neppure uno dei costumi sfolgoranti che lo stesso autore descriveva: ma qui, forse, era sincero, e non è colpa sua se il tempo gli ha dato torto. Dormiremo comunque lì, nell’unica locanda del posto, i cui proprietari, per gentilezza e pulizia, mi faranno dimenticare non tanto la delusione – ho un’immaginazione prudente – quanto la mediocrità del paese.

Il giorno dopo, all’alba, intraprendiamo la scalata della catena montuosa che ci separa da Ortueri e dal grande lago artificiale dell’Omodeo. Il cammino – non lo si può chiamare una strada – attraversa paesaggi sorprendenti, come quelli di cui ho già parlato. È fatto della pietra locale, rosa salmone: arteria viva e palpitante, che non conosce la congestione nera dell’asfalto. Se ho rinunciato a viaggiare a piedi, come un tempo, è proprio per la funebre monotonia di quel rivestimento bituminoso – sì, comodo per chi guida, ma tedioso e stancante per chi cammina – per di più di un colore uniforme che non si fonde mai col paesaggio.

La discesa da Ardauli fino alla riva del lago va gustata lentamente. L’uomo, nell’industrializzare il suolo, è riuscito – suo malgrado – a creare paesaggi del tutto nuovi, quasi irreali, e questo ne è un esempio. Il lago, lungo una ventina di chilometri, segue capricciosamente le ondulazioni del terreno sommerso. È molto largo a nord, più stretto a sud, punteggiato da due o tre isolotti rotondeggianti e di un verde fresco: antiche colline da pascolo non del tutto sommerse. Incastona la sua placca di giada in una cornice rosa, bianca e verde, fatta di pendii nudi o boscati. E poiché l’uomo non ha ancora avuto il tempo di installarsi sulle sue sponde, si estende in mezzo a una solitudine primitiva, un po’ triste ma maestosa.

Un ponte di cemento consente di attraversarlo nel punto più stretto. Proprio di fronte, a mezza costa sulla collina, si trova una grande casa antica che ha l’aspetto di un castello, con una scalinata di pietra che sale diritta dalla riva fino alla facciata. Probabilmente era la dimora del ricco latifondista che possedeva l’intera valle. Il paesaggio acquatico, troppo nuovo per lui, lo ha forse allontanato? O sono state le leggi agrarie? Tutte le finestre sono sfondate, il tetto è crollato. Un oste di Abbasanta ci dirà che ne faranno un hotel per turisti. È la soluzione più facile: o questa, o una casa di riposo per operai, o un sanatorio, per salvare – si fa per dire – tanti bei castelli che cadrebbero in rovina per mancanza di fondi. Lo stesso delizioso maniero normanno da cui scrivo queste righe, con i suoi fossati, il portale a ponte levatoio, la facciata rinascimentale e i suoi tetti alti alla Luigi XIII, conoscerà forse un giorno questo oscuro destino.

Sull’altra riva del lago si estende una vasta regione ricca di ciò che caratterizza più intensamente la Sardegna: chiese romaniche e nuraghi. Ghirlaza ne possiede una del XIII secolo, costruita con filari alternati di trachite bianca e nera, la cui patina ne attenua il contrasto. È un’umile granaio del Signore, incastonato tra i muri di una fattoria, semplice come la preghiera di Marta, la serva di Gesù. Abbasanta non ne offre nessuna, ma in compenso, in fondo a una via, ci regala il delizioso insieme della Parrocchiale, forme e colori che avrebbero tentato il caro Dufy, se fosse stato ancora tra noi. Un frontone di un dorico elementare, mattoni rosa incorniciati di grigio delicato, mentre il campanile, al contrario, incornicia il grigio nel rosa. Sormontato da un piccolo bulbo in stile moscovita, di ceramica verde, gialla e arancione – quest’ultimo tono a fare da accordo. La cupola e la lanterna sono rivestite di tegole rosse, rosso corallo, con una punta di giallo indiano, osserva Amandine che ne fa uno schizzo. Sotto la balaustra, in cima alla torre, un orologio rotondo spalanca un occhio azzurro, azzurro come quello delle Fiamminghe.

Facciamo una breve deviazione sulla strada per Oristano per visitare il grande nuraghe di Losa, accessibile da un comodo sentiero sulla destra. È la fortezza più complessa dell’immenso sistema difensivo che protegge tutto il settore. Non è così spettacolare né così ben conservato come quello di Santu Antine, ma ci rivela ancor meglio l’ingegnosa strategia dei protosardi. La torre centrale, di cui resta intatto un solo piano e l’inizio della scala a chiocciola, era circondata da tre torri disposte a triangolo e collegate da corridoi di enormi blocchi non squadrati, proprio come a S. Antine. Potrei fornire molti altri dettagli curiosi su questa costruzione primitiva – in particolare sulla realizzazione della volta centrale – ma un’analisi più approfondita uscirebbe dal quadro di questo libro, che non vuole affatto vantarsi di competenze archeologiche. Il lettore interessato potrà abbondare di informazioni negli innumerevoli studi pubblicati sull’argomento. È utile conoscerli se si vuole comprendere questa civiltà scomparsa e cercare di illuminarne la cronologia ancora oscura.

Ritornati ad Abbasanta, prendiamo verso nord-est, costeggiando un’estremità del lago Omodeo. Qui ci sarebbe anche spazio per un bel bagno, se l’acqua, da questo lato, non fosse solo una pellicola su un fondo melmoso.

Il paesaggio è completamente cambiato. Non è altro che una pianura ondulata che il lavoro dei contadini ha frammentato in migliaia di parcelle irregolari, delimitate da muretti e disseminate di sughere: un insieme dalla composizione quasi geometrica, dove anche le forme tonde non mancano. Il catasto, da queste parti, dev’essere una sfida, tra angoli ottusi e curve, quasi nessun campo quadrato o rettangolare.

Sedilo non è niente, ma il suo santuario di Sant’Antine, poco distante dal paese, possiede una poesia rustica intensa, costruito davanti a uno di quei grandi paesaggi agresti che evocavo poco fa. Si anima una sola volta all’anno, nei primi giorni di luglio, con un pellegrinaggio e una cavalcata, una delle poche occasioni in cui si possono ancora vedere i costumi tradizionali, ormai così rari altrove.

A Ottana, scopriamo, in cima a un colle erboso, una bellissima chiesa romanica con abside sporgente, San Nicola, costruita in pietra quasi nera, con la facciata perfettamente disegnata e incrostata di losanghe in ceramica colorata. Forse non è la più bella dell’isola, ma è certamente la più originale – senza gli eccessi che spesso si nascondono dietro a questo aggettivo. Se la si vuole ammirare nel suo contesto naturale, vale la pena farne il giro. L’abside domina, da quel lato, un’aia contadina i cui edifici bassi mettono in risalto la snellezza dell’architettura. È lo stile del rito gregoriano, l’unica musica che abbia saputo esprimere le più profonde aspirazioni del sentimento religioso.

Oltrepassiamo infine una strada già nota, percorsa in senso inverso andando verso Silanus e Bosa. Attraversiamo Nuoro solo per salire in cima all’Ortobene e ritrovare il nostro campo già familiare, sotto le sughere, ai piedi del colossale Redentore, circonfuso di luci elettriche.

Santuario del Rimedio

Santuario del Rimedio, foto nella 1. e 2. ed. (1957 e 1965)

Abbasanta
Contadini nel cortile di un caffè sardo, di Claude Champinot

Contadini nel cortile di un caffè sardo, foto di Claude Champinot (solo nella 2. ed.)

DA NUORO A OLBIA

Ultima tappa, almeno così credevamo. Nuova illusione, come sempre, perché oggi non andremo oltre La Caletta, sulla costa orientale. Non potevamo prevedere gli incontri, né un famoso incidente alla staffa in un posto di carabinieri, né i nostri vagabondaggi lungo la costa alla ricerca di un campeggio tranquillo.

A Bitti facciamo colazione sulla terrazza di un bar, in una piazza ombreggiata da vecchi platani. A parte l’acqua calda, prendiamo dalle nostre provviste, come nelle proverbiali locande spagnole, tutti gli elementi di questa colazione. Amandine, guardando la piazza, gli alberi e le case, riflette:
— «Non ti ricorda niente?»
— «Vagamente… ma insomma?»
— «Maussane!»

È un borgo della Provenza, tra Arles e Les Baux, dove abbiamo vissuto per mesi. La somiglianza è assoluta, fino ai più sottili rapporti di atmosfera e luce. E non è un caso unico. Molti di questi paesini sardi, purché si trovino in pianura o su terreno pianeggiante, ricordano stranamente quel settore della Provenza, da entrambi i lati delle Alpilles.

Bitti

Bitti – foto solo nella 1. ed.

La strada per Siniscola, a mezza costa sul versante nord dei Monti di Albo, è una delle più commoventi e inumane dell’isola. Fino a Lula conserva ancora il carattere di poesia agreste dei paesaggi sardi, ma poi diventa soltanto un deserto di macchia montana e pietraie, che domina immensi orizzonti tumultuosi, accavallarsi di cime tondeggianti all’infinito, i versanti in ombra tesi come velluto nero con riflessi dorati, i fondovalle di un verde-azzurro, alla Patinir [Joachim Patinir, pittore fiammingo], un cielo ceruleo incastonato tra i rilievi come un vetro smerigliato.

Ci fermiamo vicino a una fonte, un tubo di ferro che emerge da una frana di macerie, in pieno sole, senza il minimo segno di vegetazione. Nel punto in cui il getto si schianta, cresce dell’erba su tre o quattro piedi quadrati, perché l’acqua si perde subito nel terreno. È gelida al punto da far male alle gengive, e mi fa trasalire quando la ricevo sulla nuca. Mentre riempiamo i nostri recipienti, arriva un uomo a cavallo di un asino, il primo essere umano e il primo animale che incontriamo su questa strada deserta. Si ferma vicino a noi per far bere la sua cavalcatura. In mancanza di un abbeveratoio, gli prestiamo la nostra bacinella di smalto, che l’asino svuota fino a tre volte.

L’uomo è di Lula. Ci racconta che la maggior parte dei giovani del suo paese è partita per la Francia, a lavorare nelle fabbriche. Ci hanno detto spesso la stessa cosa anche in Sicilia, ma la Sardegna non è affatto sovrappopolata, come l’altra grande isola. Qui l’emigrazione è verso salari più alti che verranno risparmiati franco su franco per formare finalmente un piccolo gruzzolo da mandare a una sorta di vedova carica di bambini. Il malthusianesimo andrebbe predicato alle nazioni prolifiche, ma i governi di oggi, che hanno bisogno di carne da cannone o da neutroni, preferiscono condurre i loro popoli verso una carestia inevitabile.

Sopraggiunge da un sentiero, venuto chissà da dove, un carabiniere con due pistole automatiche alla cintura e tutta una fila di caricatori. Appena lo vede, il contadino monta sull’asino e si allontana al trotto. Verso questi rappresentanti dell’ordine sono tutti pieni di un rispetto terrorizzato. Questo qui ci chiede di riaccompagnarlo alla sua stazione, a qualche chilometro di distanza. È un servizio che non si può davvero rifiutare a un uomo così ben armato. Ho solo un timore: che il suo arsenale esploda durante il tragitto, perché trasporta almeno un chilo di esplosivo; a ragione, forse, dato che ci dice, lungo la strada, che il settore è pericoloso, non perché i montanari attacchino i passanti, ma perché la vendetta vige ancora come un tempo in Corsica. Chi ha ucciso prende il maquis (la macchia) e diventa pericoloso, soprattutto per i carabinieri che gli danno la caccia. Sono quasi sempre storie di donne o ragazze sedotte, raramente d’interesse. La vendetta non tarda ad arrivare, e la famiglia del nuovo morto si fa un punto d’onore vendicarlo a sua volta. Un uomo abbattuto dai gendarmi mette fine alla serie, ma allora sono questi ultimi a essere minacciati. Non è quindi un mestiere tranquillo, come da noi. Si vive con il dito sul grilletto.

Lasciamo il nostro carabiniere davanti alla sua stazione. Ci prega di attendere un momento e, dopo aver scambiato qualche parola con il suo comandante, ci invita a bere un bicchiere nella sala al piano terra, più protetta dal sole che dai banditi. Dentro è fresco, e altrettanto fresco è il vino, versato a fiaschi colmi in nostro onore, delizioso come tutti quelli dell’isola. Viene accompagnato da quelle piccole scatole tonde di antipasti — cipolle, carote, cetriolini disposti a mosaico e insaporiti a dovere — che stimolano ancora di più la sete. Siamo una decina intorno al tavolo, e i fiaschi si susseguono a buon ritmo. Devo però ricordarmi che la strada è difficile, i tornanti pericolosi, che il sole pomperà verso il mio cranio questi vapori inebrianti e che sono responsabile di ciò che ho di più caro al mondo. Perciò lasciamo che la compagnia finisca di svuotare le sue bottiglie “panciute”, non senza promettere di tornare.

La discesa verso Siniscola, attraverso una moltitudine di tornanti, mi rassicura sulla fermezza della mia guida. A ogni istante si aprono meravigliosi scorci sulla distesa del mare, d’un blu reso più cupo dalle pendici calcaree che lo incorniciano. Man mano che ci si avvicina alla città, il verde grigiastro dei mandorli invade le colline. Ben presto non resta altro che un grande frutteto che lo racchiude da tutti i lati.

Avendo consumato a Siniscola entrambi i nostri pasti della giornata, abbiamo avuto tutto il tempo di percorrere le sue strade senza trovare nulla che valesse nemmeno il più semplice dei costumi che ci erano stati promessi.
In fondo, perché li cerchiamo? Perché i viaggiatori, anche i meno attenti, sono così golosi di questi abiti nazionali o locali?
È che tutti avvertono confusamente la terribile uniformità che si sta estendendo su tutto il mondo. Essa avanza, alla velocità del jet, non solo sui costumi, ma anche sull’arredamento e perfino sull’architettura.
Lo stesso grattacielo a celle quadrate, alveare di un’umanità ridotta allo stato di sciame addomesticato, si erge nei cinque continenti, rifugio provvisorio, destinato a una prossima rovina, di uomini vestiti degli stessi abiti confezionati in serie, seduti sugli stessi poltroncine-club, circondati dagli stessi mobili prefabbricati.
Se la gente vola verso paesi lontani, è perché spera di trovarvi qualcosa che la liberi dall’opprimente monotonia delle forme, le reliquie di una personalità che un tempo sfumava all’infinito il volto del mondo.
Il costume regionale ne è l’espressione più familiare, più facilmente percepibile, e anche la più colorata.
Qualunque siano il modello, i colori o le decorazioni, esso è sempre più bello e più aggraziato delle povere e spente vesti che siamo condannati a portare: la livrea di un mondo livellato.

Non avendo nessuna possibilità di arrivare a Olbia oggi, al ritmo con cui procediamo, decidiamo di spingerci fino al mare e di piantare le tende da qualche parte lungo la costa. Questo ci porta dapprima a Santa Lucia, attraversando quella che qui chiamano una bonifica, cioè il prosciugamento di una zona paludosa per trasformarla in terra coltivabile, in sostanza una “bonificazione”. Tutto questo settore, non molto tempo fa, era spopolato a causa della malaria e devastato dalle inondazioni. Oggi è seminato, e si sogna di stabilirvi delle stazioni balneari. Santa Lucia è una di queste, immersa in una pineta di giovani pini che è stata suddivisa in lotti, per ora poco ambiti.
Sulla riva, una vecchia torre rotonda, semidiroccata, sorveglia, in mezzo a un deserto abbagliante di sabbia, un gruppetto di povere case che, forse un giorno, tra secoli, diventeranno un’altra Juan-les-Pins [famosa stazione balneare della Costa Azzurra]. Verso sud si distende un’infinità di spiagge deserte, molto più belle di questa triste riviera suburbana.
La zanzara anofele solitaria, portatrice di febbre, è stata probabilmente cacciata, ma è stata rimpiazzata da nugoli di mosche, che ci mettono in fuga più della paura della malaria.

Facciamo marcia indietro e prendiamo questa volta la strada per La Caletta, destinata in un futuro molto lontano a diventare il Lido della Sardegna; per ora, non è che un posto squallido quanto Santa Lucia, solo senza la torre pisana e senza le mosche, probabilmente località estiva dei lavoratori di Olbia e Nuoro in ferie pagate, e mal pagate.
Durante il nostro passaggio, comunque, vi stavano costruendo un “hotel per turisti”, come annunciava un grande cartello, nello stile rustico color rosa salmone delle piccole pensioni sulla costa dei Mori.
Non posso dire nulla a riguardo, non avendo avuto voglia di essere tra i primi a collaudare l’intonaco, o meglio il cemento, ma posso raccomandare caldamente quella spiaggia a chi non sa nuotare: bisogna camminare molto prima di avere l’acqua fino a metà coscia.

Tornando ancora una volta verso Siniscola, notiamo un sentiero sterrato che si inoltra tra i prati.
Le malve che crescono tra le carreggiate ci assicurano che non è molto frequentato.
Conduce al margine di un boschetto di lecci che forma un piccolo vallone idilliaco: il luogo ideale per un campeggio tranquillo, uno dei più accoglienti che abbiamo trovato sull’isola, e l’ultimo delle nostre tappe da vagabondi.
Ci torneremo al calare della notte, dopo una cena senza sorprese e senza prelibatezze, come la maggior parte dei pasti che la Sardegna ci ha offerto.
Gli immancabili spaghetti al pomodoro, naturalmente, occupano il primo posto.
Ci si imbratta tutto intorno alla bocca più che si può.
Amandine mi osserva per un attimo e poi scoppia a ridere:

— Che succede?
— Meno male che non sono gelosa! Sembri uno che ha appena baciato una donna sulla bocca!

All’alba, nel dormiveglia, sento passare nel vallone il dolce scampanio di un gregge.
Pare che il pastore o il capraio abbia segnalato la nostra presenza, perché mi sveglio di soprassalto per via di forti pugni battuti contro la carrozzeria dell’auto.
In casi simili, rari per fortuna, spunto fuori dall’apertura del tetto, a metà busto, come una marionetta da teatrino, facendo così indietreggiare l’importuno, che si aspettava di vedere aprirsi la portiera.
La curiosità dei due uomini, contadini in camicia da lavoro, resta delusa: non vedranno nulla di quello che si trova dentro l’auto, nemmeno la pistola Browning che ho in mano.
Sono comunque brave persone.
Uno dei due si scusa per averci disturbati; si era preoccupato vedendo la macchina che sembrava abbandonata, e stava andando ad avvisare i carabinieri.
Se sapesse come ci hanno accolti la sera prima nella loro caserma, ci guarderebbe con molto più rispetto. Lo ringrazio della cortesia e invito i due curiosi a lasciarci dormire.
Si allontanano subito, voltandosi ogni tanto per salutarci con ampi gesti delle loro coppole.

Rientrando nel mio rifugio, sento Amandine mormorare tra i capelli:

— Cos’è successo?
— Nulla, solo qualche fagotto…

Si è già riaddormentata. Non c’è nulla al mondo che invidi di più di quel sonno da bambina. Il mio riposo, invece, è sempre mezzo vigile, popolato di sogni sciocchi. Tanto vale non provare nemmeno a rimettersi a dormire. Esco in pigiama a passeggiare nel vallone, immerso nel profumo di mirto e lavanda. L’alba è l’ora più esaltante della giornata, la più feconda. Pare che anche lo spirito, come le piante, schiuda le sue foglie e i suoi fiori.

Alle sette siamo già in viaggio, risalendo verso nord lungo la costa. Ci laviamo sotto il ponte della Posada, l’unico tratto dove il torrente scorre all’ombra. L’acqua è limpida e fresca, ma nemmeno nei punti più profondi supera le ginocchia. Proviamo più volte a raggiungere il mare per farci un bagno, invano: da questo lato è bordato di lagune fangose. E quando, oltre San Teodoro, la costa diventa rocciosa, ogni accesso si fa impossibile.

Per il suo addio, la Sardegna ci offre un prodigioso bouquet di isole e promontori. Un tripudio di rose — e non solo —: gladioli, garofani, peonie, giacinti…
Il profumo, invece, è tutto di iodio, portato dalla brezza che ha attraversato le spiagge coperte di alghe.

A Olbia, dopo mezza giornata passata a cercare riparo dall’arsura, ci imbarchiamo verso sera sulla Sicilia, gemella della Lazio.
Prima issano la nostra Parisienne, poiché nel garage inferiore non c’è più posto: la sollevano con un sottile cavo d’acciaio e la depositano con delicatezza, in alto, tra gli alberi della radio.
Poi saliamo noi, veterani ormai delle passerelle e dei ponti superiori.

Mentre la nave è ancora attraccata, ci sistemiamo nella sala di lettura e sfogliamo opuscoli e brochure su quest’isola che abbiamo percorso in lungo e in largo e che stiamo per lasciare.
Tanti imbarchi, in tanti porti del mondo, ci hanno insegnato che non si deve mai voltarsi a guardare le terre dove si è vissuto.
Quando lasciammo Tahiti, dopo tre anni di felicità quasi irreale, scendemmo nella nostra cabina, chiudemmo le persiane dell’oblò, e sentimmo il piroscafo che si staccava dalla riva, senza nemmeno il desiderio di volgere un ultimo sguardo all’isola sensuale.
Ne conserviamo ancora un ricordo tenero, a volte nostalgico, ma non torneremo mai più.
A che servirebbero i rimpianti, gli sguardi all’indietro?
Di fronte a noi, l’orizzonte è ancora carico di terre sconosciute.

Porto Cervo, Smeralda, (foto Cl.  Hébert-Stevens)

Porto Cervo, Consorzio della Costa Smeralda – foto Cl. Hébert-Stevens (solo nella 2. ed. 1965)

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